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Il reparto di Sara: un’infermiera in corsia

Sara (nome di fantasia) ha appena conseguito la laurea in infermieristica. Dopo anni di sacrifici  e tirocini al Policlinico Gemelli è riuscita a coronare il suo sogno, quello di lavorare, aiutando coloro  che hanno bisogno di assistenza. Persone che entrano in ospedale e non sanno se e quando ne  usciranno. Ha scelto di dedicare la sua carriera professionale in un ambiente dove è costantemente  presente un clima suddiviso tra vita e morte, in cui non è facile resistere per una ragazza di soli venti anni. 

Eppure, nonostante lo stress che si avverte in quel luogo, nel quale il dolore non ti lascia mai, Sara non ha mai perso il sorriso, neanche ora che è stata inviata nel reparto di rianimazione Covid: 20 posti letto che si svuotano e si riempiono alla velocità della luce. Ogni mattina si alza  alle 5 del mattino e percorre la galleria Giovanni XXIII. Un gesto che compie da tre anni, da quando  ha iniziato a studiare all’Università Cattolica di Roma, ma che ora assume un significato ancora più  profondo. Prima di entrare nel suo nuovo reparto deve compiere una procedura obbligatoria per  tutelare la sua incolumità e quella degli altri, quella di vestirsi accuratamente di una tuta bianca che  dopo un minuto le causa una sudorazione eccessiva, due maschere chirurgiche nel volto che le  provocheranno nelle ore successive un lungo segno sul viso.

È il suo primo giorno di lavoro e l’ansia  si unisce all’emozione di andare a svolgere quello per cui è nata, aiutare gli altri. Oggi rispetto a ieri  però, i pazienti sono quasi tutti malati Covid e non affetti da semplici e curabili patologie. Le chiedo  con disinvoltura, data l’amicizia che ci lega da anni, l’età di quei pazienti. La sua risposta mi  sorprende, rivelandomi subito che è rimasta colpita dalla presenza di una donna di 40 anni. Lo  ammetto, mi allarmo. Aveva malattie pregresse? No. Sana come un pesce, nessuna patologia, eppure  si ritrova intubata da fili e macchine che le pompano ossigeno. Come se lo ha contratto? Che domanda  inutile, è Covid, se lo è preso e basta. Mi sento immediatamente fragile.

Provo a cercare ad alta voce  delle spiegazioni plausibili, ma non le trovo. Riesco solo a pronunciare un “capisco ma bisogna saper  interpretare i dati, rispetto ai contagiati nel mondo il numero di morti non è così alto, considerando  che siamo 7 miliardi di abitanti”.

Mi risponde cercando di rassicurarmi, ma non riesce a trattenersi dal rivelarmi la verità. “La situazione è grave, anche in molti ospedali del Lazio sono finiti i posti  letto per le terapie intensive. Un intero piano del Gemelli, di 11 piani, presenta solo pazienti Covid  e molti medici sono preoccupati più per questa ondata che per la prima dello scorso marzo. È vero  che il virus attuale sembrerebbe essere meno aggressivo, ma risulta anche più contagioso; tra l’altro alcune risorse, come le mascherine destinate agli stessi infermieri, stanno terminando.” Penso che  se una donna ancora giovane e sana si ritrova al reparto di rianimazione, tutti siamo a rischio. 

Domando a Sara come è possibile trovare un vaccino sicuro, se ci sono ancora quesiti senza risposte.  “Il virus è di tipo RNA, si trasforma in continuazione e questa è una delle motivazioni per cui è così difficile trovare l’antidoto e la cura.” A quanto pare però, l’azienda statunitense Pfizer insieme  a BioNTech sembrerebbe esserci riuscita con un risultato efficace del 95%. Nel sito del colosso  farmaceutico si tratta proprio la questione della mutazione del virus e si ritiene che “la tecnologia del  vaccino RNA abbia la capacità di essere facilmente adattata e potenzialmente modificata in modo  relativamente rapido per affrontare nuove mutazioni del virus. Poiché questa tecnologia non include  tutto o una parte dell’agente patogeno reale, ma utilizza invece il codice genetico dell’agente  patogeno, potremmo potenzialmente modificare il codice genetico del candidato vaccino per  affrontare qualsiasi cambiamento del virus.”

