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Società signorile di massa che?

È da poco cominciato il 2020 e per tutte le vacanze natalizie ci siamo divertiti a dire che stavamo per entrare nei Roaring Twenties, riferendoci chiaramente ai ruggenti anni ’20 del secolo scorso. 

Ma a pensare a quanto ruggenti saranno questi anni 20, gli sguardi si abbassano e qualche brivido di inquietudine ci fa rizzare i peli. 

E in questo mood, ecco che si inserisce perfettamente il nuovo libro del sociologo Luca Ricolfi che sta avendo un discreto successo nei salotti in termini di visibilità e capacità di sollevare dibattito e che a mio parere è un libro di interessantissima lettura ma dal quale bisogna essere preparati a difendersi.

Il libro racconta il nostro Paese come una società signorile di massa nella quale una maggioranza accede a consumi opulenti prodotti dalle generazioni passate e da una minoranza di lavoratori o, più precisamente, di iper-lavoratori. Questa tesi si fonda su tre argomentazioni: 

  1. il numero di occupati è minore del numero dei disoccupati; di particolare rilevanza è il caso giovanile, dove il numero di NEET (giovani disoccupati che né studiano, né cercano lavoro, né sono occupati in aggiornamenti o percorsi di formazione) del 28% circa risulta essere il più alto d’Europa 
  2. la grande maggioranza della popolazione ha accesso a consumi opulenti; per consumi opulenti, Ricolfi intende il privilegio di aver accesso non solo a ciò di cui si ha (più o meno) bisogno per vivere come una casa, una macchina per raggiungere il lavoro o una vacanza fuori città per riposarsi ma a di più, come alla seconda casa al mare o in montagna, più macchine per famiglia, vacanze e weekend fuori in ogni stagione dell’anno
  3. l’economia è entrata in stagnazione e la produttività è ferma da anni; in particolare l’Italia aveva già rallentato la sua crescita entrando in decrescita dopo la crisi del 2008 e tornando in positivo negli ultimi anni ma assestandosi su punti percentuali che la attestano ultima in Europa. A questo si somma il problema della produttività per cui il lavoratore italiano risulta essere molto meno produttivo di quello tedesco per stesso numero di ore lavorate.

Su questi tre punti, Ricolfi costruisce la sua narrativa di una maggioranza di popolazione italiana (comprendente di immigrati) in grado di consumare molto più di quello che produce, mantenendo i consumi al livello di tutti le altre grandi economie mondiali pur producendo meno degli altri e meno di quello che si consuma. 

Come è possibile questo? Grazie alla compresenza di tre elementi nella realtà italiana che sembrerebbero definire l’Italia come un unicum che potrebbe però essere una sorta di anticipazione di quello che accadrà in molto Paesi europei. I tre elementi sono: 1) un tasso di patrimonializzazioni tra i più alti d’Europa; 2) la distruzione di scuola e università; 3) una infrastruttura di tipo para-schiavistico.

Ora, a colpi di trafiletti, tweet e articoletti in molti giornalisti e intellettuali si sono pronunciati a difesa o contro la tesi, le argomentazioni e i dati di Ricolfi con il risultato di creare un dibattito piuttosto confuso e che non sembra vedere prevalere una parte o trovare una lettura intermedia.

Questo perché, a mio parere, il libro riesce a fare una fotografia emotiva del nostro Paese molto precisa: la sensazione di camminare su un precipizio con l’idea di essere degli equilibristi abbastanza esperti ma pur sempre senza rete di sicurezza. 

Per esempio, merito va dato a Ricolfi per aver anche solo accennato alla questione psicologica del nostro tempo. Ricolfi infatti parla di doppio legame che emerge tra coloro che lavorano e coloro che consumano senza lavorare, i quali nella maggior parte dei casi sono membri della stessa famiglia che si riunisce attorno ad uno o più lavoratori i quali mantengono l’intera famiglia. 

La narrativa di una storia simile può essere di tipi vittimistico o stigmatizzante. Prendiamo ad esempio una famiglia in cui la madre lavora e il figlio è disoccupato. Il lavoratore si considera e viene descritto come un privilegiato che ha avuto la fortuna di nascere in tempi di abbondanza e oggi ha un lavoro sicuro e più o meno ben pagato, o come vittima che si trova a dover mantenere altri familiari che accedono agli stessi consumi.

La definizione di sé stessi o degli altri in senso di privilegiato o di vittima è, in molti casi, effimera e alternata e crea un’instabilità nell’autodefinizione e nei rapporti familiari per cui non dovrebbe stupire la grande crescita di attenzione alla salute mentale e a tutto il settore ad esso connesso. 

