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Influenza spagnola VS Covid-19: la storia si ripete

In queste ultime settimane abbiamo sentito spesso nominare l’influenza spagnola in relazione alla situazione pandemica che stiamo vivendo. Si ricorre spesso ad analogie e differenze riguardanti le due pandemie, sebbene i più giovani di noi non abbiano vissuto questo periodo se non tramite i racconti dei nonni. Cos’è l’influenza spagnola, e perché se ne parla tanto in relazione al Covid-19?

La spagnola fu una pandemia influenzale, insolitamente mortale, che tra il 1918 e il 1920 causò addirittura più vittime della peste nera, della quale numerose testimonianze ci sono pervenute in forma letteraria tramite il Decameron di Boccaccio. Venne infatti spesso definita come il “più grande olocausto medico occorso nella storia”, per aver causato il decesso di 50-100 milioni di persone su una popolazione mondiale di circa 2 miliardi.

Si ritiene che gli effetti devastanti della spagnola furono dovuti anche al contesto storico-sociale in cui si diffuse: elementi come guerra, malnutrizione, ospedali sovraffollati e scarsa igiene non fecero altro che aumentare la contagiosità del virus H1N1 e il conseguente tasso di mortalità. In Europa e in Italia, infatti, la diffusione del virus fu incoraggiato dagli eventi relativi alla prima guerra mondiale, e per limitare il contagio vennero messe in atto delle precauzioni simili all’attuale lockdown imposto dal governo appena qualche settimana fa: viene dato il via a campagne di disinfezione di luoghi pubblici, le scuole vengono chiuse, così come negozi, cinema e teatri. Si invita la popolazione ad evitare qualsiasi contatto fisico e a non frequentare luoghi affollati: l’H1N1 è difatti un virus la cui trasmissione può verificarsi tramite via aerea o per mezzo di contatto con superfici e materiali infetti, proprio come avviene con la malattia da coronavirus, causata dal virus SARS-CoV-2. Analogamente a quest’ultimo, l’H1N1 provoca febbre alta, difficoltà respiratorie, letargia e mancanza d’appetito. Chi viene contagiato deve essere completamente isolato, al fine di non diffondere il virus a familiari e conoscenti. I comportamenti che devono essere adottati per arrestare, o, quantomeno, limitare il tasso di contagiosità di entrambi i tipi di virus sono assolutamente analoghi: lavare le mani più volte al giorno, mantenere pulite le superfici, starnutire e/o tossire in fazzoletti che vanno immediatamente buttati, usare mascherine protettive e guanti. Oggi come allora il sistema sanitario risentì fortemente della pressione ricevuta; c’è inoltre da ricordare che negli anni risalenti all’influenza spagnola non esisteva ancora un Ministero della Sanità (che venne istituito solamente nel 1958), e perciò le malattie infettive erano considerate un problema di ordine pubblico del quale doveva occuparsi il Ministero dell’Interno. I malati venivano quindi isolati in casa dove, inevitabilmente, le famiglie venivano contagiate, moltiplicando il tasso di contagio e mortalità. Ma come mai all’influenza fu dato il nome di “spagnola” sebbene essa avesse colpito diverse aree non solo in Europa, ma in tutto il mondo? Ciò accadde non perché il contagio ebbe origine in Spagna (anzi, secondo alcuni, i primi focolai originari furono registrati negli USA), ma perché la sua esistenza fu riportata dapprima soltanto dai giornali spagnoli: la Spagna non era coinvolta nella prima guerra mondiale e la sua stampa non era soggetta alla censura di guerra; mentre nei paesi belligeranti la rapida diffusione della malattia fu nascosta dai mezzi d’informazione, che tendevano a parlarne come di un’epidemia circoscritta alla Spagna. Per quanto riguarda l’Italia, inoltre, c’è anche da aggiungere che negli anni della diffusione della spagnola ci fu un rigoglioso fermento politico, che fece spesso passare l’influenza in secondo piano. Tuttavia, ciò che fa riflettere e che rimane per molti ancora un mistero, è che l’influenza colpì maggiormente persone giovani e sane, con un buon sistema immunitario: questo perché si suppone che la loro risposta immunitaria sia stata più forte e intensa, al punto da determinare una reazione pericolosa per l’infetto, a differenza di bambini e anziani, il cui organismo tendeva a reagire in maniera più moderata, lasciando fare all’influenza il suo corso. Sappiamo invece che, al contrario, la maggioranza delle persone colpite dal Covid-19 sono anziani o pazienti con un quadro clinico già complesso e compromesso: le persone giovani e i bambini, pur non essendo immuni all’infezione, presentano sintomi lievi, o sono addirittura asintomatici. In questo caso, quindi, sembra che il virus prediliga chi ha un sistema immunitario poco efficiente.