Prima di cantare vittoria, però, sarebbe opportuno attendere il prossimo anno quando verranno  somministrate le prime dosi del vaccino. L’unica certezza risiede in un solo imperativo categorico:  non bisogna abbassare la guardia, soprattutto ora. Sara mi guarda e dice che tra dieci minuti deve  scappare perché a breve le ricomincerà un altro turno. “Ti trattano bene almeno i tuoi colleghi?” La  sua risposta mi rincuora “Si, la maggior parte sono giovani come me e mi chiedono sempre se ho  bisogno di aiuto. La mia tutor mi ha affiancato a lei per questi primi quindici giorni e questo mi rende  più tranquilla; è esperta in area critica e potrò imparare molto da lei”. Prima di andare via le chiedo  se secondo lei la giovane donna ce la farà ad uscire dal reparto rianimazione. Mi guarda con il suo  solito dolce sorriso, “lo spero”.

Irene Pulcianese

Fonti:

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Maschere urbane

La pandemia ha impattato fin da subito sulla vita di migliaia di esseri umani,
creando paura, scompiglio e precarietà. Tra tutti i cambiamenti necessari alla propria
sopravvivenza, la popolazione ha dovuto fare particolarmente i conti con un nuovo e inaspettato
nemico: le mascherine! La convivenza con questi strani aggeggi non è sicuramente iniziata nel
migliore dei modi a causa della forte confusione data dalle diverse tipologie di dispositivi esistenti,
dai complicatissimi metodi di utilizzo, dalla momentanea carenza industriale e dalle numerose fake
news che continuano ancora oggi ad avvelenare i social. Ma dopo sette lunghi mesi pandemici,
contando 45 milioni di casi e più di 1 milione di morti in tutto il globo, come se la staranno cavando
le nostre scimmie parlanti? Saranno riuscite a adattare la propria vita ai dispositivi di protezione
individuale o avranno adattato questi ultimi al loro quoziente intellettivo?

Se anche voi siete stati contagiati dalla curiosità, vediamo insieme alcuni dei tipi di mascherine da
coronavirus nati durante questo venti-venti pazzerello:

1) Il rapper
In preda alla nostalgia degli anni ’90 e delle braghe a vita bassa, decide che questo è il momento più
opportuno per rilanciare il vecchio stile underground che in passato gli fece guadagnare qualche
numero di telefono e diverse perquisizioni dalla Cinofila.
È possibile riconoscerlo per strada grazie alla particolare combo culo e naso di fuori.
A voi l’arduo compito di riconoscere quale sia il deretano e quale il viso.

2) La fashion blogger virale
Non sarà di certo una pandemia o le centinaia di migliaia di morti a fermare questa imprenditrice
digitale! Che vada al supermercato, dal fruttivendolo, dal ferramenta, a passeggiare con le amiche o
a portare fuori la spazzatura, poco importa: avrà sempre la mascherina perfetta da abbinare al
proprio outfit unico e smart.
Un like, un contagio!

3) Il patriota ritardato
Uomo di mezza età che si distingue tra la folla per la mascherina tricolore, che indossa con grande
orgoglio quando si reca in una nota catena di alimentari francese per acquistare delle pesche
spagnole in sconto. Dopo sette mesi di pandemia, non si è ancora accorto dell’etichetta dietro
all’elastico recante la dicitura Made in China.
Attualmente, il WWF lo considera una specie protetta.

4) Lo sprovveduto
Di ritorno da un’esperienza mistica di isolamento in mezzo alla foresta amazzonica per ritrovare se
stesso, scopre di ritrovarsi invece in un mondo post-apocalittico in cui la nuova moneta globale è la
carta igienica. Vani sono i tentativi di accaparrarsi una mascherina: è troppo tardi.
Era possibile riconoscerlo dalla sciarpa di lana intorno al volto.
Anche metà maggio.
Con 30°C all’ombra.
Si è estinto prima dell’apertura delle Regioni.