Un altro punto su cui Ricolfi fotografa accuratamente la realtà è il rapporto tra giovani e tempo. E’ molto più frequente oggi incontrare giovani (anche se probabilmente meno di quanto lo faccia apparire Ricolfi), i quali convinti del fatto che il tempo ci appartenga e sia la cosa più importante che abbiamo, propendono per diventare lavoratori autonomi o di lavorare da remoto, allungare il tempo universitario per approfittare di ogni possibilità di studio all’estero o comunque di abbracciare la precarietà e scegliere di usare il proprio tempo per fare quello che si ama. E sempre più persone considerano coraggiose e/o invidiano coloro che compiono queste scelte. 

In pratica, quasi sempre questo succede per periodi di tempo limitati e comunque tutti si trovano a cercare un lavoro prima o poi ma sicuramente mai come in passato i giovani attribuiscono un’importanza al tempo come oggi. 

Ancora, è difficilmente negabile il racconto che Ricolfi traccia a proposito delle aspettative dei giovani rispetto alla realtà. Cresciuti con patrimoni più o meno forti alle spalle e figli di un mondo che incoraggia la competizione, promette le infinite possibilità, si costruisce sull’immagine e il marketing, si formano con l’aspettativa di poter mantenere il livello di reddito e gli standard di vita dei genitori, prospettiva però non impossibile a irrealistica (si calcola che solo un 2% circa dei giovani di oggi avranno un reddito superiore o uguale a quello dei genitori). 

Sulla base di questi elementi, la domanda che si pone Ricolfi “un modello di società signorile di massa sarà sostenibile?” è comprensibile e d’obbligo. A questa Ricolfi risponde che non lo sarà nel lungo periodo a meno che la produttività del lavoro non salga. Non è difficile capire che se si produce meno e si consuma uguale, le nuove generazioni avranno bisogno di attingere ai patrimoni dei genitori e questo gli permetterà di essere sostenibili ma i patrimoni si esauriranno nel giro di una o due generazioni e se nel frattempo qualcosa non succede perché si ricominci a lavorare o, meglio ancora, si trovino altri meccanismi di produzione di sostegno al consumo, questa realtà smetterà presto di essere sostenibile. 

Il problema però è che la lettura di Ricolfi, pur centrando tematiche e problemi, rischia di restituire un’immagine comunque distorta della realtà. Prima di tutto perché i dati, per quanto corretti, possono essere alla base di diverse letture e narrative e non necessariamente quella di Ricolfi sembra essere quella corretta.

Durante tutto il libro, è lampante il moralismo con cui imposta il racconto che dà veramente l’impressione che Ricolfi scriva con l’intenzione di svelare una verità che suonerebbe più o meno nel seguente modo: “Voi pensate che i giovani siano stupidi? E invece sono perfettamente razionali, hanno a disposizione la ricchezza per potersela godere senza lavorare e lo fanno. Solo che sono degli egoisti”.

La verità è che la situazione del mercato di lavoro del nostro Bel Paese è disastrosa e laddove Ricolfi parla di aspettative troppo alte dei giovani, forse non sa di parlare di situazioni di sfruttamento che certamente lui e le sue generazioni non hanno mai dovuto affrontare. I giovani lavorano senza contratti, pagati molto meno di quello che lavorano, con prospettive di creare famiglia o godersi una pensione bassissime. 

La maggior parte dei giovani non compiono una scelta razionale di sedersi sul divano e godersi i soldi di papà. Mi sembra realistico considerare anche il fatto che la maggior parte dei NEET non abbia compiuto un’analisi sociologica come quella di Ricolfi per cui la decisione di diventare NEET derivi da un atto di egoismo e dalla consapevolezza che il patrimonio ci basterà per vivere e consumare, è sufficiente non pensare alle generazioni successive. 

Ancora, la questione della scuola e dell’università è affrontata in una maniera da far venire voglia di chiudere il libro. È assolutamente vero che esiste un problema di svalutazione dei titoli di studio ma la spiegazione di Ricolfi è un insulto senza nessun fondamento. Il sociologo infatti sostiene che il livello dell’istruzione sia calato e che i docenti si siano ritrovati costretti ad abbassare l’asticella dei voti pur di promuovere gli studenti, che però sono, secondo il dott. Ricolfi, fondamentalmente più stupidi delle generazioni precedenti. Tra l’altro mi chiedo come sia stato calcolato questo abbassamento del livello dell’istruzione in assenza di test standardizzati e storiche di dati su questo punto. 

