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Revenge porn: mettiamo a nudo la questione

Durante la Prima Guerra Mondiale, gli innamorati si scambiavano epistole, oggi ci inviamo i nudes. Dall’avvento dei social network, e in particolare delle app di messaggistica, non solo il modo di comunicare è stato totalmente rivoluzionato, ma anche l’espressione della propria sessualità ha subito profondi cambiamenti. Già, è finito il tempo delle lettere e dei pomeriggi passati attaccati alla cornetta del telefono fisso: oggi abbiamo il sexting. Il sexting consiste nello scambiarsi messaggi “hot” e materiale erotico (foto/video). Equivale, quindi, a fare sesso virtualmente. Dunque, allo stesso modo del sesso, è un momento intimo condiviso tra due persone consenzienti (o più di due, nel caso dei rapporti poliamorosi). Purtroppo, però, nel sexting non sempre tutto fila liscio come l’olio, soprattutto se si è donne. Essere una donna sessualmente libera nel 2020, in Italia, è ancora un taboo. Proprio per questo motivo la libertà sessuale può essere considerata un atto di rivoluzione politica.

Siamo a Torino. Una maestra d’asilo e un calciatore iniziano a frequentarsi, finché si viene a creare il contesto ideale per il sexting e la ragazza decide di inviargli un video intimo. A quel punto, il ragazzo invia il video sul gruppo di calcetto. Il video finisce tra le mani della moglie di uno dei ragazzi del calcetto, che riconosce la donna (era l’insegnante di suo figlio). Dopodiché, il video fa il giro del mondo e arriva nelle chat delle altre mamme. La maestra riceve minacce e intimidazioni dalle mamme. Al culmine di tutto ciò, la preside riceve il video e licenzia la ragazza.

Questa storia è tragica ed emblematica per la questione “revenge porn” se la si osserva sotto vari aspetti. Sì, perché appena dopo la vicenda, varie testate giornalistiche hanno postato la notizia sui social e sono fioccati commenti in stile victim blaiming nei quali i vari “tuttologi del web” si sono sentiti in diritto di esprimere il loro disappunto nei confronti della maestra che secondo loro “se l’è cercata”. E non solo: basti pensare alle mamme e la preside che, in barba alla solidarietà tra donne, hanno deciso, rispettivamente, le prima di diffamarla e la seconda di licenziarla. Ma non finisce qui: l’avvocato del ragazzo che ha diffuso per primo le foto ha minimizzato la questione a “un gesto fatto senza voler ferire”. E infine, ciliegina sulla torta: La Stampa dà voce a uno degli accusati, presente nel gruppo di calcetto, che afferma che “se mandi filmati osè devi mettere in conto il rischio che qualcuno li divulghi”; e ancora “non posso tollerare che chi si occupa dei miei figli faccia determinate cose” (cioè, quali cose? Sesso? Se il signore la pensa così, forse non dovrebbe nemmeno averli, dei figli…). Sempre lo stesso accusato ha semplificato il tutto a un semplice atto di “goliardia”.

“Boys will be boys but girls will be women”

Goliardia. Non è la prima volta che si abusa di questo termine quando non si riesce a capire la gravità e la matrice culturale del problema che si ha di fronte. Infatti, uno dei punti cardine del patriarcato è proprio aspettarsi che gli uomini siano eterni bambinoni, in modo da poter giustificare qualsiasi loro azione, anche le più sconsiderate, come in questo caso. Il famoso “boys will be boys”. Mentre dalle donne, fin dalla tenera età, ci si aspetta compostezza e maturità. Non è un caso che, quando una donna ha le sue prime mestruazioni, le venga detto “ora sei diventata signorina!”: per lei finisce l’infanzia, è tempo di maturare e di cominciare ad addossarsi tutte le colpe degli uomini. Ed è esattamente la situazione che ritroviamo analizzando la vicenda di Torino: una donna, padrona della sua sessualità, subisce una violenza di genere, ma il suo carnefice viene deresponsabilizzato. Lui può permetterselo, perché essendo nato uomo può continuare ad incarnare l’eterno bambinone immaturo e senza responsabilità sopracitato, mentre lei si merita la gogna per aver sfidato le regole della sessualità femminile imposte dal patriarcato. Questo è, dunque, ciò che viene chiamato “victimg blaiming”, ovvero la colpevolizzazione della vittima. Meccanismo subdolo che, non di certo per caso, viene adottato dall’individuo medio per approcciarsi ai casi di violenza di genere, in particolare quando si tratta di abusi e molestie sessuali. Chiedetevi se applichereste mai il victim blaiming ai casi di omicidio o furto: ovviamente non lo fareste, perché è un meccanismo nato apposta per umiliare e condannare le donne nonostante siano loro ad aver subito una violenza. Il victim blaiming è efficiente allo status quo, quindi va abolito e sradicato.