Mentre gli scienziati lavorano ininterrottamente alla ricerca di un vaccino contro il Covid-19, quello per la spagnola è ad oggi il classico “vaccino antinfluenzale”, detto anche “trivalente” in quanto fornisce copertura non solo per i due sierotipi H1N1 e H3N2 del tipo influenzale A, ma anche per un sierotipo B (si tratta di generi di virus differenti, appartenenti a famiglie diverse).

Restiamo quindi nelle mani della scienza, cercando, nel frattempo, di rispettare le direttive istituite dal governo ed usufruendo del nostro senso civico.
“Restiamo distanti oggi, per abbracciarci più forte domani!”

Francesca Moreschini

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Il test della coerenza

La scienza non è religione dei propri contenuti o culto delle singole persone, ma rigore nel proprio metodo.

L’unico Credo nella scienza è il metodo.
Non il contenuto, né il suo artefice.

Perché un’ipotesi sia accettata, richiede delle prove. Se queste sono fornite, l’ipotesi è accettata, e diviene teoria. In caso contrario è rigettata.

Qualora a distanza di tempo, una teoria dimostrata precedentemente venisse smentita, questa cesserebbe di esser considerata tale.

Il filo conduttore della scienza è il metodo, non i contenuti, né le persone.

L’Oscar al miglior attore è assegnato ad un attore per una specifica performance. Se poi quell’attore è stato mediocre in tutti gli altri film, non importa. L’Oscar è per quella performance. Con il Nobel è lo stesso. Il premio non è alla persona, ma al suo contributo alla scienza.

Se andate sulla pagina di Wikipedia “Vincitori del Premio Nobel per la medicina”, troverete infatti, accanto al nome del vincitore, la motivazione per l’assegnazione del premio.

Oggi è difficilissimo per una persona riuscire a discriminare le fonti affidabili da quelle non affidabili. E la verifica delle fonti non richiede solo tantissimo tempo, ma anche competenza e conoscenza.

Una delle cose che consiglio, a chi si trova fuori ambito, per distinguere la validità di una teoria, è quello che potrei chiamare “test della coerenza”, che ho provato anche a rappresentare con questo meme.

Per quanto vi possano esser parti ancora oggetto di discussione, il bello della scienza e persino della medicina (che non è una scienza perfetta) è che “tutto torna”. Tutto è coerente. Deve esserlo! E questo vale sia dentro la singola disciplina, che tra le varie discipline. Chimica, fisica e biologia sono strettamente correlate tra di loro.
Tutto è coerente con tutto il resto. E se non lo è, è perché non lo è ancora, ma ci arriveremo.

L’incoerenza è uno degli indicatori principali che qualcosa non va.

Se il vostro partner torna a casa in ritardo e vi dice che ha lavorato fino a tardi senza fermarsi un istante, e quando fate notare che ha un profumo non suo addosso vi dice che “ah, si, al centro commerciale davano dei campioncini gratuiti”, vi fareste due domande.

Se la vostra fonte di informazione vi dice di non credere alla scienza tradizionale, e poi citandovi Tarro e Montagnier li supporta perché sono un ricercatore di fama internazionale l’uno e un Premio Nobel l’altro, di domande ve ne dovreste fare dieci o persino cento. Perché è dannatamente incoerente.

