Durante la Prima Guerra Mondiale, gli innamorati si scambiavano epistole, oggi ci inviamo i nudes. Dall’avvento dei social network, e in particolare delle app di messaggistica, non solo il modo di comunicare è stato totalmente rivoluzionato, ma anche l’espressione della propria sessualità ha subito profondi cambiamenti. Già, è finito il tempo delle lettere e dei pomeriggi passati attaccati alla cornetta del telefono fisso: oggi abbiamo il sexting. Il sexting consiste nello scambiarsi messaggi “hot” e materiale erotico (foto/video). Equivale, quindi, a fare sesso virtualmente. Dunque, allo stesso modo del sesso, è un momento intimo condiviso tra due persone consenzienti (o più di due, nel caso dei rapporti poliamorosi). Purtroppo, però, nel sexting non sempre tutto fila liscio come l’olio, soprattutto se si è donne. Essere una donna sessualmente libera nel 2020, in Italia, è ancora un taboo. Proprio per questo motivo la libertà sessuale può essere considerata un atto di rivoluzione politica.
Siamo a Torino. Una maestra d’asilo e un calciatore iniziano a frequentarsi, finché si viene a creare il contesto ideale per il sexting e la ragazza decide di inviargli un video intimo. A quel punto, il ragazzo invia il video sul gruppo di calcetto. Il video finisce tra le mani della moglie di uno dei ragazzi del calcetto, che riconosce la donna (era l’insegnante di suo figlio). Dopodiché, il video fa il giro del mondo e arriva nelle chat delle altre mamme. La maestra riceve minacce e intimidazioni dalle mamme. Al culmine di tutto ciò, la preside riceve il video e licenzia la ragazza.
Questa storia è tragica ed emblematica per la questione “revenge porn” se la si osserva sotto vari aspetti. Sì, perché appena dopo la vicenda, varie testate giornalistiche hanno postato la notizia sui social e sono fioccati commenti in stile victim blaiming nei quali i vari “tuttologi del web” si sono sentiti in diritto di esprimere il loro disappunto nei confronti della maestra che secondo loro “se l’è cercata”. E non solo: basti pensare alle mamme e la preside che, in barba alla solidarietà tra donne, hanno deciso, rispettivamente, le prima di diffamarla e la seconda di licenziarla. Ma non finisce qui: l’avvocato del ragazzo che ha diffuso per primo le foto ha minimizzato la questione a “un gesto fatto senza voler ferire”. E infine, ciliegina sulla torta: La Stampa dà voce a uno degli accusati, presente nel gruppo di calcetto, che afferma che “se mandi filmati osè devi mettere in conto il rischio che qualcuno li divulghi”; e ancora “non posso tollerare che chi si occupa dei miei figli faccia determinate cose” (cioè, quali cose? Sesso? Se il signore la pensa così, forse non dovrebbe nemmeno averli, dei figli…). Sempre lo stesso accusato ha semplificato il tutto a un semplice atto di “goliardia”.
“Boys will be boys but girls will be women”
Goliardia. Non è la prima volta che si abusa di questo termine quando non si riesce a capire la gravità e la matrice culturale del problema che si ha di fronte. Infatti, uno dei punti cardine del patriarcato è proprio aspettarsi che gli uomini siano eterni bambinoni, in modo da poter giustificare qualsiasi loro azione, anche le più sconsiderate, come in questo caso. Il famoso “boys will be boys”. Mentre dalle donne, fin dalla tenera età, ci si aspetta compostezza e maturità. Non è un caso che, quando una donna ha le sue prime mestruazioni, le venga detto “ora sei diventata signorina!”: per lei finisce l’infanzia, è tempo di maturare e di cominciare ad addossarsi tutte le colpe degli uomini. Ed è esattamente la situazione che ritroviamo analizzando la vicenda di Torino: una donna, padrona della sua sessualità, subisce una violenza di genere, ma il suo carnefice viene deresponsabilizzato. Lui può permetterselo, perché essendo nato uomo può continuare ad incarnare l’eterno bambinone immaturo e senza responsabilità sopracitato, mentre lei si merita la gogna per aver sfidato le regole della sessualità femminile imposte dal patriarcato. Questo è, dunque, ciò che viene chiamato “victimg blaiming”, ovvero la colpevolizzazione della vittima. Meccanismo subdolo che, non di certo per caso, viene adottato dall’individuo medio per approcciarsi ai casi di violenza di genere, in particolare quando si tratta di abusi e molestie sessuali. Chiedetevi se applichereste mai il victim blaiming ai casi di omicidio o furto: ovviamente non lo fareste, perché è un meccanismo nato apposta per umiliare e condannare le donne nonostante siano loro ad aver subito una violenza. Il victim blaiming è efficiente allo status quo, quindi va abolito e sradicato.
