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Valigetta di sopravvivenza nell’era dell’innovazione sociale

Spesso mi sto trovando a scrivere per La Disillusione di un concetto tanto rivoluzionario quanto fumoso, quello dell’innovazione sociale.
Non esistono definizioni condivise del concetto, tanto più che l’accademia e la teoria hanno dedicato poco spazio all’analisi e allo studio del suo significato. In termini generali possiamo definirlo come uno strumento pratico e teorico che si riferisce a tutte quelle nuove idee che si impegnano per raggiungere obbiettivi sociali. Se vi sembra che voglia dire tutto e nulla, non siete soli.

Vale la pena però cercare di entrare più nello specifico, se non altro perché il concetto sta trovando tappeti rossi stesi da parte di istituzioni di ogni genere, molto affascinate dalle soluzioni promesse in merito alla discrepanza crescente tra i bisogni relativi alla qualità della vita degli individui e delle comunità, e le risposte tradizionalmente proposte.

Bisogna tenere presente che il termine ‘innovazione sociale’ è di per sé un termine neutro. Inteso come processo di miglioramento di prodotti e processi, è presente nella nostra società da sempre ed è stata motore dei cambiamenti storici della nostra organizzazione sociale e di vita quotidiana.

È vero, però, che la veste che l’innovazione sociale indossa cambia a seconda delle ragioni che la spingono ed è vero anche che l’innovazione sociale diventa più significativa in momenti di cambiamenti particolarmente veloci.

Oggi, l’innovazione sociale si presenta come quel processo che tenta di riappacificare la dimensione utilitaristica della nostra economia, preponderante e dalla faccia poco umana, con quella sociale, sempre più rumorosa e insoddisfatta. È anche quel processo che compensa la ritirata delle garanzie storicamente garantite dai nostri sistemi di welfare, dando risposte immediate ai bisogni di anziani, disabili, genitori, donne e individui di tutti i tipi.    

Bisogna tenere presente che all’interno delle innovazioni ricadono “buone innovazioni”, “cattive innovazioni” e persino “finte innovazioni”. Mi riservo di dedicare all’argomento almeno una tesi di dottorato prima o poi in futuro, mentre per quanto riguarda questo articolo, voglio spostare l’attenzione su un tipo di innovazione sociale a cui mi sto dedicando negli ultimi mesi: le competenze trasversali, in inglese soft skills.

Mi trovavo da poco ad un tavolo con professionisti del terzo settore in cui ci siamo trovati tutti d’accordo nel dire che una delle più grandi innovazioni a cui stiamo iniziando ad assistere sia la marcia indietro del sistema della specializzazione a favore di un sistema in cui cresceranno di importanza proprio le competenze trasversali.  

Ultimamente si inizia a parlarne anche in Italia, soprattutto in ambito aziendale e nel settore privato, perché i datori di lavoro sono sempre più in cerca di figure flessibili a cui si possano insegnare competenze specifiche ma che portino nel proprio bagaglio la capacità di svolgere compiti complessi che richiedano quindi competenze diverse dalle conoscenze settoriali.

In inglese, le soft skills sono chiamate così in contrapposizione alle hard skills. Per hard skills si intendono tutte quelle competenze che vengono insegnate all’università o sul posto di lavoro. Un economista sa calcolare i tassi di interesse, un medico sa diagnosticare una malattia, un ingegnere sa fare i calcoli delle strutture.  Sono per la maggior parte settoriali, se si escludono alcune skills come quelle legate all’utilizzo delle tecnologie che invece diventano sempre più indispensabili indipendentemente dal lavoro. La specificità delle hard skills si spiega con la accresciuta complessità e specializzazione del mondo e del lavoro.

In questi tempi strani, in bilico tra il trionfo e la disfatta del neoliberalismo, personalmente sono passata dal considerare le soft skills, le competenze trasversali, come un ennesimo modo di servire il capitale, una “brutta innovazione sociale”, a credere che siano strumenti potentissimi sia a livello personale che, potenzialmente, a livello sociale.

Perché?

Le competenze trasversali servono a raggiungere un obiettivo, anche il più semplice.

Per esempio, se il mio obiettivo è quello di fare colazione con il caffè e una mattina mi rendo conto di essermi dimenticata di comprarlo, le soft skills mi permettono di non incazzarmi e rompere una tazzina per esprimere la mia frustrazione (intelligenza emotiva), di prepararmi un tè per permettermi comunque di cominciare la giornata (problem solving) e di programmare di passare al negozio a comprare il caffè dopo il lavoro così da averlo per l’indomani (time management).

Chiaramente poco importa se poi rompo una tazzina o se una mattina salto la colazione, ma è chiaro che quando gli obiettivi diventano più complessi o la posta in gioco è più alta, diventa sempre più importante possedere questo tipo di capacità.

Quando ho iniziato a sentire parlare di soft skills, mi si rizzavano i peli delle braccia a pensare come si trovassero sempre nuovi modi di rendere più produttivi i lavoratori. Ma con il tempo ho cominciato a vederle come strumenti utili al raggiungimento di un obiettivo che prescinde dall’aumento della produttività.

Ognuno di noi ha alcune capacità comportamentali più o meno pronunciate. C’è chi potrà essere bravissimo nella gestione del tempo ma non capire più niente quando si trova davanti ad un imprevisto. Qualcuno potrebbe trovare naturale riuscire a controllare le proprie emozioni ma avere assolutamente zero capacità di curare i dettagli.

Tutti questi aspetti diventano importanti quando nella vita ci troviamo a desiderare di raggiungere un qualsiasi obiettivo. La buona notizia è che su tutte queste competenze si può lavorare e anche ciò che ci viene meno naturale può essere imparato.

Le scuole danesi che insegnano l’empatia attraverso la condivisione dei problemi individuali di gruppo e la mediazione guidata, per esempio, stanno insegnando proprio una soft skill, quella dell’intelligenza emotiva, perché l’empatia è una di quelle emozioni che permettono una migliore convivenza con gli altri nella propria vita così come in un contesto professionale.  

Senza che l’efficienza diventi una malattia, parlare e insegnare le competenze trasversali potrebbe tanto aiutare in un mercato del lavoro sempre più fluido, quanto ridurre lo sforzo che le persone si trovano ad affrontare nei processi di crescita personale.

Senza contare che combinate tutte assieme, definiscono delle menti creative e innovative, che davanti al mondo non vedono né staticità, né accettano lo status quo, ma al contrario muovono tasselli e costruiscono nuove figure.

Ecco perché indipendentemente dal fatto che le aziende ci richiederanno sempre di più di dimostrare di avere queste capacità, dovremmo prendere le competenze trasversali sul serio. E integrarle nei programmi scolastici. E trovare degli strumenti adatti per l’insegnamento, strumenti di tipo tecnologico, tradizionale o del tutto innovativo.

A che punto siamo noi?

Francesca di Biase


Fonti:

http://www.rivistaimpresasociale.it/archivio/item/56-oltre-la-retorica-della-social-innovation.html

https://qz.com/763289/denmark-has-figured-out-how-to-teach-kids-empathy-and-make-them-happier-adults/

http://www.cnos-fap.it/sites/default/files/articoli_rassegna/pellerey_rassegna1-2016.pdf

https://www.university2business.it/2019/02/14/competenze-trasversali-la-rivincita-delle-soft-skill/

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