5) L’astronauta
Schiavo di un probabile disturbo d’ansia generalizzato, o semplicemente della propria ignoranza,
può essere facilmente avvistato per la bardatura con doppia maschera FFP3, visiera in vetro
antiproiettile, dieci paia di guanti in fibra di carbonio, e tuta protettiva antiradiazioni.
Mentre si reca a buttare la spazzatura.
In piena campagna.
Alle tre di notte.
Non è dato sapere come abbia fatto a racimolare il bottino.
Cugino alla NASA? Agganci con il Pentagono? Svaligiatore seriale di farmacie?
Anche i numerosi medici morti per mancanza di dispositivi di protezione continuano a chiederselo.

6) Il DIY
Specie ormai scomparsa da diversi mesi: si vocifera che l’ultimo esemplare sia morto asfissiato nel
vano tentativo di respirare attraverso una mascherina creata ad hoc con la carta da forno.

7) L’ingegnere
A seguito di un intervento odontoiatrico particolarmente doloroso, ha l’illuminazione di convertire
la propria mascherina portandola sul mento, per sorreggere la mandibola e alleviare il mal di denti.
In fondo, la pandemia non ha cambiato davvero tutte le vite in peggio.

8) La ciminiera
Niente e nessuno può fermare la sua dipendenza.
Neanche un virus respiratorio che ha fatto più morti di numerose guerre, accanendosi soprattutto
con chi avesse problemi polmonari.
Il fumatore DEVE fumare.
A questo fine, grazie a qualche strana reazione biochimica encefalica catalizzata da diverse crisi di
astinenza, ha la brillante idea di ricamarsi una mascherina su misura apponendo un foro di
inserimento per le sigarette.
«Guarda mamma, fumo senza mani!».

9) Selfino e Selfina
Questi millennials cresciuti a pane e Scrubs sono finalmente pronti a prendersi la rivincita su
quell’ingiusto del Test di Medicina, dopo anni di frustrazione e biologia delle marmotte.
E qual è il modo migliore se non intasare tutti i social networks con i propri selfie indossando una
mascherina chirurgica?

10) Il pompato
Notizia recente è la scoperta di nuovi esemplari intravisti mentre camminavano a passo sicuro con
apertura pettorale da una Virgin all’altra.
Secondo gli esperti, si tratterebbe di una specie evoluta a causa delle pressioni ambientali esercitate
dalla riapertura delle palestre e sembrerebbe aver sviluppato alcune forme primitive di
comunicazione, basate sul colore della mascherina apposta in bella vista sul bicipite dominante.
Ancora rimane un’incognita il significato di questo comportamento: affermazione territoriale sui
propri simili o banale tentativo di mascherare i residui dell’asimmetria muscolare sviluppata durante
le ore solitarie della quarantena?
Gli scienziati auspicano la collaborazione della comunità internazionale per riuscire a rispondere a
questo ed altri quesiti.

11) Il riporto
Dopo decadi di vessazioni e derisioni subite a causa della propria alopecia ippocratica, finalmente
può uscire di casa a testa alta e affrontare il mondo: grazie alla mascherina comodamente indossata sulla testa, nessuno noterà più i problemi di calvizie! Tutti saranno magicamente distratti dalla sua
stupidità!
Successo garantito.
Decesso pure.

12) Il no-mask
Alcuni scienziati hanno individuato il suo parente più prossimo nel no-vax, con cui condivide il
98% del genoma e un QI di 50 punti. Numerosi studi filologici hanno inoltre permesso di
rintracciare un comportamento molto simile a quello mostrato dai primi mammiferi durante
l’estinzione di massa del Cretaceo dei dinosauri: infatti, questi esemplari di complottista sarebbero
rimasti nascosti nelle proprie tane per diversi mesi, uscendo a riscoprire la luce del Sole e ad
inquinare il mondo solo una volta scongiurato il pericolo del picco della pandemia.
Altri gruppi di ricerca, invece, si sono impegnati per decifrare i comportamenti sociali sviluppati
con l’allentamento delle restrizioni, concludendo che questa nuova specie si rifiuterebbe di
utilizzare le mascherine, come si può dedurre anche dalla denominazione scientifica, per la strana
credenza che tali dispositivi rappresenterebbero delle museruole adibite a sottomettere la
popolazione ad una non meglio precisata dittatura sanitaria: viste le peculiarità, alcuni esperti hanno
proposto di ribattezzare la specie Caput fallum, consigliando peraltro l’utilizzo di mezzi più
conformi alla particolare fisionomia, al posto delle mascherine, quali i preservativi.
Ad ogni modo, ancora oggi la comunità scientifica fatica a raggiungere un’intesa a riguardo di una
questione fondamentale: questa specie provocherà prima l’estinzione delle altre o la propria?
Le prossime manifestazioni in piazza potrebbero darci finalmente una risposta.

