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Calcio e tecnologia: intervista a Gianluca Comandini

In un mio precedente articolo trattavo della possibilità che l’avvento di nuove ed avanzate tecnologie potesse in qualche modo tracciare una linea di netta demarcazione nella nostra concezione della Storia, arrivando ad ipotizzare una nuova storia, legata all’ascesa si una società in cui il progresso tecnologico ha già influenzato nettamente gli aspetti che hanno sempre accomunato uomini e donne di tutte le epoche.

Per capire  quanto effettivamente la tecnologia possa aver già pervaso la nostra esistenza ho pensato di partire, come caso di studio, da un mondo che più umano ed a tratti romantico non si può, da un qualcosa che lega indissolubilmente generazioni diverse, capace di riunire, col fiato sospeso, anche le persone più diverse. Insomma quello che per noi Italiani è una vera e propria malattia: il Calcio.

Mi sono rivolto così a chi già immagina e mette in atto progetti calcistici che marciano di pari passo con l’innovazione. Gian Luca Comandini, 31 anni, giovanissimo divulgatore tecnologico, professore universitario ed esperto di blockchain, nonché fondatore del VESTA Calcio, squadra che oggi milita in Seconda Categoria e punta in pochi anni alle leghe professionistiche. Una società calcistica fuori dagli schemi, che vede tecnologie come la blockchain e le Intelligenze Artificiali quali aspetti fondamentali del progetto.

VAR e goal line technology: due esempi più noti a tutti dell’applicazione della tecnologia al calcio. Ma oggi, con gli avanzamenti tecnologici in atto, è possibile che queste due siano le uniche implementazioni possibili? 

Assolutamente no, ed è anche assurdo aver aspettato tutti questi anni per riuscire a vedere un accenno di utilizzo di queste tecnologie che possiamo considerare appartenenti ad un’epoca passata. Il calcio ha bisogno di futuro e non possiamo aspettare decenni per applicare ogni tecnologia.

Quali nuove tecnologie possono essere applicate al mondo del calcio, sia in match, che in allenamento? Le intelligenze artificiali possono giocare un ruolo nelle fasi di preparazione al match?

Potremmo utilizzare Internet of Things e Intelligenza Artificiale per prevedere e prevenire infortuni, analizzare tecnicamente movimenti e prestazioni durante i match per poi allenarsi in maniera più accurata durante la settimana, ma anche sfruttare tante altre tecnologie come la blockchain o la realtà aumentata per migliorare performances.

A livello societario, perché la blockchain rappresenta un vantaggio ed una frontiera da perseguire per una società di calcio?

Perché ad oggi la parte più “sporca” e incisiva in questo sport rimane la gestione dei flussi finanziari. Nel 2021 non possiamo ancora essere sotto scacco per plusvalenze mascherate, sponsor fittizi e riciclaggio di denaro. Con la blockchain si può rendere il calcio trasparente e onesto.

Dalle tecnologie catapultate nel mondo del pallone, al calcio catapultato nel mondo digitale. Gli e-sports quale diffusione e riconoscimento avranno in futuro?

Lo stiamo vedendo in Asia e Usa, gli esports fanno più interazioni e più fatturato degli sport tradizionali. Tra pochi anni la situazione sarà molto simile anche nel nostro paese, addirittura sono sempre di più gli atleti professionisti che usano simulazioni e videogames per allenarsi nei rispettivi sport fisici. Non possiamo ignorare questo trend che presto raggiungerà una visibilità ben superiore al calcio.

Il mondo del calcio è ancora, spesso in modo romantico, troppo conservatore per accogliere implementazioni ad alto potenziale tecnologico?

Attualmente sì, ma le nuove generazioni stanno crescendo con punti di vista differenti, è solo questione di anni e presto avremo menti più aperte e persone pronte ad accogliere il futuro ed utilizzare le tencologie, senza alcuna paura.

Lorenzo Giardinetti

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L’educazione nell’era post Covid: immersione in un mondo digitale e più inclusivo

Un evento da ripetere: Eduhacktion, tra innovazione ed educazione 

Questo weekend si è realizzato “Eduhacktion”, un evento organizzato da diverse realtà del mondo del digitale e dell’educazione: Culturit Network, Associazioni imprenditori millennials e Youth Hub Catania.  Durante due giornate, alcuni giovani tra i 18 e i 30 anni si sono potuti confrontare su diverse tematiche ed unirsi in team per creare una proposta innovativa su alcune tematiche. I principali argomenti trattati sono stati la didattica a distanza, il mismatching e la gamification. Ho avuto la possibilità di partecipare in prima persona a questa iniziativa e ne sono uscita molto soddisfatta. Certo, non è stato semplice uscire dalla propria zona comfort, ma ne è valsa la pena. All’interno della mia squadra ho potuto conoscere ragazzi della mia età, con le mie stesse aspirazioni e preoccupazioni, ed insieme abbiamo unito le nostre forze per creare una proposta di scuola più innovativa e inclusiva possibile. Il punto di forza di questa iniziativa? L’opportunità di essere seguiti da mentor, esperti nel settore dell’educazione, della comunicazione e del digitale. I loro consigli sono stati illuminanti e le loro storie di forte ispirazione. 