Non siamo state create dalla costola dell’uomo

In Italia, il revenge porn è diventato reato dal 19 luglio 2019, la pena prevede la reclusione da uno a sei anni e una multa da 5000 a 15.000€. Il carnefice ha risarcito la donna e ora sconterà un anno di lavori socialmente utili. Purtroppo, sarà la vittima a pagare il prezzo più alto della “goliardata” machista del suo ragazzo. E non finisce qui, perché il suo ragazzo, gli amici del calcetto e le altre mamme non sono state le uniche persone a violare la sua privacy: è proprio in questi giorni che gli oggetti di ricerca in tendenza su PornHub sono “maestra d’asilo” e “maestra italiana”. Questo significa che un numero copioso di utenti della piattaforma di porno mainstream più famosa al mondo ha digitato più volte sulla barra di ricerca il suo nominativo alla ricerca di un video condiviso non consensualmente. E questo deve far riflettere, perché su PornHub si trovano video di ogni tipo e per tutti i gusti, quindi se migliaia di persone hanno deciso di cercare un oggetto specifico – che, ribadiamo, era un video condiviso senza il consenso della protagonista – significa che la violenza di genere reale li eccita più della finzione. Perché guardare un video privato, proibito, su cui la persona che l’ha girato non ha più il controllo, fa sentire potenti quegli uomini piccoli, con un ego fragile, che credono che le donne siano degli oggetti sessuali creati per il loro piacere. Cosa credete abbia spinto il carnefice della storia di Torino a condividere il video della sua ragazza? Lui voleva esporla ai suoi amici come se fosse un trofeo – appunto, un oggetto – per potersene vantare. È sempre stato così, fin dall’alba dei tempi. Non è un caso che Eva sia stata creata dalla costola di Adamo: lei era il suo oggetto, nata solo ed appositamente per soddisfare i suoi bisogni e piaceri, per fargli compagnia. Anche durante le guerre avviene un fenomeno crudele: gli stupri di guerra. Il popolo vincitore, per affermare il suo potere sui vinti, compie degli orribili stupri a danno delle donne del popolo sconfitto (non solo, spesso anche a danno di bambini e uomini). E questo perché? Perché lo stupro è un mezzo di affermazione della propria autorità (solitamente maschile, ma non solo) su una persona che si trova più in basso nella gerarchia sociale (nella maggior parte dei casi donne, ma spesso anche altri uomini). Dunque, nel revenge porn, come nello stupro, la vittima diventa un oggetto agli occhi maschili. Che sia un oggetto da umiliare o da esporre come un trofeo, in entrambi i casi subentra la forte disparità di potere sociale tra uomini e donne.