Quasi medico

L’ora più buia è sempre quella prima della fine della quarantena

“L’ora più buia è sempre quella prima dell’alba” è una frase tra le più potenti tra quelle che potete leggere in un libro di aforismi. Porta con sé un messaggio di speranza nelle avversità, ricordando che l’alba sta per arrivare, ma al contempo riesce a mettere in guardia dai facili entusiasmi, perché se anche il sole sta per sorgere è ancora piena notte. Rintracciare un autore non è semplice: la riportano in diverse maniere Dan Brown ne “Il simbolo perduto”, Batman ne “Il cavaliere oscuro” e Paulo Coelho da qualche parte non meglio identificata. Non dispiacerà a nessuno dunque se me ne approprio anche io, adattandola a questa particolare fase: “L’ora più buia è sempre quella prima della fine della quarantena”.

È infatti iniziata dal quattro maggio la famosa “fase 2” dell’emergenza coronavirus, portando con sé parecchie nuove libertà e molta speranza. Dal diciotto maggio queste libertà saranno ulteriormente ampliate, e già si prospettano caroselli a un metro di distanza, trenini guantati e lanci di mascherine come nelle cerimonie del diploma statunitensi. Insomma, l’alba sembra effettivamente alle porte. Perché però questa è l’ora più buia?

Tra le principali novità introdotte dalla fase 2 ce ne sono due non previste, due autentici paradigmi di queste settimane: la disuguaglianza e l’incertezza. Soprattutto per i giovani.

La fase 1, quella del lockdown duro e puro, aveva sostanzialmente schiacciato tutti in una condizione di prigionia dorata. Citando Le sei e ventisei di Cremonini, la fase uno ci costringeva a “sentirsi liberi, prigionieri e simili”, perché sebbene più o meno dotati di più svaghi di quanti una persona alle prese con l’ultima grande epidemia prima di questa potesse immaginare, eravamo privati del contatto con i nostri simili, elemento imprescindibile per un animale sociale come l’essere umano. E tutti ci dicevamo che dal 4 maggio “torneremo liberi” (sempre Le sei e ventisei), “ma liberi da che?” (ancora la stessa canzone, sembra che nel 2008 Cremonini avesse già previsto tutto). Nell’episodio 3×04 della serie “Bojack Horseman”, uno dei più belli e particolari nonché forse simbolo di tutta la serie, il protagonista pronuncia una frase sconvolgente: “In questo mondo terrificante, ci restano solo i legami che creiamo.”

Nella vita di tutti noi questi legami sono la struttura su cui poggiano tutte le altre sovrastrutture: il lavoro, gli hobby, i soldi, lo studio, etc. Questi legami sono coloro con cui si condividono le emozioni, le esperienze, gli attimi, le aspettative, le gioie e i dolori. Risulta evidente dall’esperienza di ognuno di noi che questi legami non siano sempre riconducibili ai coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge).
Si dice spesso che gli amici siano “la famiglia che ti scegli”, ebbene, questa famiglia è allora mutilata.

Se si decide tuttavia di ritenere accettabile quanto previsto dal decreto, insorge la disuguaglianza.
La fase 1 aveva portato nelle nostre vite una situazione che, in base ai diversi gradi di lirismo, si può identificare come un mal comune mezzo gaudio o come una catarsi collettiva. Il primo lo associo a ritrovarsi chiusi in un ascensore bloccato, il secondo a un popolo invaso durante una guerra. Trovandosi questa situazione più o meno a metà strada, io le reputo buone entrambe. Nella fase 2 tutto questo non c’è più. La condizione di prostrazione psicologica comune a tutti fino al tre maggio ora è particolarmente acuita in chi non ha parenti da andare a trovare, o che è entrato in quarantena senza avere precedentemente un partner. La sfera sessuale è quella meno considerata in quest’emergenza, come se davvero nel 2020 si sia ancora dell’idea che vivere la propria sessualità non sia una parte determinante della nostra salute psicologica. Non entro nel dettaglio perché servierebbe un lungo articolo solo per parlare di questo, ma noto come ci sia poco da stupirsi considerando che è ancora largamente diffusa la concezione della salute psicologica come meno prioritaria rispetto alla salute fisica.