Fabio Porru

P.S. Chiariamo un aspetto riguardo la fama nella comunità scientifica. Si può esser famosi per merito o per demerito. Anche un pirla che rutta ad una conferenza internazionale diventerebbe famoso nella comunità scientifica, per intenderci.

Gli ultimi ai tempi del corona virus (ma anche in tempi normali)

Giorno x della quarantena. La pandemia sul Covid-19 impera sulla nostra vita quotidiana. Anche se “la primavera non lo sa”, siamo testimoni e attori di un momento mai visto nelle vite di nessuno e nemmeno nella storia recente del nostro Paese e dei nostri vicini. 

Sulla condizione di quarantena e isolamento che stiamo vivendo, la prima cosa che colpisce è sicuramente la risposta delle persone. La richiesta di cambiare le proprie abitudini e di chiudersi in casa, di separarsi dai propri cari e dai propri legami, non era una richiesta da poco. Eppure, la risposta dal basso è stata forte se pur con anziani in stato di negazione, lombardi in giro per le seconde case in Sardegna e qualche cane finto al guinzaglio. In nome del bene comune, della protezione dei nostri anziani e delle persone più a rischio, a supporto dello sforzo del personale sanitario, ci siamo effettivamente chiusi in casa. Per altro, cantando canzoni dai balconi e spendendoci in gesti di solidarietà a distanza che fanno pensare davvero che andrà tutto bene.

Da qui, il primo pensiero va proprio a quanto facile sia stato convincerci a cambiare le nostre abitudini ed adattarci ad una restrizione delle libertà fondamentali come mai, per la mia conoscenza, era successo sotto un regime democratico. Per altro, in nome di una lotta contro un nemico che nemmeno possiamo vedere (toccare sì, per cui ricordiamoci di lavarci le mani più volte possibile); eppure, nemmeno l’impossibilità di fare come San Tommaso, ci ha impedito di credere nell’emergenza e unirci tutti assieme in questa guerra. 

Ma si sa, il cammino più difficile è sempre quello verso la (ri)concessione delle libertà che quello verso la sospensione o l’abolizione e c’è da tenere tutti i sensori di pericolo ben accesi su quello che succederà dopo la fine della pandemia, su come i nostri movimenti e contatti saranno autorizzati o riformati. D’altronde, il concetto di bio-politica non è certamente nuovo e gli sforzi per controbilanciarlo non hanno mai fermato l’affinamento degli strumenti a disposizione del potere. La sicurezza è uno di questi.

Quella del Covid-19 è un’emergenza, una pandemia dai numeri mai visti in nessuna delle vite dei nostri contemporanei in Italia ma anche in molti altri Paesi del mondo, una questione di sicurezza sanitaria vera. Ma la sicurezza è un tema molto delicato e complesso sul quale è bene domandarsi, poiché è un tema che ha a che fare principalmente con la pancia, da cui vengono generati pensieri di paura che generano azioni violente. A volte, senza nessun motivo fondato.

Quanto è giusto intervenire nella libertà delle persone, in nome della sicurezza? Oltre alla sicurezza sanitaria, esistono la sicurezza energetica, la sicurezza economica, la sicurezza sociale. Già abbiamo sentito parlare di sicurezza quando a metterla a rischio, si diceva fossero i migranti. Considerato quanto già lo facesse, quanto il tema della sicurezza governerà le agende politiche e le nostre vite quotidiane nel prossimo futuro? E quando siamo disposti a lasciarlo succedere? 

Quando poi parliamo di sicurezza sanitaria e di stare tutti a casa, di godere del tempo in casa, di dedicarci alle cose che ci piacciono e ai nostri cari, ci scordiamo di un sacco di cose. Ci scordiamo di chi una casa non ce l’ha, di quelle per cui stare a casa non è una sicurezza, di quelli che a casa propria non ci possono tornare, di quelli che in “casa”, in rivolta, ci hanno lasciato la vita. Ci ricordiamo che stare dentro casa a godersela è un privilegio.