Sorelle di genere, nemiche per scelta

Questa vicenda si differenzia dalle altre violenze di genere per un particolare: i carnefici non erano tutti uomini. Infatti, dopo che il video della maestra è stato inoltrato nella chat del calcetto, è finito tra le mani di una delle mamme dei bambini a cui insegnava. Lei l’ha inoltrato alle altre mamme, che l’hanno minacciata. In qualche modo, il video è arrivato nella chat della preside che ha deciso di licenziarla. Oggi si dice spesso che “le peggiori nemiche delle donne sono altre donne” e questa storia sembrerebbe confermarlo. Ma è davvero così? Sebbene molte persone credano che la competizione femminile sia innata, la realtà dei fatti è un po’ più complessa: siamo tutte e tutti immersi nella cultura patriarcale, ne subiamo una profonda influenza fin dalla nascita, fin da quando, appena nati, ci fanno indossare la tutina del colore stereotipicamente associato al nostro genere, dando per scontato che, crescendo, rispetteremo aspettative e ruoli di genere ben precisi. Alle bambine viene insegnato fin da piccole a competere fra di loro per l’attenzione maschile. Si sente spesso dire, ad esempio, che nelle classi scolastiche di sole donne c’è bisogno di un uomo che si ponga come mediatore di eventuali litigi femminili. Veniamo bombardate di concetti simili, da sempre. Ci convincono che saremo qualcuno solo se otterremo il consenso maschile, ed è questo che ci porta a competere fra di noi. La misoginia interiorizzata dalle donne è un meccanismo di adattamento alla società che le porta a denigrare ad altre donne, in modo da affermarsi su di loro e avvicinarsi il più possibile al genere maschile e da accedere ad alcuni privilegi. Il femminismo mira a smontare questa concezione errata delle donne competitive, perché non è quello che siamo, bensì quello che vogliono che noi siamo. La competizione tra donne è funzionale al mantenimento del patriarcato, perché è un metodo implicito per continuare a colpevolizzare il genere femminile. Ne è la conferma il fatto che si crede senza pensarci due volte allo stereotipo delle donne nemiche e competitive fra loro, ma quando si sposta il focus sulle responsabilità maschili si manifestano le prime esitazioni. Nessuno si sognerebbe mai di dire che gli uomini sono i nemici delle donne, e anzi, in tal caso si urlerebbe immediatamente al “sessismo inverso”: eppure i dati ci dicono che la violenza sulle donne perpetrata da uomini è un fenomeno sociale. Ovviamente, i nemici delle donne non sono gli uomini. È innegabile, però, che gli uomini abbiamo un maggior potere sociale: per questo, se fossero loro ad esporsi contro il patriarcato sarebbero paradossalmente più credibili di noi donne.

Né la prima né l’ultima vittima

Non è la prima volta che immagini private e intime vengono diffuse senza il consenso delle proprietarie. Pochi mesi fa è scoppiato lo scandalo dei famigerati gruppi su Telegram. In queste chat, gruppi di migliaia di uomini (e spesso anche donne) si scambiavano materiale pornografico non consensuale come se si trattasse delle figurine dei Calciatori Panini. Donne, inconsapevoli, che subivano veri e propri stupri virtuali. Su quei gruppi potrei essere finita io, o qualche mia amica, ed è uno dei prezzi da pagare per essere donne in una società patriarcale e misogina. E non è tutto: molte delle foto che venivano condivise erano semplici post presi da Instagram o dagli altri social network (che, oltretutto, in alcuni casi venivano spogliate con dei programmi appositi). Questo la dice lunga su come non siano la libertà sessuale e la nudità ad istigare gli uomini ad oggettificare le donne: nudes e foto di volti condividevano lo stesso oscuro destino sui gruppi di Telegram. La vicenda di Telegram mi colpì molto per un particolare. Gli uomini sui social continuavano a scrivere imperterriti “Not all men” in risposta alle femministe. La prima cosa che pensai è “non tutti gli uomini sono coinvolti e non tutte le donne sono finite sulle chat di Telegram. Eppure, molte di noi sono spaventate tanto da renderlo un problema di genere. Perché gli uomini non fanno lo stesso? Perché al posto di deresponsabilizzare e difendere a spada tratta il proprio genere di appartenenza non provano ad interrogarsi sul perché così tanti uomini – così tanti da rendere la violenza sulle donne un fenomeno sociale – si comportino in un certo modo?”

Ritornando al termine “goliardata”, è d’obbligo accennare il caso di Tiziana Cantone, ennesime vittima di revenge porn, la cui storia è terminata con il suicidio. Il ragazzo che ha deciso di gettare la maestra in pasto allo stigma sociale, ha mai pensato al dolore e al trauma psicologico che potrebbe averle causato? Se davvero le sue intenzioni fossero state goliardiche e innocue (“senza voler ferire” come ha dichiarato l’avvocato del diavolo), avrebbe quantomeno provato a fare un paragone con il caso Cantone. Perché una goliardata non ha nessun impatto psicologico e sociale sulla tua vita, il revenge porn sì.

Giorgia Brunetti

Fonti:

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Storia di un corpo: i miei mostri

Il 6 maggio scorso, per la prima volta nella mia vita, il mio io più profondo si è ritrovato catapultato, nero su bianco, su un blog. È stato facile? No. Nemmeno per un secondo. Ma ne è valsa la pena. Per questo sono qui, di nuovo.

Io conosco due mostri: Ma e Divano Bianco

Mi accompagnano da sempre, dalla tenera età di due anni. Da quando li ho incontrati non mi hanno mai lasciata da sola. 