Uno sguardo oltre confine nel campo dell’insegnamento 

Giuseppe Inserra, vicepresidente di Youth Hub, afferma che la realtà scolastica deve essere multidisciplinare e continuativa. Si stanno sviluppando nuove professioni che richiedono un pensiero creativo e da questo nasce l’esigenza del cambiamento all’interno della formazione giovanile. L’Italia presenta ancora un metodo scolastico fortemente improntato sulla teoria. Marco Scannavino, co-founder di uLead, una community che fornisce orientamento universitario e lavorativo ai giovani, afferma che in altri paesi, come la Francia, viene dato maggior rilievo alle attività di lavoro e stage durante l’università. In Finlandia ,invece, gli alunni ricevono solo valutazioni positive. Questo ultimo aspetto potrebbe avere un riscontro negativo quando gli studenti si ritroveranno ad affrontare il mondo lavorativo, in cui ricevere porte in faccia è all’ordine del giorno. Tuttavia, guardando all’Italia, sarebbe utile diminuire l’importanza del voto e concentrarsi sullo sviluppo di competenze più pratiche ed esperienziali. È ciò che accade in America, dove se chiedi ad un universitario se preferisce ottenere l’eccellenza in tutte le materie o essere il capo della squadra di football, risponderebbe con la seconda opzione. I giovani italiani, durante il loro intero percorso di studi, acquisiscono un enorme bagaglio culturale, tanto da essere merce preziosa per le aziende estere, ma hanno difficoltà a inserirsi nei contesti lavorativi emergenti. Ecco dunque che si viene a delineare il cosiddetto fenomeno del mismatching, ovvero una situazione in cui la domanda di alcune posizioni lavorative eccede l’offerta. 

Mai più come prima: Il digitale arriva in aula 

Una grande lacuna è presente proprio nel mondo del digitale. Tra i pochi lati positivi della pandemia troviamo la necessità di adattarsi ai nuovi strumenti tecnologici. Dinanzi a tale scenario è stata proprio la scuola a doversi reinventare per prima, la cattedra è stata sostituita dal grande schermo e le interazioni dal vivo sono diminuite. Che si stia andando verso una nuova era nel campo dell’insegnamento? Non c’è dubbio che non torneremo indietro. Ciò non significa che bisogna incentivare lo sviluppo di un sistema di insegnamento unicamente a distanza, quanto integrare la lezione dal vivo con la possibilità di seguire dal grande schermo. Un’indagine Censis tra i docenti delle scuole secondarie di primo e secondo grado ha rivelato che il 92% dei corsisti ritiene che “le nuove tecnologie digitali siano capaci di rendere più efficaci e coinvolgenti le lezioni frontali”. Non solo, sarebbe necessario fare un passo in più: portare il digitale nelle aule. Non basta però garantire un proiettore e tablet per tutti, ma è necessario puntare su una formazione di competenze digitali, sia tra i docenti che tra gli alunni. A ciò sarebbe utile ricorrere all’introduzione di una tecnica che viene già utilizzata da alcune aziende: la gamification. Un esempio è l’app di Duolingo, attraverso la quale si possono imparare le lingue con quiz e giochi. 

Il potere del gioco 

La Gamification si può definire “come un insieme di regole mutuate dal mondo dei videogiochi, che hanno l’obiettivo di applicare meccaniche ludiche ad attività che non hanno direttamente a che fare con il gioco; in questo modo è possibile influenzare e modificare il comportamento delle persone, favorendo la nascita ed il consolidamento di interesse attivo da parte degli utenti coinvolti verso il messaggio che si è scelto di comunicare”. Perché non allargare questa tecnica anche all’interno delle scuole? Forse se i protagonisti dei “Promessi Sposi” potessero prendere vita e ogni studente potesse farli agire, tutti riuscirebbero ad amare la loro storia senza troppi sbuffi.  All’imparare “sbagliando” si aggiunge così l’imparare “giocando”. 

