La pioggia, prevista per tutta la notte, non sarebbe stata un problema.
Ci saremmo rintanati in una piccola enoteca, dove trascorrevamo la maggior parte delle nostre notti estive.
Seduto al tavolo accanto alla finestra, osservavo il faro. La sua luce danzava lungo il buio orizzonte e sulla spiaggia sabbiosa. Durante il mio soggiorno in Tunisia spesso ripensavo a questo mare, alla sua costa, interrogandomi se questo fosse l’unico luogo a cui anche solo per un momento fossi realmente appartenuto, un luogo simbiotico. Nonostante da ragazzo fossi fortemente deciso ad allontanarmi con il passare del tempo ho sviluppato una sorta di nostalgia verso una casa dove non potevo ritornare e che probabilmente non era mai esistita. I miei pensieri furono spezzati dalla sua voce che chiamava il mio nome. Era di fronte al tavolo dove stavo aspettando. Mi alzai di colpo. Distrattamente mi sorrise mentre poggiava il cappotto alla sedia e prendeva posto. Nel compiere questi gesti il suo sguardo era rivolto verso la finestra. Pronunciai il suo nome per richiamare la sua attenzione. Si voltò e prima di lasciarmi parlare disse che avrebbe gradito un bicchiere del solito rosso.
Avevo letto, da qualche parte che solitamente l’incontro di una persona cara dopo molto tempo poteva facilmente decadere nel ridicolo o nella tragedia. La paura di acquisire consapevolezza delle nostre scelte sbagliate. Non ero qui per la resa dei conti. La bottiglia poco a poco si svuotava e la conversazione si faceva sempre più sciolta. Come in una seconda lettura di un libro ormai dimenticato. Lo scorrere delle pagine, come lo scorrere della serata riportava alla nostra mente: sensazioni, visi e storie. La confidenza cresceva al ritmo delle nostre risate. Entrambi avevamo viaggiato molto, non mancavano certo aneddoti da raccontare. Immaginavamo che fine potessero aver fatto i nostri vecchi amici.
Il vino oramai era finito e il buon vecchio Diego senza alcun cenno ne aveva già portato un altro.
Iniziò il tempo delle nostre storie passate. Raccontai una delle poche immagini che ricordavo nitidamente. Dalla cucina mia madre strillando ci avvertiva dell’arrivo dei nuovi vicini, i quali avevano comprato la casa proprio davanti alla nostra. Affacciato alla finestra con mio fratello osservammo la ditta dei trasporti darsi da fare per portare al terzo piano tutti i diversi mobili. Sapevamo fosse una famiglia. D’un tratto si aprì la persiana adiacente alla finestra dove eravamo affacciati. Ed ecco il nostro primo scambio di sguardi. Come da uno schiaffo disatteso fui colpito da tanta bellezza e vivacità. Solo dopo giorni trovai il coraggio di parlarle.
Questa volta la risata di entrambi si velò di tristezza.
Riempii per l’ultima volta i nostri bicchieri. I silenzi si fecero sempre più lunghi, scanditi dalla luce del faro. Le parole, a tratti, sembravano appartenere ad un nostro linguaggio per poi tornare nella loro formalità più fredda e distaccata. I nostri sguardi si cercavano e si stringevano nella speranza di comprendere tutte le parole non dette, per poi muoversi velocemente alla ricerca di un oggetto o di un’altra distrazione. I nostri gesti da naturali e sciolti tornavano ad essere rigidi e composti. La nostra era una danza, ci stringevamo e ci allontanavamo come ballerini al ritmo della luce del faro. La nostra era una danza, la danza del faro. Al tavolo la luce illuminava le nostre coscienze e i nostri desideri per poi sparire improvvisamente nel buio, nell’oscurità del mare, riportandoci nella realtà del nostro presente.
Il fumo delle sigarette che aleggiava tra di noi si fece più denso, quando qualcuno ci avvisò dell’imminente chiusura. Entrambi avevamo bisogno del bagno prima di andar via. Spegnemmo contemporaneamente le cicche e ci alzammo. Il corridoio, che portava al bagno, si faceva ad ogni passo più stretto e lo spazio circostante ci costrinse ad una pericolosa vicinanza. Ci baciammo. La mia mano scivolò lungo il suo collo alla ricerca di un tesoro oramai perduto. I nostri corpi non più le isole di un tempo. Sussurrò di non guardarla. I suoi occhi socchiusi. La visione della nostra forma era la prova del nostro presente, metronomo del nostro vivere. Incapaci di riconoscerci, ci allontanammo. Uscimmo.
Fuori aveva smesso di piovere. Camminammo lungo la costa spalle a faro. I nostri sguardi si incrociarono per l’ultima volta e senza salutarci le nostre strade si divisero. In totale silenzio, un silenzio profondo, espressivo, poiché la musica è superflua nella danza, nella danza del faro.
In copertina: illustrazione di Agnese Raimondi