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Restare in forma senza fare jogging: si può, imparando una nuova lingua



“Non ho tempo”, “non ho soldi”, “non fa per me”, “non conosco la grammatica italiana, figuriamoci quella di una lingua straniera!”: queste sono solo alcune delle scuse più frequenti che usiamo per rifuggire lo studio di una lingua straniera e tentare di giustificare la nostra pigrizia nell’imparare qualcosa di nuovo. Eppure, studiare una nuova lingua apporterebbe molteplici benefici non solo al nostro cervello, ma anche alla nostra salute psicofisica. Può sembrare insolito, ma è stato appurato che immergersi nello studio di una lingua sconosciuta aiuta a rimanere sani e in forma: il bilinguismo, oltre a rafforzare e migliorare la memoria, ritarda di circa cinque anni la comparsa dei primi sintomi del morbo di Alzheimer. La Professoressa Ellen Bialystok dell’Università di York a Toronto, che studia da anni l’impatto delle lingue sul cervello umano, ha constatato col suo team di ricerca che, tra circa duecento pazienti affetti da Alzheimer, coloro che hanno parlato due lingue per la maggior parte della propria vita hanno saputo fronteggiare meglio la malattia grazie a una riserva cognitiva che ha ritardato i primi sintomi (perdita di memoria e confusione), rispetto a chi, invece, ne ha padroneggiata solo una. Infatti, una persona bilingue ha un sistema di controllo esecutivo sempre attivo: il bilingue deve sempre compiere una scelta lessicale in base al proprio interlocutore. L’esercizio costante di questa area del cervello permette al bilingue di riuscire meglio in alcuni compiti, fare più cose contemporaneamente o passare velocemente dall’una all’altra. Difatti, studiare una lingua straniera è considerata una buonissima palestra per la mente anche perché modifica effettivamente il cervello, che, grazie all’allenamento, cresce. Imparando una nuova lingua, il cervello tende a moltiplicare il numero di connessioni tra le cellule nervose: maggiori sono queste, migliore sarà l’agilità della mente di immagazzinare informazioni, ricordi e dati ed elaborarli. E non solo: parlare in un’altra lingua migliora la creatività, affina l’udito, potenzia l’attenzione e la capacità di prendere decisioni. È inoltre dimostrato che la lingua parlata ha effetti sul comportamento e sul modo di concepire il mondo: imparando un’altra lingua si diventa più tolleranti e comprensivi nei confronti del diverso, ci si apre a nuovi orizzonti e nuove vedute, si conoscono nuove culture e nuovi modelli di vita e di pensiero, anche grazie alla possibilità di viaggiare più spesso e facilmente, avendo il vantaggio di poter comprendere ed essere compresi. Ampliando le nostre conoscenze e migliorando le nostre capacità di comunicazione, aumenteranno automaticamente anche la nostra autostima e la fiducia nelle nostre potenzialità: un toccasana, quindi, per le persone insicure, timide e indecise.
Un ultimo punto a favore dei giovani che si avvicinano allo studio delle lingue è ovviamente costituito dalla maggiore facilità nel trovare un’occupazione vantaggiosa: se state progettando di intraprendere una carriera importante e redditizia, è importante che sappiate almeno due lingue. A seguito del processo di globalizzazione, infatti, la maggior parte delle aziende opera sempre di più a livello internazionale e richiede che i propri dipendenti abbiano ampie competenze linguistiche.
Dunque, what are you waiting for?

 

Francesca Moreschini

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Nella Piazza Grande di Zingaretti

Venerdì 14 giugno il segretario del Partito Democratico Nicola Zingaretti ha presentato nell’unica tappa romana il suo ultimo libro, “Piazza Grande”. Con lui, nella Libreria Nuova Europa – I Granai, c’era lo scrittore Gianrico Carofiglio. Sotto forma di dialogo tra i due si è svolta la presentazione, che seppur di breve durata, è stata ricchissima di tematiche: dallo scandalo che ha investito il CSM al “primo governo nazionalpopulista dell’Europa occidentale”, passando tra il tema della leadership, i paletti del nuovo PD, la cultura e il ruolo degli amministratori. Continua a leggere