Chi ha il proprio partner in un’altra regione, o addirittura all’estero, non ha ancora avuto modo di vederlo, e chissà quando potrà farlo. Per chi non lo ha proprio, la situazione è ancor più complicata: escluso l’esiguo numero di relazioni che nascono e si strutturano in chat, quando si potrà tornare ad approcciare nuovamente? E quand’anche avverrà, è lecito aspettarsi che nella concezione di sacrosanto distanziamento con la quale dovremo continuare a convivere fino alla distribuzione di un vaccino efficace sarà ancor pià difficile poter capire la situazione che si sta vivendo e interpretarne i segnali.

Tutto il discorso degli ultimi quattro paragrafi è basato tuttavia su una premessa: la volontà di tornare alla vita precedente. Ma siamo sicuri che essa vi sia? Ciò con cui non si fa i conti è l’incertezza.
Non sono infatti pochi i casi, specialmente tra i più giovani, in cui non vi è la volontà di tornare ai ritmi pre-lockdown. Per alcuni vi è una riscoperta di ritmi più lenti, che spesso venivano considerati figli di un vizio capitale, quella biblica accidia che oggi più spesso chiamiamo pigrizia. “Davvero però velocità è sinonimo di efficienza?” chiedeva Danilo Iannelli in un articolo del lontano 2017. “Non accade spesso che, a causa di un’eccessiva corsa alla velocità, si finisca per compiere gesti di fondamentale importanza meccanicamente, né più né meno che come automi, trascurando appunto operazioni che di meccanico – volendo essere davvero efficienti – hanno di ben poco e che, anzi, abbisognano di una certa riflessività? Ben inteso, sto parlando di una velocità non nel senso fisico del termine, quanto piuttosto nel senso più comune e quotidiano: portare a termine quante più operazioni possiamo nel minor tempo possibile – rapidità, allora, se più vi piace.”
Oggi possiamo rispondere.

Questa situazione viene definita come “sindrome del prigioniero” o “sindrome della capanna”. Non è un vero e proprio disturbo mentale, quanto piuttosto una condizione particolare causata da un periodo prolungato di clausura, che in questo caso è dovuto al coronavirus, ma che può anche essere una lunga degenza. Si crea una piccola bolla domestica, nella quale non solo si scoprono nuovi ritmi, ma ci si sente anche protetti dai pericoli che sono all’esterno.

Se anche però non si fosse trovata una nuova routine migliore della precedente, meno vincolata dall’ossessione della produttività, e si ipotizzasse un ritorno al febbrile febbraio, la domanda che sorge è: ne vale la pena? Ci si è faticosamente abituati alla quarantena e ora non sarà facile riprendersi i propri spazi, riusciremmo poi a tornare di nuovo alla clausura se i contagi dovessero aumentare nuovamente? Quanto sono elastici i nostri paradigmi?

Non si può non trovare pesante non sapere se da fine mese ci saranno nuove concessioni o se torneranno vecchie ristrettezze, non sapere come si potrà svolgere il proprio lavoro o seguire le proprie lezioni nei mesi a venire, non sapere se e come si potrà avere una manciata di giorni per rilassare i nervi in un’ipotetica vacanza, non sapere nulla di ciò che ci aspetterà. Si prospetta un lungo viaggio verso l’ignoto, un’odissea nello strazio.

Come sarà a tutti parso evidente fin dalle prime righe, questo articolo non cercava di dare risposte. La speranza è quella di mettere per iscritto domande che circolano confusamente nelle teste di tutti noi da settimane, domande che forse non sono state poste da chi si è totalmente dimenticato di preoccuparsi dei giovani.