La scuola che vorrei 

Il sogno nel cassetto? Creare un ambiente scolastico inclusivo e accogliente, dove attraverso il gioco e il digitale si possano coinvolgere tutti. Le valutazioni devono essere unite ad autovalutazioni e feedback reciproci tra studenti e docenti. Il voto inteso come semplice numero matematico deve perdere la sua importanza. E’ necessario, invece, porre più attenzione alle competenze pratiche che si sviluppano nell’intero percorso, guardando alla crescita personale del ragazzo e tenendo in conto le diversità di ognuno. In ultimo, si potrebbe pensare ad aiutare l’alunno a trovare la propria strada fin da subito, impartendo lezioni di laboratori pratici, con simulazioni di mestieri concreti. Questo potrebbe costituire parte della soluzione all’abbandono scolastico e al cambio di facoltà durante il periodo universitario. Arrivati fin qui, molti si staranno chiedendo se la creazione della scuola dei sogni richieda un certo tipo di investimento. La risposta è “sì”, ma l’istruzione ripaga ed è fondamentale puntare sul capitale umano di quelli che saranno gli adulti di domani, un domani che vogliamo sicuramente migliore del nostro. 

Irene Pulcianese

L’esodo da WhatsApp: protesta digitale?

Il 12 gennaio 2021 ha avuto luogo un esodo storico che, in meno di 72 ore, ha visto trasferirsi 25 milioni di utenti da WhatsApp verso altre app di messaggistica (come Telegram). Cosa ha causato la “grande fuga”? Tutto ciò si può considerare una forma di contestazione informatica?

Andiamo per ordine. 

Il casus belli risale all’inizio del gennaio scorso; Whatsapp aveva notificato ai suoi utenti l’imminente aggiornamento obbligatorio relativo all’informativa sulla privacy e ai termini di servizio previsti dal piano aziendale per il 2021. Le modifiche unilaterali riguardavano i rapporti che intercorrono tra le aziende che utilizzano l’applicazione e l’azienda californiana, in base alla cosiddetta opzione Business.

La notifica, tuttavia, è arrivata a tutti gli utenti e in maniera particolarmente invasiva:

“WhatsApp sta aggiornando i propri termini e l’informativa sulla privacy. Toccando ‘accetto’, accetti i nuovi termini e l’informativa sulla privacy, che entreranno in vigore l’8 febbraio 2021. Dopo questa data, dovrai accettare questi aggiornamenti per continuare a utilizzare WhatsApp. Puoi anche visitare il centro assistenza se preferisci eliminare il tuo account e desideri ulteriori informazioni”.

Successivamente verrà trascritta in una versione più “friendly” (pur rimanendo vaga) e visualizzabile oggi nella sezione Stato WhatsApp dove compaiono delle “storie” illustrative sulla privacy.

In ogni caso, l’obbligo ad accettare e la poca chiarezza dell’azienda statunitense ha provocato lo spostamento di massa degli utenti e ha attirato l’attenzione di WhatsApp, dell’Unione Europea e delle app competitor; ad esempio, la russa Telegram, che ha recentemente reso possibile una nuova funzione, ossia la possibilità di trasferire le chat direttamente da WhatsApp per rendere ancora più appetibile l’iscrizione dei nuovi utenti. 

Il Garante della Privacy, allarmato, ha dichiarato come: “dai termini di servizio e dalla nuova informativa non sia possibile, per gli utenti, evincere quali siano le modifiche introdotte, né comprendere chiaramente quali trattamenti di dati saranno in concreto effettuati dal servizio di messaggistica dopo l’8 febbraio. Tale informativa non appare pertanto idonea a consentire agli utenti di Whatsapp la manifestazione di una volontà libera e consapevole”.

Tutto questo ha richiamato l’attenzione del Comitato Europeo per la Protezione dei Dati (EDPB). Poco dopo, il 15 gennaio 2021, Whatsapp ha annunciato il rinvio della data di scadenza al 15 maggio.

Il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR), in vigore dal 2018, assume quindi un ruolo di fondamentale importanza nella tutela perché ha permesso, con le sue severe restrizioni, di bloccare quella che, secondo l’avvocato Antonino Polimeni, esperto in Diritto di Internet, Privacy e GDPR, può essere definita come “la più grande operazione di accentramento di dati personali”.

WhatsApp come sappiamo è stata acquisita da Facebook nel 2014 per 20 miliardi di dollari. Al momento Facebook può acquisire: i numeri di telefono che utilizziamo; l’ultimo accesso, quindi quante volte usiamo l’applicazione; la nostra data di prima registrazione; la nostra posizione stimata in base alla connessione internet non satellitare. Facebook non può invadere le chat private e lo stesso vale per le videochiamate o le telefonate, grazie alla tecnologia End-to-End.  Nonostante ciò, per la Corte di Giustizia dell’Unione Europea i server che il despota Zuckerberg si è rifiutato di portare in territorio UE non sono sicuri. Come stabilisce la sentenza Schrems II, il gruppo Facebook non garantisce la tutela dei diritti degli utenti europei.