Ma è decisamente uno di quei mostri che si trasforma di continuo, l’ho incontrato in tante persone. Quelle che più ricordo, in modo nitidissimo e particolare sono due.

Una è la mia insegnante delle elementari, la temutissima (in realtà stronza, altre parole non ci sono) maestra di matematica, che chiameremo Margherita: mi ha sempre fatta sentire come un pesante macigno di 7 anni. L’altro giorno sfogliando il vecchio album di ricordi ho trovato una di quelle foto di classe in cui si è tutti pettinati e ordinati e, quasi sorpresa, ho detto a mia madre: “ero una bella bambina” (mai avrei pensato di dirlo). Poi ho spostato lo sguardo e l’ho vista. Erano anni che non vedevo quella faccia, e tutto d’un tratto mi sono sentita catapultata indietro nel tempo, seduta nel mio piccolo banco verde, il grembiule blu ben stirato, il colletto bianco, i capelli lunghissimi e la maestra Margherita di fronte a me che mi dice che dovrei fare sport, che dovrei muovermi, che sono una stupida. Mi è venuto il vomito a pensarci. Mi sono sentita in apnea per qualche secondo, poi mia madre mi ha fatto una domanda e sono ritornata nella realtà, mi sono girata per risponderle e lei ha visto la mia espressione, sgomenta, persa. allora mi ha stretto la mano. Non c’è stato bisogno di dire altro, aveva capito perfettamente cos’era successo.

La seconda persona che ricordo più che nitidamente, è l’infermiera del mio medico, che chiameremo Anna: avevo cinque anni, ero seduta in una sala d’attesa tappezzata di foto di bambini sorridenti, l’odore di disinfettante e caramelle per i bimbi più “coraggiosi”, quelli che si facevano la puntura senza piangere, per intenderci. Era giugno o forse luglio e faceva un caldo terribile, mi stavo annoiando a morte mentre aspettavo di essere visitata e stavo contando tutte le foto appese al muro. Ad un tratto Anna, capelli biondi cortissimi, molto alta e corpulenta, mi guarda e ghignando dice “guardati allo specchio, sei una vacca”. Avevo cinque anni. Io me lo ricordo ancora, come fosse ieri. 

Adesso che ci penso c’è una terza persona, il mio professore di educazione fisica delle medie, che un giorno ha deciso di esordire, tristemente, così: “Avanti Diana, muoviti, lo so che vorresti essere più magra”. 

E così vi sto riportando tutti gli stronzi che hanno fatto parte della mia vita, sin dalla tenera età. Tutti i miei “sei educata, intelligente, MA SEI GRASSA…”. Quelle che ho citato sono persone adulte. persone che avrebbero dovuto educarmi al rispetto per me stessa, che avrebbero dovuto complimentarsi per il mio modo di essere e non per il mio aspetto. 

L’altro mostro, Divano Bianco, non è proprio un mostro. È più uno stato d’animo al quale ho deciso di affibbiare un nome strano: “mi sento divano bianco”, per dire “mi sento abbandonata”. Sentirsi divano bianco, per una bambina circondata da persone troppo attente all’aspetto e troppo poco allo spirito, è cosa all’ordine del giorno. Ed io sono sempre stata divano bianco, quando invece avrei semplicemente voluto essere ascoltata, apprezzata per quel che ero. 

E così, me li sono portata dietro questi due amici mostri fino all’età adulta. Uno siede al lato destro, l’altro al lato sinistro. Spesso, prendono il caffè insieme, altre volte si scontrano per capire chi deve prevalere sull’altro. In mezzo a loro, ci sono io. 

Una postilla, doverosa: ho imparato, in questi brevi 23 anni di vita, che tutti sanno sentire, ma pochissimi eletti riescono davvero ad ascoltarti. Ed io di persone capaci di ascoltare, ad oggi, ne ho incontrate davvero troppe poche. E lo so, perché storia di un corpo non è soltanto la storia dell’involucro che ricopre il mio spirito, è la mia storia, e in pochi sono riusciti fino in fondo a capire cosa voglio dire quando scrivo: non è voglia di riconoscimento, riscatto, autocommiserazione. Niente di tutto questo. Io voglio soltanto comunicare che le parole hanno un peso specifico, molto più grande rispetto a quello di un corpo. 