Paolo Palladino

SITOGRAFIA:

Se non posso guardare avanti allora guardo dentro: il valore terapeutico dei sogni in quarantena

Mi è capitato di rendermi conto che, in questi giorni di lockdown, sogno molto di più. O meglio, i miei sogni si sono fatti più vividi, intensi, e quando mi risveglio riesco a ricordarli più facilmente. E quasi sempre essi mi hanno catapultato indietro nel tempo, in situazioni scomode del passato, che sono state faticose da affrontare, o semplicemente di difficile comprensione. Il giorno mi sento magari serena, tranquilla, produttiva; la notte il mio inconscio dà sfogo a tutte le preoccupazioni. Sogno spesso di relazionarmi con persone che non fanno più parte della mia vita, oppure di vivere situazioni comuni della mia quotidianità pre-quarantena, ad esempio università, scuola di ballo, incontri con amici, ma con il terrore di essere contagiata. Ho pensato allora che, non avendo nessuna certezza del futuro, non potendo proiettare il nostro pensiero verso il domani e quel che verrà, allora quel che ci rimane non è altro che pensare a ciò che abbiamo ora, a quello che abbiamo lasciato indietro, e magari dare alle nostre esperienze una nuova chiave di lettura, perché no, anche attraverso i sogni. 

Mi sono documentata su questa cosa dei sogni e della quarantena, e sono uscite fuori cose molto interessanti. Ma prima andiamo ad analizzare i principali impatti psicologici che la quarantena può avere su di noi. 

L’IMPATTO PSICOLOGICO DELLA QUARANTENA

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Innanzitutto c’è da dire che, per evitare la diffusione di un virus, in mancanza di soluzioni tempestive, l’unico mezzo sembra essere quello della quarantena. La quarantena consiste nel limitare il raggio d’azione delle persone esposte a malattie contagiose, per monitorare se a loro volta hanno contratto il virus. La finalità è quella di limitare l’introduzione della malattia infettiva e la diffusione dell’agente patogeno. 

Naturalmente, però, anche la quarantena ha risvolti psicologici a breve e lungo termine, ed è lecito domandarsi quali siano, e come poterli arginare al meglio. 

Qualche giorno fa mi sono imbattuta in una ricerca molto interessante di The Lancet, apparsa per la prima volta il 26 Febbraio 2020 e intitolata “The psycological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence”. 

La review si focalizza, appunto, sull’impatto psicologico della quarantena, e i suoi potenziali effetti sulla salute mentale. Per farlo si basa sui risultati provenienti da 24 studi, svolti in 10 nazioni e condotti su persone affette da SARS (= severe acute respiratory syndrome), Ebola, MERS (= middle east respiratory syndrome), influenza H1N1 e influenza equina. Per ognuna di queste sindromi era stata adottata la quarantena come forma di contenimento. Tra questi, spicca uno studio svolto sul personale medico impegnato nell’emergenza SARS e sottoposto a quarantena. Nove giorni dopo la fine della quarantena, i medici riportavano sintomi quali sfinimento, distacco dagli altri, ansia, irritabilità, insonnia, poca concentrazione, indecisione, evitamento, peggiori performances di lavoro, riluttanza a lavorare e considerazione di dimissioni. Tutti sintomi compatibili con il disturbo acuto da stress. Nel disturbo acuto da stress, le persone hanno vissuto un evento traumatico, sperimentandolo direttamente o indirettamente. I soggetti possiedono ricordi ricorrenti del trauma ed evitano gli stimoli che glielo riportano alla mente. I sintomi compaiono entro 4 settimane dell’evento traumatico e durano almeno 3 giorni ma, diversamente dal disturbo post-traumatico da stress, non più tardi di 1 mese. 

In alcuni dei casi analizzati nello studio però, i sintomi sono stati osservati anche tre anni dopo il periodo di quarantena. 

Un altro studio comparava i sintomi da stress-post traumatico in genitori e bambini sottoposti a quarantena, con quelli di genitori e bambini non sottoposti a quarantena, con risultato che i livelli di stress dei primi erano quattro volte più alti e il 28% dei genitori sottoposti a quarantena riportava sintomi sufficienti da giustificare una diagnosi di disordine mentale correlato ad un trauma, rispetto al 6% dei genitori che non erano stati in quarantena. 

In generale si è dimostrato che un importante fattore di rischio è costituito dalla pre-esistenza di problematiche legate all’ansia, che possono aggravare le paure e lo stress. 