Il problema della svalutazione dei titoli di studio deriva da vari fattori. Primo fra tutti c’è il fatto di aver reso accessibile nella pratica la scuola e l’università a tutti, cosa sacrosanta ma che ha ovviamente contribuito all’aumento dei titoli di studi e quindi alla loro svalutazione. Poi c’è il fatto che in un mondo iper specializzato come il nostro si sia diffusa la necessità di specializzarsi creando un mercato di master e scuola di specializzazione che in pratica servono a poco ma senza le quali la maggior parte degli altri giovani avranno più titoli di te, in un mondo in cui la competitività tra giovani per pochi posti di lavoro è altissima.

Infine, Ricolfi parla del nostro Paese come se tutta la questione della stagnazione, dei consumi, di questa sacca di signori possa essere spiegato scollegando l’Italia dal resto del mondo. In un sistema globalizzato come il nostro, è impossibile. Il discorso della produttività e della stagnazione sarebbe dovuto essere inserito, per esempio, nei dibattiti accademici che si occupano della strutturalità dei cicli economici e che osservano tendenza simili in tutti i Paesi europei, non puntando il dito su questi fantomatici giovani che si cullano sulle ricchezze e i sacrifici dei genitori senza remore o rimorsi. 

Lo stesso titolo del libro perderebbe di significato che Ricolfi si rendessi conto del fatto che ciò che davvero permette l’esistenza di società come quella italiana che consumano tanto è l’esistenza di un sistema-mondo in cui la periferia, il così detto Terzo Mondo, produce secondo logiche di colonialismo e di sfruttamento che, di nuovo, nulla hanno a che fare con il consumo giovanile.

Senza contare che non una parola è spesa contro il consumo di per sé. In altre parole, i giovani che consumano sono dei falliti, egoisti gaudenti, ma il consumo oltre qualsiasi necessità o senso della misura, che ci schiavizza rispetto al denaro e sta uccidendo il nostro pianeta, e che non è cosa del 2020 ma proprio delle generazioni dei genitori, quello in qualche maniera va bene. 

Ok boomer. D’altronde che esistesse un problema intergenerazionale lo sapevamo già. 

Ecco perché il libro è di interessantissima lettura ma bisogna diffidarne. Sicuramente crea una narrativa logica e accende i riflettori su tutta una serie di questioni reali e problematiche con una forte capacità di analisi senza riuscire a mantenere quella onestà intellettuale che gli avrebbe permesso di scrivere, forse, davvero un libro utile.   

In chiusura Ricolfi riporta però e fortunatamente un tema interessante, quello della produttività. Indipendentemente dalle argomentazioni di Ricolfi, il fatto che la nostra crescita sia estremamente lenta, che la disoccupazione e lo sfruttamento siano un problema e che siamo abituati a standard di consumo che non possiamo permetterci da nessun punto di vista, questo è vero. 

Il problema della produttività, ovvero del rendere più efficiente il tempo in cui si lavora per poter lavorare meno, è un nodo essenziale. D’altronde, non lavorare non dovrebbe essere un problema di per sé e anzi permettere alle persone di fare quello che più le fa sentire meglio. Se pur non credo sia necessariamente così, in ogni caso lavorare meno e meglio non può essere una cosa negativa. 

E su questo ho deciso di approfondire. 

Francesca Di Biase

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Aluminij: un’agonia che dura da più di 20 anni

Il 9 luglio 2019 dopo 44 anni di attività ha chiuso la fabbrica Aluminij a Mostar. Il “gigante dell’Erzegovina”, nome che si era legittimamente affibbiato, è solo uno dei tanti esempi di fallimenti dopo la guerra degli anni ’90 nei paesi che un tempo componevano l’ex-Iugoslavia.