Samuel Beckett e il suo teatro dell’assurdo

L’opera di Beckett si colloca tradizionalmente all’interno della cultura modernista, che affonda le sue radici negli anni che vanno dal 1900 al 1945: anni euforici, esaltanti, in cui si gettano le premesse per il grande rinnovamento. Con personaggi di grande rilievo come Woolf, Joyce, Eliot e Yeats (esponenti del panorama anglosassone), Svevo (rappresentante di quello italiano) e Proust (che collocheremo in quello francese), si sperimentano per la prima volta la perdita del centro e della familiarità, la frammentazione della realtà e lo sminuzzamento dell’io. È in questo contesto che comincia a farsi timidamente strada la scrittura beckettiana, caratterizzata da uno stile freddo e distaccato esente da qualsiasi caratterizzazione psicologica. La dimensione paradossale della scrittura in questione è data dal fatto che essa rivela, sperimentandolo continuamente, il fallimento della parola a dire alcunché, evidenziando la propria inadeguatezza e autodenunciandosi esibendo la propria impotenza. La progressiva rarefazione della sostanza narrativa e l’autoriflessione spinta all’estremo della problematicità hanno spinto Beckett a volgersi al teatro, strumento attraverso il quale riesce a dispiegare la sua visione del mondo, una dimensione tragica che non conosce liberazioni catartiche. La forma teatrale gli offre la possibilità di animare i suoi personaggi fornendogli sostanza di carne e ossa, riacquistando plasticità e concretezza che nella scrittura andavano spesso perdute: gli aspetti trattati sono quasi tutti anticipati dalle sue opere narrative, che non riescono a riscontrare, almeno nell’immediato, grande comprensione e apertura da parte del pubblico.

Il teatro di Beckett è un teatro sicuramente anticonvenzionale in cui lo spazio è illocalizzabile e il tempo irreale: le tecniche teatrali tradizionali erano per l’autore incapaci di rappresentare la realtà novecentesca e soprattutto un mondo in cui “gli uomini sono strappati gli uni dagli altri e da sé stessi”. È con “En Attendant Godot” (composto tra il ’48 e il ’49, pubblicato nel ’52 e messo in scena nel ’53) che egli afferma pienamente la sua idea di teatro, prendendo in prestito la forma dominante del “dramma conversazione” per svuotarlo dal suo interno, riducendo la conversazione a un dialogo fine a sé stesso e privato della sua funzione significante. È infatti proprio nella conversazione che si risolve tutto il dramma: essa si dichiara come un vuoto conversare, un succedersi di frasi per passare il tempo, per ingannare l’attesa in cui consiste l’essenza dell’opera stessa: i due protagonisti non fanno altro che aspettare, e colmano il vuoto dell’attesa attraverso una conversazione che ha continuamente bisogno di trovare un pretesto per proseguire, e che continuamente si esaurisce per proporre il problema centrale: aspettare Godot. È proprio infatti l’atto dell’attendere qualcuno che non verrà il fulcro dell’intera commedia: è attraverso quest’attesa che si rivela il significato dell’esistenza umana.

“Aspettando Godot è una commedia in cui non accade nulla, per due volte” così scrisse Vivian Mercier in un articolo apparso sull’Irish Times nel ’56, a sottolineare l’incomprensione generale dell’opera. Pur essendo di fatto una tragicommedia costruita intorno alla condizione dell’attesa, quasi nessun critico si è voluto accontentare di questa semplice (eppure universale) chiave di lettura. In Godot si è cercato di vedere un simbolo: Dio (il più spesso citato), il destino, la morte, la fortuna. La grandiosità di Godot sta proprio nella sua astrattezza, o meglio nella sua totale apertura, nella sua universalità: il che non significa necessariamente che chiunque è libero di vedere in Godot quello che meglio crede, ma che l’attesa dei due protagonisti è l’Attesa con la A maiuscola, la sintesi di tutte le attese possibili. Lo stesso Beckett ha rivelato “se avessi saputo chi è Godot, l’avrei scritto nel copione”.

Il teatro beckettiano è stato spesso etichettato come “teatro dell’assurdo”, una tipologia di teatro teorizzata da Martin Esslin che tende a svalutare radicalmente il linguaggio dando spazio ad una poesia che emerge dalle immagini concrete e oggettivate dal palcoscenico stesso. La realtà è che l’opera di Beckett, riconosciuta come esperienza centrale del teatro novecentesco, non è riconducibile ad alcuna corrente teatrale o di pensiero: Beckett mette del suo in ogni suo dialogo, impregnando le sue opere di riferimenti e allusioni metafisiche, letterarie, filosofiche, che non hanno però l’intento di attribuire alle sue pièces teatrali alcun contenuto particolare. L’autore ribadiva spesso di non avere idea di cosa le sue opere teatrali significassero realmente, e neppure di come, mentre scriveva, gli fossero venute in mente determinate idee. Non ne sapeva, insomma, più dello spettatore che assisteva alla rappresentazione, le intuizioni a cui era giunto il pubblico erano le stesse a cui era arrivato lui, né più né meno. È forse per questo che, anche a distanza di anni, i suoi capolavori riescono ad attirare l’attenzione di un pubblico assai diverso da quello della sua epoca: ancora oggi si va a teatro, si ride e si scherza guardando “Aspettando Godot”, e si torna a casa con quel retrogusto d’amaro che ci fa pensare all’attesa del nostro Godot personale, a quel qualcosa o a quel qualcuno che stiamo aspettando da tempo e che non ci è dato sapere se arriverà mai.