Le parole, quelle sì, che vanno pesate. Accuratamente. 

Voglio soltanto far sentire meno sole le persone che non riescono a sentirsi apprezzate per quello che sono davvero DENTRO, non fuori. E vorrei anche dirvi che lì fuori il mondo è pronto per cambiare, è pronto ad ascoltare, ma vi direi una bugia enorme. Posso dirvi, però, che potete ascoltarvi voi. Potete stare seduti in una stanza e ascoltare attentamente cosa ha da dirvi il vostro corpo, potete perdonarvi per tutte le volte che non siete stati voi stessi in grado di ascoltarvi, per tutte quelle volte che vi siete rifiutati e non vi siete amati; per tutte quelle volte i vostri mostri hanno preso il sopravvento.

Noemi Diana

 

Storia di un corpo

In queste settimane mi sono interrogata, mi sono chiesta perché non riuscissi a scrivere di Grassofobia. Poi ho deciso di consultarmi con la mia psicologa: era lampante, effettivamente; non riesco a parlarne perché mi riguarda in prima persona. Non riesco a parlarne perché io sono grassa e lo sono sempre stata, sin dalla tenera età. E sin da allora sono stata indottrinata in modo da odiare il mio corpo. Anch’io sono stata una grassofobica. Forse, lo sono ancora.

Tutti si chiedono che cosa sia questa strana fobia, cercherò di spiegarlo in poche parole, anche se l’argomento richiederebbe pagine e pagine, infiniti caratteri di word.

La grassofobia è, banalmente, la paura delle persone grasse. Ma non solo. È paura di ingrassare, pesarsi continuamente, costringersi a folli regimi alimentari. È provare schifo nei confronti del proprio corpo, nello stare nudi. Grassofobico è chi rifiuta che possano esistere dei corpi grassi, che le persone grasse possano avere una vita sessuale (si, arriviamo anche a questi livelli). Grassofobica è la nostra società, da sempre. 

Come se ne esce da questo infinito loop? Io credo che soltanto una persona qualificata (e tanta forza di volontà) possano portarci a fare qualcosa per noi stessi.

Attenzione, accettazione non significa fregarsene delle proprie condizioni di salute. E su questo va fatta chiarezza. Non tutte le persone grasse, perché appunto tali, sono malate. Non è così. E non sono io a dirlo.

Quando avevo 14 anni un ragazzo mi disse “hai un viso bellissimo, ma purtroppo sei grassa”, mi ha (inconsapevolmente) distrutta. Da quel momento in poi sono entrata ancora di più nell’infinito loop di odio nei miei confronti. Mi facevo schifo, mi guardavo allo specchio e piangevo, stringevo forte tra le dita i miei rotoli come a volerli strappare via. Ho sempre avuto difficoltà a spogliarmi davanti alle mie amiche, ai miei fidanzati, perché pensavo di far loro schifo almeno il doppio di quanto me ne facessi io. Questi sono soltanto alcuni dei comportamenti disfunzionali che ho iniziato ad attuare. 

Oggi sono una donna di 23 anni e sto cercando di distruggere questi comportamenti. E vorrei che tutte le donne e gli uomini che stanno leggendo queste parole si sentissero abbracciate, confortate. Non siete sole. Amarsi è un percorso lungo, pieno di insidie ed ostacoli, ma prima o poi, arriveremo in cima e da lì lo spettacolo sarà splendido. Amatevi per ciò che siete. 

Noemi Diana

Attraverso gli occhi delle donne

Mercoledì 20 marzo, in occasione della giornata della francofonia, ho avuto la fortuna di assistere ad una conferenza molto interessante organizzata dalla mia università, UNINT.

Al microfono, il poeta canadese Émile Proulx-Cloutier – attore, realizzatore, sceneggiatore, assistente al montaggio e compositore quebecchese – ha affrontato un argomento serio e al tempo stesso delicato, ossia quello dell’essere donna oggi. Difatti ha cominciato il suo discorso chiedendosi: avrei il coraggio di scambiare la mia vita con quella di una donna?