Sono almeno 51 mila i senzatetto soltanto a Roma, loro che assieme ai piccioni popolano le strade e le piazze deserte della capitale, esposti più di tutti al contagio della malattia, con nessun mezzo per contrastarlo. Alla dott.ssa Lucia Ercoli, presidentessa della Onlus Medicina Solidale, che cercava di raccomandare tutti di stare a casa, è così che hanno risposto in tanti “dottoressa, io una casa non ce l’ho”.

Tante donne sono costrette dentro le mura domestiche, le stesse mura da cui cercando di fuggire o che temono tutti i giorni, quelle che condivido o dove hanno luogo violenze fisiche e psicologiche di ogni genere. La violenza domestica riguarda 5,3 milioni di donne che ogni anno subiscono violenza soltanto da parte dei partners. E queste, al momento, sono tutte costrette a casa.

Il primo caso di corona virus è scoppiato anche a Moria, in uno dei più grandi campi profughi in Europa: la prigione di Lesbo, in Grecia. Teatro di botte da parte della polizia, un’Unione Europea assolutamente assente, gruppi fascisti che bruciano le derrate alimentari e le tende delle Ong presenti in soccorso ai migranti. A Moria vivono 14 mila di persone. Con la crescita esponenziale del contagio, quanti di loro moriranno senza che nessun decreto venga varato e nessuno hashtag venga lanciato in loro difesa?

E ancora, 12 sono i morti in carcere tra Modena e Rieti. Secondo fonti ufficiali, non più credibili nemmeno da un bambino, sarebbero morti d’overdose. Tutti quanti assieme. In due carceri diverse. Casualmente, durante le proteste contro le misure restrittive contro il Corona Virus. In condizioni di vita e di utilizzo della prigione in senso completamente anti-costituzionale, il carcere si è trasformato, ormai da tempo in tutto il contrario di quello che dovrebbe essere: invece che un luogo di rieducazione, un luogo dimenticato da dio e dai cittadini dove se si vive in condizioni di sovraffollamento (la popolazione è di circa 60mila persone per un totale di meno di 50mila posti letto). Nel contesto di questa pandemia, il carcere è quel luogo dove non esiste modo per isolare i malati e costruire condizioni igienico-sanitarie adatte alla situazione, dove ai carcerati sono concessi solo contatti virtuali ma dove non esistono abbastanza o per nulla postazioni skype e strumenti di comunicazione per tenersi in contatto con le proprie famiglie ma si interrompono comunque tutti i contatti con l’esterno (senza ovviamente interrompere quelli del personale penitenziario).

La malattia, si sa, non guarda in faccia nessuno. Ricchi e poveri, giovani e meno giovani, senza tetto e calciatori miliardari. La malattia sta colpendo in maniera indiscriminata con quel potere che solo la natura ha di non preoccuparsi minimamente della vita che si sta per riprendere e delle conseguenze che quella morte avrà. La malattia, e poi la morte, colpisce e basta.

Ma lo Stato, lo Stato non colpisce mai indiscriminatamente. O meglio lo fa, consapevole del fatto che il suo ruolo dovrebbe essere quello opposto e il suo modo di agire quello di guardare in faccia, di mirare le politiche, di controbilanciare la vulnerabilità che esiste in uno stato di natura e nelle nostre società. Lenire le conseguenze di una natura che non guarda in faccia l’uomo e di una società che ha creato il privilegio come fondamento della propria esistenza. Rimediare al fatto che dove nasciamo non dovrebbe significare partire più o meno svantaggiati degli altri. 

Lo Stato che dovrebbe prima di tutto guardare agli ultimi, perché sono loro quelli che meno ce la fanno, si tappa gli occhi. Tutti a urlare che dobbiamo difendere gli anziani del nostro Paese. Ma non dimentichiamoci che gli anziani solo la fetta più numerosa della popolazione e questo fatto soltanto li rende più forti. Ma tutti gli altri ultimi, chi penserà a loro?

Francesca Di Biase

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