Francesca Moreschini

Sette ragazze imperdonabili: Maria Antonietta e le sue “aspettative disilluse”

Maria Antonietta, pseudonimo di Letizia Cesarini, è una cantautrice e musicista italiana. Nata a Pesaro il 6 agosto del 1987, si laurea in Storia dell’Arte Medievale ed inizia la sua carriera musicale a soli 18 anni. Da sempre appassionata di poesia e infervorata sostenitrice della questione femminile, debutta da solista nel 2010 con “Marie Antoinette wants to suck your young blood”, contenente testi in lingua inglese di attitudine punk che trattano il tema del coraggio delle donne, con dediche a Giovanna D’Arco e Sylvia Plath. Continua a leggere

Il dilemma del poeta

Il poeta, salvo poche rare eccezioni, che altrettanto confermano questa regola, è un insoddisfatto. Poiché quando non è così, non è mai una persona semplicemente consapevole del suo talento, ma un esteta, il protagonista di un romanzo che ha per titolo il suo nome: e chi può negare che questa stessa tensione non sia indice di una recondita insoddisfazione?
Tra questi due estremi in cui la distanza si annulla, il filo conduttore di questa condizione letteraria che poi si trasforma in condizione umana è la parola.
Quel che si legge a poesia compiuta non è nel testo, ma in ciò che non si è espresso.
Bisogna sdoganare l’immagine del poeta che scrive soltanto in preda a qualche ispirazione divina: lo sforzo poetico, che all’apparenza può sembrare artificiale, consiste nello spremere qualunque dato, oggetto, sfumatura del reale, e ricavarne un senso. Esso consiste in un lavoro emotivamente massacrante, che culmina nella stanchezza, una parvenza di apatia verso la stessa parola che si è scritta, perché magari falsa o inadatta. Da ciò nasce un’altra delle operazioni che accomuna il fondo psicologico di ogni poeta: la revisione. Se gli fosse vietato antecedentemente di ritornare su un suo scritto, sarebbe molto probabile, per non dire certo, che esso rimarrebbe incatenato alla sua sedia senza porre mai un punto definitivo alla sua opera, lasciandola scorrere sui fogli infinitamente per la paura di essersi frainteso.
Quel che si trascrive è il lascito più esterno della coscienza che si accinge a scavarsi in fondo, il dettato di una sensazione che perennemente circola: una poesia non si stacca mai dal suo autore, entrambi sono destinati ad essere influenzati reciprocamente l’uno dall’altra.
La ricerca di questa parola assoluta segna il percorso dell’uomo-poeta, che vive ogni istante nel tentativo di scardinare ogni occasione, cercando di applicarsi nello sguardo un fendente invisibile che soverchi la realtà.
Questa ricerca si traduce in quel malessere che ha colpito chiunque si sia messo a fare poesia, che a volte diviene un’ossessione, ed è per questo che non si sceglie con presa coscienza di divenire poeta, perché forse se si sapesse delle conseguenze che comporta uno sforzo tale, simile al subire un effetto Larsen che punge acutamente tutti i sensi, con l’unica differenza della sua silenziosità, nessuno vi si accingerebbe.
Si comincia con la voglia di esprimersi e tutt’a un tratto il mondo e il suo fondo misterioso si trasformano in un codice che allo stesso tempo si mostra e si cela.
Al mistero e all’incertezza della vita comune si sovrappone dunque quello che è il supplemento di un’altra esistenza che vive entro i limiti dell’io, con tutte le sue conseguenze.
Ma è forse nell’epoca contemporanea la poesia di Eugenio Montale “Non chiederci la parola” quella in cui si colloca perfettamente lo stato d’animo postumo alla scrittura del suo autore, fatto di insoddisfazione. Eppure in questa resa risiede qualcosa che va oltre il non dire nulla: ovvero che spiegare il modo in cui il tutto non si può dire, perché inesplicabile, e forse inesistente, è la chiave per dirlo.

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
Perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.


L’unica sicurezza in questo magma ribollente è l’unicità della poesia.
Grazie alla soggettività di cui è ricco il mondo, la manifestazione poetica è varia e a se stante come i fiocchi di neve che si creano nel cielo, che come diversamente si formano, lievemente allo stesso modo si sciolgono sulla terra, distillandosi al di sotto della sua superficie così come le parole di una poesia sono destinate a toccare un’anima.

Manuel Torre