Grazie alla mobilitazione di gruppo su larga scala e alla pronta azione dell’Unione Europea è stato possibile bloccare e posticipare un’operazione poco chiara che, effettivamente, potrebbe mettere in serio rischio i nostri dati. Se osservato in concomitanza con l’operazione Gamestop (l’attività coordinata degli utenti del social Reddit che ha stravolto Wall Street negli ultimi giorni) potremmo forse notare un sentimento generale di necessità di democratizzazione del web; una democratizzazione che sia in grado di scardinare il controllo delle élite. Per il momento, però, è troppo presto per dirlo. 

Di fatto da un punto di vista generale noi, in quanto popolazione, non abbiamo piena consapevolezza del valore dei nostri dati personali e questo è estremamente pericoloso. Possiamo, però, intuirlo e, di conseguenza, cercare di tutelarci, osservando gli insaziabili e continui tentativi che quell’1% si ostina, talvolta illegalmente, ad attuare al fine di privarcene. 

Zoe Votta

SITOGRAFIA:

God Save The Memes

Ultimamente gran parte dei tabloid e delle maggiori testate giornalistiche, inglesi ed europee, si sono focalizzate sull’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea e i problemi che il Primo Ministro britannico Theresa May sta affrontando per far approvare al Parlamento inglese il suo deal sull’uscita della Gran Bretagna dall’Europa. Si parla addirittura di dimissione forzate. Tra voti storici contro il governo, scissioni e colpi a tradimento, la Brexit in queste ultime settimane (o forse mesi) sembra aver quasi monopolizzato il dibattito internazionale ed europeo. Ciò nonostante, si dà il caso che in una tale situazione senza precedenti potrebbe (ma non dovrebbe) passare del tutto inosservata un’altra importante notizia che riguarda una delle maggiori istituzioni europee, il Parlamento, il quale nella giornata del 26 marzo ha approvato una direttiva quanto mai d’interesse riguardo il diritto d’autore. Molto più importante di quanto non si pensi.

Talmente importante che è possibile dire che da ieri la Regina non è più l’unico nemico dell’Unione Europea.

Ora ci sono anche i Meme.

La direttiva approvata dal Parlamento europeo con una maggioranza di 348 voti favorevoli a fronte dei 274 contrari e 36 astenuti sancisce un importante cambiamento all’interno delle regole nell’ambiente digitale sul copyright. L’obiettivo ultimo è quello di proteggere tutti quegli artisti e inventori che al momento non risultano essere correttamente protetti nel loro lavoro creativo all’interno della maggior parte delle piattaforme digitali.

Nonostante il nobile intento, parecchi passaggi della direttiva restano vaghi e poco chiari, aumentando le già forti paure circa la libertà di pensiero sul web. Questo documento vede la sua approvazione dopo circa due anni di dibattito in cui ha attratto a sé un largo ammontare di critiche da parte di giganti tecnologici, quali Facebook e Google. Quest’ultimo, in particolare, ha sentenziato che la direttiva “cambierà il mondo del web come lo conosciamo” aggiungendo che “La direttiva sul copyright è migliorata ma porterà comunque ad incertezza giuridica e impatterà sulle economie creative e digitali dell’Europa. I dettagli contano e restiamo in attesa di lavorare con politici, editori, creatori e titolari dei diritti mentre gli Stati membri dell’Ue si muovono per implementare queste nuove regole”. La parlamentare europea tedesca Julia Reda del German Pirate Party ha affermato che questo è un giorno nero per la libertà di Internet.

Sull’altro fronte, i legislatori europei sottolineano la necessità di regolare quel “selvaggio west” che è diventato il mondo di Internet per assicurare a musicisti, pubblicatori e altri creatori di contenuti, una maggiore protezione sul proprio lavoro che al momento è del tutto assente. Il vicepresidente della Commissione Europea Andrus Ansip ha definito la legge come un “grande passo avanti” che porterebbe una maggiore unificazione del mercato digitale di Europa permettendo una corretta protezione della “creatività online”. Avendo la possibilità di essere applicata liberamente dai singoli Stati Membri, molti sostengono che questa direttiva permetterà un più equo bilanciamento tra i giganti tecnologici americani e i creatori di contenuti europei.