A partire da questa domanda ha parlato della pressione che viene esercitata sulle spalle delle donne e della lotta che queste ultime hanno intrapreso per rivendicare i loro diritti: si riferisce in particolare al movimento “Me too” – campagna di sostegno alle vittime di aggressioni sessuali lanciata da un’operatrice sociale, vittima lei stessa di violenze sessuali (da qui il nome “Me too”) – e all’onda di denunce scoppiata nell’autunno del 2017, a seguito delle rivelazioni sul caso Weinstein, nome del produttore cinematografico americano accusato di aggressioni e violenze sessuali.

Lo scrittore canadese ha deciso di tradurre tutto ciò in poesia, risultato della lettura di numerosi articoli e blog che trattano questo tema, servendosi di frasi che mirano al cuore (parola ricorrente nei suoi testi), di una scrittura fisica e di performance poetiche orali senza musica, che gli consentono di concentrarsi sulle parole, dalle quali lo scrittore deve saper estrapolare la musica.

Ecco che inizia la sua esibizione: la prima poesia che ci legge, o meglio, che recita, si chiama “Force océane” (“Forza oceano”) e ci rivela a che punto la società esiga la perfezione e la luminosità dalle donne.  Al contrario, le parole di Proulx-Cloutier ci suggeriscono che si deve amare anche la loro parte meno bella, poiché le donne hanno il diritto di mostrarsi esattamente come sono (qui il link per vedere un esibizione dal vivo https://www.youtube.com/watch?v=zPHEDcQZBL0). Il senso del titolo è molto profondo: la forza della donna, al pari di quella dell’oceano, non smette mai di aumentare e nel giro di un milione di onde riesce ad abbattere i muri. Tuttavia una delle ultime strofe non ci lascia molta speranza:

Ça fait juste dix mille ans qu’on te coupe la parole
Qu’on te dompte ou t’écarte ou te traite de folle
Là l’vent commence à peine à virer d’bord
Y en a d’jà qui s’plaignent que tu parles trop fort”

“Sono dieci mila anni appena che ti tolgono la parola
che ti sottomettono, ti allontanano o ti trattano da pazza
e adesso che il vento comincia appena a girare
c’è già chi si lamenta che parli troppo forte”

Niente da aggiungere, ha detto tutto, le donne sono belle quando posano mezze nude nelle riviste, ma dal momento in cui parlano, danno fastidio. Ma cosa succede quando non sono più abbastanza giovani né belle per mostrare il loro corpo? È questo il caso della protagonista di “Le tambour de la dernière chance” (“Il tamburo dell’ultima occasione” https://www.youtube.com/watch?v=ouvYP0QQWuM), canzone che mette in scena un’anziana signora che non ama il suo corpo, che ha avuto tanti amanti (e pene d’amore) nel corso della sua vita e che adesso, affacciata alla finestra, si ricorda delle belle parole degli uomini. Belle parole che, mano a mano che è invecchiata, sono di gran lunga cambiate: da “la mia fiamma dai capelli rossi” a “la mia cosuccia che aspetta che la chiami”, o ancora da “la mia onda travolgente” a “il mio passa tempo”. Allo stesso modo, questa poesia mostra il grande cuore delle donne: la protagonista ha passato tutta la vita aspettando il ritorno del suo primo amante, che bussa troppo tardi alla sua porta, ma comunque dopo la rabbia resta qualcosa, non lo lascia andar via sotto la pioggia.

La cosa che mi ha colpito di più è la capacità di quest’uomo di identificarsi nelle donne, non solo nei loro corpi ma anche nell’anima, cogliendone le sensazioni e i sentimenti più intimi e mi sono detta “beh, se tutti gli uomini provassero a farlo, la nostra società ne beneficerebbe”. È arrivato il momento di far sentire la nostra voce, la rivoluzione è scoppiata e nessuno può fermarla.

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Eleonora Valente

Domani c’è il sole

Lo scorso lunedì mi ha scritto una mia amica. “Ho una cosa da scrivere su un argomento alquanto importante, mi piacerebbe molto se si potesse mettere sul tuo blog”, recitava il suo messaggio. Se in un primo momento ho pensato che a breve avremmo avuto una nuova collaboratrice, il mio errore fu presto evidente. Questa mia amica, che per ovvi motivi – resi ancor più ovvi dai legami di conoscenza che legano parte dei nostri redattori con parte del nostro pubblico – mi ha chiesto di poter restare anonima, mi ha voluto lasciare un messaggio, una piccola testimonianza di come ancora oggi la vita di una donna possa essere un inferno. La riporto integralmente:  Continua a leggere