Altri fattori stressanti che si è visto possono scaturire nel periodo della quarantena e in quello immediatamente successivo, e che vanno tenuti in considerazione per poterne limitare gli effetti negativi sono: 

  • PAURA DELL’INFEZIONE 
  • FRUSTRAZIONE E NOIA 
  • INFORMAZIONE POCO CHIARE O INADEGUATE 
  • PREOCCUPAZIONI A LIVELLO SOCIO-ECONOMICO

Per affrontare la quarantena il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha fornito alcuni suggerimenti utili: 

  • INSTAURARE NUOVE ABITUDINI, RIDUCENDO I MOMENTI DI NOIA 
  • RISCOPRIRE LE PROPRIE PASSIONI 
  • RIMANERE IN CONTATTO CON PERSONE A NOI CARE 
  • EVITARE LA RICERCA COMPULSIVA DELLE INFORMAZIONI 

SOGNI E QUARANTENA

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Per quanto concerne i sogni, sembra proprio che non sia solo una mia impressione ma che essi, nel periodo della quarantena, si siano fatti più intensi, più lunghi e più facili da ricordare. Come è possibile? 

Primo motivo: dormiamo di più e per questo si è allungata e intensificata anche la fase REM (= rapid eye movement), chiamata così per essere la fase del sonno più profondo, in cui compaiono i classici movimenti oculari e sorgono anche i sogni più vividi. In questa fase, curiosamente, il cervello mostra la stessa attività di quando è sveglio. 

Secondo motivo: non ci risvegliamo in modo traumatico, con una sveglia che ci impone di scattare in piedi e per questo abbiamo più tempo per passare dal sonno al dormiveglia e poi allo stare in piedi; in questo passaggio il nostro cervello consolida meglio i ricordi di ciò che abbiamo sognato, anche con la giusta sequenza. 

Terzo motivo, ma non meno importante: il momento che stiamo passando, come abbiamo detto già precedentemente, ha cambiato drasticamente il nostro modo di stare al mondo, ansie, incertezze e paure sono moltiplicate. In generale le persone che hanno subìto un forte trauma tendono a ricordare meglio i loro sogni, come aveva dimostrato uno studio in seguito al crollo delle Torri Gemelle a New York. 

In questo periodo, quindi, i nostri sogni possono essere più inquietanti, carichi di simbolismi e strane rappresentazioni della realtà. La ricerca da tempo suggerisce che il contenuto dei nostri sogni sia legato al nostro modo di pensare da svegli. Poiché durante la quarantena la nostra vita si è ridotta alle dimensioni di poche stanze, abbiamo molto meno stimoli quotidiani a cui attingere e inconsciamente andiamo a scavare nel passato. Non dobbiamo preoccuparci, quindi, se il nostro occhio, o meglio, in questa occasione, il nostro cervello non sa guardare oltre. Non dobbiamo colpevolizzarci se ci sembriamo ancorati al passato o alle paure del presente. Anzi, una delle funzioni terapeutiche più note dei sogni è quella del problem solving: attraverso il sogno possiamo capire come risolvere un problema che non eravamo riusciti a scardinare. Il sogno può indicarci una chiave di lettura che non avevamo prima, e sciogliere alcuni interrogativi. 

Per non sprecare questo piccolo ma grande “tesoretto” dei sogni, Deidre Barrett, psicologa della Medical School Harvard, ha creato un blog, I dream of Covid”, con relativa pagina Instagram @idreamofcovid, nel quale chiunque può inserire il proprio sogno. Barret li classifica a seconda della zona di provenienza e argomenti e li accompagna a un disegno che evoca la natura del sogno. La psicologa si è lasciata ispirare dal lavoro della giornalista Charlotte Brandt durante i primi anni del nazismo: si fece raccontare i sogni di persone che vivevano col terrore che al potere arrivasse Hitler, e nel 1966 pubblicò un best seller mondiale, “Il Terzo Reich dei Sogni”. 

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Giorgia Andenna

SITOGRAFIA: 

Fase 2: sbucciare un ananas come se fosse una mela

Uno dei grandi passi verso l’età adulta l’ho fatto il giorno in cui ho deciso fosse giunto il momento di sbucciarmi la mela da solo. Ho imparato a scegliere il coltello giusto e ho migliorato la tecnica.