Ma cos’era l’Aluminij? Si trattava della più grossa industria di produzione dell’alluminio nella regione balcanica che dal 1975, anno della sua fondazione, è riuscita non solo a imporsi a livello locale creando un’enorme rete di cooperazione con diverse aziende, cooperative e fabbriche minori e non, come il cantiere navale di Ploče o come la storica compagnia Jedinstvo, ma anche a livello internazionale, siglando partnership ad esempio con la Chrysler tedesca, la Fiat italiana e l’Hydro ASA norvegese.
Un colosso del genere come ha fatto allora a fallire? La risposta è semplice ed è benissimo riassunta da un modo di dire Serbo-Croato: “Balkanska Posla” (tradotto significa “Business balcanico”). Questo “business” fa riferimento alla malagestione tipica dei governi post-socialisti e degli imprenditori che hanno acquisito le fabbriche. Nel caso specifico dell’Aluminij si riferisce alle polemiche che i governi croato e bosniaco hanno creato attorno alla fabbrica, accusandosi a vicenda di aver sabotato il suo corretto funzionamento. Prima di analizzare nello specifico quali sono queste accuse e quali sono i fatti dietro ad esse, bisogna precisare che l’azienda è detenuta per il 44% dal Governo bosniaco, per un altro 44% dai lavoratori ed ex-lavoratori e per un 12% dal Governo croato, secondo l’accordo siglato nel 2007 dai due paesi coinvolti.
Da una parte, quindi, abbiamo il Governo bosniaco che accusa quello croato di sfruttare il partito locale che rappresenta i croati, l’HDZ (Hrvatska Demokratska Zajednica, Unione Democratica Croata) per assumere solo lavoratori di etnia croata e in questo modo incrementare la percentuale reale di proprietà dell’azienda. Dall’altra parte abbiamo il Governo croato e i diversi partiti che rappresentano i croati in Bosnia che accusano il Governo bosniaco di sabotare volutamente l’azienda per forzare l’assunzione di ulteriori lavoratori di etnia “bosgnacca” (fede islamica) ma anche per costringere la Croazia ad accettare una revisione dell’accordo che permetta la completa cessione dell’azienda alla Bosnia.

Alla fine, le accuse di entrambi sono veritiere, perché l’HDZ sfrutta realmente i suoi agganci politici per far assumere solo croati nell’Aluminij, tanto che anche l’Amnesty International in un suo report ha confermato la presenza di soli lavoratori croati, accusando lo stesso partito e l’azienda di compiere di fatto una “pulizia etnica”. Il Governo bosniaco, invece, aumenta in modo spropositato i costi dell’elettricità all’Aluminij quando la Bosnia è un paese che ha un elevato export di energia elettrica. L’azienda diventa un mezzo tramite il quale i due governi regolano i conti tra di loro per accordi che ritengono insoddisfacenti ma che sono stati siglati in presenza di supervisori internazionali.
Tutto ciò si ripercuote sui lavoratori, dove in questo caso 900 di loro si trova di punto in bianco senza lavoro. Se aggiungiamo a questo tipo di “gestione” anche gli accordi loschi che i governi siglano con figure ancora più losche, la gestione clientelare di certe aziende da parte dei partiti, il nepotismo che si instaura non solo in aziende private ma anche in quelle pubbliche, la vendita a prezzi bassissimi di interi assetti pubblici a profittatori di guerra nel pieno “dell’isteria di privatizzazione”, manovre segrete per falsificare i bilanci o debiti privati coperti dai conti pubblici e la mancanza di una reale volontà politica nel sostenere una rilancio effettivo dell’economia, ecco che si ha il quadro tragico di questi paesi.

Per 20 anni queste scelte hanno portato a un accumularsi di problemi che ora lentamente stanno uscendo allo scoperto, non facendo altro che rendere più lunga l’agonia per i cittadini. Per citare alcuni esempi: il fallimento dell’Agrokor, che costituiva un gigantesco impero economico al quale però il Governo croato falsificava il bilancio e nascondeva i debiti esponenziali che aveva accumulato il proprietario Todorić; il fallimento della catena “Kerum” dell’omonimo proprietario ed ex-sindaco di Spalato, dopo i debiti che lui stesso aveva accumulato giocando ad azzardo; la chiusura della storica azienda “Zastava” in Serbia per l’incapacità del Governo serbo di impedire alla Fiat di delocalizzare; la chiusura di interi cantieri navali come quello di Fiume o di Pola perché il Governo croato non aveva voluto pagare gli stipendi ai lavoratori preferendo invece aumentare il bilancio positivo dei conti pubblici; la chiusura della fabbrica di tabacco in Bosnia dopo che il Governo l’aveva venduta a un magnate bulgaro…

La cosa più tragica del caso Aluminij resta però il fatto che da questa azienda dipendessero migliaia di altre aziende minori o cooperative e che ora, con il fallimento, i 900 lavoratori rischiano di diventare decine di migliaia e che rischia di ripercuotersi anche al di fuori del confine della Bosnia, andando a colpire ad esempio, il cantiere navale di Ploće in Croazia che già rischia un calo del 50% di attività. Una tragedia causata da polemiche nazionaliste tra governi miopi e sordi che continuano a sostenersi tramite una rete clientelare.

Una tragedia che rischia soltanto di aggravarsi col tempo, perché anche davanti a questi disastri i governi preferiscono continuare a polemizzare, anziché riflettere su piani per una ripresa economica effettiva.

Andrea Zamboni Radić