“Approvata la direttiva copyright. Difendiamo la creatività italiana ed europea e i posti di lavoro” (Antonio Tajani, RAI News 24)

(Tajani ancora sulla scia dell’onda per le Europee di fine maggio, n.d.r.)

Ed è proprio in questo momento del discorso che si alzerebbe la mano di un ragazzo dal fondo della sala, appena dopo essersi salvato sul telefono, sghignazzando, l’ennesimo meme su Theresa May e Toninelli, con una domanda più che corretta.

“Sì, va bene tutto, bell’articolo, la May, l’Europa, Google, i poteri forti. Ma io non ho capito bene, quindi che cosa succede in pratica a questi meme?”

Come dargli torto.

Il punto focale riguarda quelli che sono stati delineati come gli articoli 11 e 13 della proposta di direttiva originale che stabiliscono le basi per le due norme più criticate da parte della comunità di Internet.

L’articolo 11 sancisce le necessità da parte dei motori di ricerca e piattaforme aggregate di notizie di pagare per utilizzare i link dei siti di notizie. Una sorta di link tax sulla pubblicazione di simili documentazioni online che potrebbe portare ad una chiusura di Google News per l’alto numero di contenuti condivisi giornalmente.

L’articolo 13 ritiene le maggiori aziende tecnologiche responsabili per il materiale pubblicato senza la dovuta licenza. La maggior parte delle compagnie provvede a rimuovere già musica e video protetti da diritti d’autore ma sotto questa nuova direttiva si vedranno responsabili per una maggiore varietà di contenuti pubblicati. La differenza rispetto a prima riguarda l’imputazione della responsabilità: laddove prima essa era propria dell’utente stesso, ora ricade principalmente sulla piattaforma dove è condiviso il contenuto violante.

Ciò comporterebbe un’applicazione necessaria di filtri da parte delle piattaforme di condivisioni quali Facebook, Instagram, Google e simili. Per via della vaghezza e genericità di queste nuove norme sarà sicuramente inevitabile che le compagnie in questione, per evitare di incorrere in pesanti sanzioni di violazione del copyright, applicheranno molti più ampi filtri limitando notevolmente la condivisione di un largo numero di contenuti sul web.

“Sì, vabbè, hai letto gli articoli della BBC e di RAI News e sai le cose. Ma questi meme insomma?”

Ora ci arrivo, un attimo.

Il parlamento europeo ha approvato all’inizio dell’anno una modifica alla direttiva presente al momento nell’articolo 39 che cita “Gli utenti sono autorizzati a caricare e rendere disponibile il contenuto generato da altri utenti per specifici obiettivi di citazione, criticismo, recensioni, caricature, parodia, o satira”. Teoricamente parlando, questo importante passaggio dovrebbe consentire ai meme di essere esclusi da azioni oscurantiste e liberi di propagarsi nel mondo dell’Internet, come sarebbe da loro natura. Il Parlamento ha dichiarato che i meme sarebbero stati “specificatamente esclusi. Il problema adesso è capire in che modo che le piattaforme possano applicare questa indicazione senza delle direttive specifiche. In che modo un sistema automatizzato che copre un numero così alto di utenti come quelli di Facebook e Instagram può riconoscere un’espressione di satira, ironia, o più semplicemente un meme vero e proprio?

Nella pratica, applicare un filtro su ciò che viene pubblicato nella piattaforma richiederà verosimilmente un sistema altamente complicato che comporterà maggiori costi per i motori di ricerca e le compagnie tecnologiche europee. Probabilmente l’effetto sarà l’opposto di quello sperato, portando queste ultime in una condizione di maggiore difficoltà economica rispetto ai colossi americani. Ancora più probabile è lo scenario in cui questi filtri non siano ben strutturati o sufficienti per permettere una vera e propria libertà di espressione all’interno dei siti web di condivisione e informazione.

Se nel disastro della Brexit e del crescente populismo in Europa nei mesi prima delle elezioni i meme erano rimasti una solida roccaforte in cui proteggersi e trovare una personale salvezza quotidiana, adesso sembra che anche questo piccolo spazio di libertà universale stia per essere messo a grave rischio.

Essendo questo provvedimento una direttiva europea, bisognerà aspettare che ciascun Paese Membro dell’Unione la applichi prima che essa veda praticamente la luce, post-ponendo gli effetti ancora per parecchio tempo.

Ergo, questo articolo avrà ancora la possibilità di fregiarsi di splendidi meme di bassa qualità visiva e concettuale, simbolo di una rivoluzione culturale e sociale che è per noi in questo momento più che mai una delle poche speranze a cui aggrapparci con una risata amara che già ha un sapore di nostalgia.

Matteo Caruso


Sitografia