Sfruttando questa abilità acquisita, ho iniziato a sbucciare anche le pere e le arance. Ma c’è un frutto che è la mia nemesi. L’ananas. Odio sbucciare l’ananas. Il motivo è semplice: non basta saper sbucciare una mela per saper sbucciare un ananas.

Il fatto che l’obiettivo sia sempre quello di “sbucciare frutta”, non significa che si faccia sempre allo stesso modo. Perché cambia la dimensione della frutta, la forma, la consistenza, lo spessore della buccia e tanto altro.

Ecco, lo stesso identico principio vale per il controllo delle infezioni a livello di popolazione.

Qual è il miglior approccio per contenere il coronavirus?
Abbiamo davanti frutti molto diversi da tagliare. Perché da un Paese all’altro cambiano variabili fondamentali, a livello geografico, sociodemografico, e individuale.

Cambia il clima, che può (s)favorire con diverse modalità la diffusione di agenti infettivi. Alcuni prediligono il caldo, altri il freddo. Per citarne alcuni, il freddo aumenta la permanenza negli spazi chiusi e limita il ricambio di aria. Il caldo d’altra parte potrebbe aumentare la partecipazione sociale esterna e quindi i contatti con sconosciuti.

Cambia la dimensione e la distribuzione della popolazione. Con queste cambia il numero di interazioni e gli scambi tra diverse comunità. L’infezione diffonde con modalità e velocità diversa in una popolazione di 8 milioni di abitanti concentrati in una metropoli come New York e in una con un milione e mezzo di abitanti sparsi in piccoli paesi come succede in Sardegna. A New York City si potrebbero bloccare subito i mezzi pubblici per controllare il contagio. In Sardegna non si può, perché praticamente manco ci sono i mezzi pubblici tra un Paese e l’altro. La gente si muove con mezzi privati.

Cambia il numero di contatti fisici tra le persone. In Italia ci si bacia e ci si abbraccia continuamente, in Giappone stringersi la mano non è qualcosa di comune invece. Se l’infezione è favorita dai contatti fisici come le strette di mani e gli abbracci, l’Italia sarà predisposta rispetto al Giappone. Se in Italia si vieta il contatto fisico per controllare l’infezione, in Giappone non avremmo alcun beneficio dalla stessa strategia.

Cambia il contatto intergenerazionale. In Italia abbiamo un rapporto molto forte tra generazioni diverse. La famiglia è “allargata”. Questo significa che gli anziani, che son quelli più ad alto rischio, hanno contatti costanti e protratti con i più giovani, che son quelli con maggiore probabilità di infettarsi a causa della maggiore partecipazione sociale. Se in tutta Europa si dovesse vietare il contatto con parenti di età superiore a 70 anni, in Italia causerebbe cambiamenti nella vita di tante famiglie e verosimilmente potremmo osservare qualcosa in termini di riduzione decessi, ma in altri Paesi non vedremmo praticamente niente e forse sarebbe persino controproducente.

E questi son solo alcuni esempi molto rapidi e superficiali.

Si deve sempre prendere con i guanti qualsiasi confronto.

Quando studiamo l’efficacia e la sicurezza di un farmaco, spesso utilizziamo studi “caso-controllo”. Si confrontano due popolazioni costruite per esser il più simile possibile. Ad un gruppo si somministra il farmaco (caso), all’altro un placebo (controllo), e si confrontano i risultati. Questo perché gli effetti dello stesso farmaco cambiano col cambiare della popolazione. E cambiano quindi costi e benefici che ci portano a dire se il farmaco debba o non debba esser usato, o su chi convenga usarlo e su chi no.

Lo stesso vale nel controllo dell’infezione.

Possiamo guardare insieme le diverse strategie applicate. Possiamo trarre ispirazione gli uni dalle strategie degli altri, e ragionare sui principi dietro una strategia invece di guardare solo la strategia in se, pensando a come applicare lo stesso principio in un contesto diverso. Ma non possiamo assolutamente prendere la strategia adottata da un Paese e applicarla in un altro aspettandoci la stessa efficacia.

Farlo sarebbe come provare a sbucciare un ananas come se fosse una mela.

Fabio Porru