Non siamo state create dalla costola dell’uomo
In Italia, il revenge porn è diventato reato dal 19 luglio 2019, la pena prevede la reclusione da uno a sei anni e una multa da 5000 a 15.000€. Il carnefice ha risarcito la donna e ora sconterà un anno di lavori socialmente utili. Purtroppo, sarà la vittima a pagare il prezzo più alto della “goliardata” machista del suo ragazzo. E non finisce qui, perché il suo ragazzo, gli amici del calcetto e le altre mamme non sono state le uniche persone a violare la sua privacy: è proprio in questi giorni che gli oggetti di ricerca in tendenza su PornHub sono “maestra d’asilo” e “maestra italiana”. Questo significa che un numero copioso di utenti della piattaforma di porno mainstream più famosa al mondo ha digitato più volte sulla barra di ricerca il suo nominativo alla ricerca di un video condiviso non consensualmente. E questo deve far riflettere, perché su PornHub si trovano video di ogni tipo e per tutti i gusti, quindi se migliaia di persone hanno deciso di cercare un oggetto specifico – che, ribadiamo, era un video condiviso senza il consenso della protagonista – significa che la violenza di genere reale li eccita più della finzione. Perché guardare un video privato, proibito, su cui la persona che l’ha girato non ha più il controllo, fa sentire potenti quegli uomini piccoli, con un ego fragile, che credono che le donne siano degli oggetti sessuali creati per il loro piacere. Cosa credete abbia spinto il carnefice della storia di Torino a condividere il video della sua ragazza? Lui voleva esporla ai suoi amici come se fosse un trofeo – appunto, un oggetto – per potersene vantare. È sempre stato così, fin dall’alba dei tempi. Non è un caso che Eva sia stata creata dalla costola di Adamo: lei era il suo oggetto, nata solo ed appositamente per soddisfare i suoi bisogni e piaceri, per fargli compagnia. Anche durante le guerre avviene un fenomeno crudele: gli stupri di guerra. Il popolo vincitore, per affermare il suo potere sui vinti, compie degli orribili stupri a danno delle donne del popolo sconfitto (non solo, spesso anche a danno di bambini e uomini). E questo perché? Perché lo stupro è un mezzo di affermazione della propria autorità (solitamente maschile, ma non solo) su una persona che si trova più in basso nella gerarchia sociale (nella maggior parte dei casi donne, ma spesso anche altri uomini). Dunque, nel revenge porn, come nello stupro, la vittima diventa un oggetto agli occhi maschili. Che sia un oggetto da umiliare o da esporre come un trofeo, in entrambi i casi subentra la forte disparità di potere sociale tra uomini e donne.
Sorelle di genere, nemiche per scelta
Questa vicenda si differenzia dalle altre violenze di genere per un particolare: i carnefici non erano tutti uomini. Infatti, dopo che il video della maestra è stato inoltrato nella chat del calcetto, è finito tra le mani di una delle mamme dei bambini a cui insegnava. Lei l’ha inoltrato alle altre mamme, che l’hanno minacciata. In qualche modo, il video è arrivato nella chat della preside che ha deciso di licenziarla. Oggi si dice spesso che “le peggiori nemiche delle donne sono altre donne” e questa storia sembrerebbe confermarlo. Ma è davvero così? Sebbene molte persone credano che la competizione femminile sia innata, la realtà dei fatti è un po’ più complessa: siamo tutte e tutti immersi nella cultura patriarcale, ne subiamo una profonda influenza fin dalla nascita, fin da quando, appena nati, ci fanno indossare la tutina del colore stereotipicamente associato al nostro genere, dando per scontato che, crescendo, rispetteremo aspettative e ruoli di genere ben precisi. Alle bambine viene insegnato fin da piccole a competere fra di loro per l’attenzione maschile. Si sente spesso dire, ad esempio, che nelle classi scolastiche di sole donne c’è bisogno di un uomo che si ponga come mediatore di eventuali litigi femminili. Veniamo bombardate di concetti simili, da sempre. Ci convincono che saremo qualcuno solo se otterremo il consenso maschile, ed è questo che ci porta a competere fra di noi. La misoginia interiorizzata dalle donne è un meccanismo di adattamento alla società che le porta a denigrare ad altre donne, in modo da affermarsi su di loro e avvicinarsi il più possibile al genere maschile e da accedere ad alcuni privilegi. Il femminismo mira a smontare questa concezione errata delle donne competitive, perché non è quello che siamo, bensì quello che vogliono che noi siamo. La competizione tra donne è funzionale al mantenimento del patriarcato, perché è un metodo implicito per continuare a colpevolizzare il genere femminile. Ne è la conferma il fatto che si crede senza pensarci due volte allo stereotipo delle donne nemiche e competitive fra loro, ma quando si sposta il focus sulle responsabilità maschili si manifestano le prime esitazioni. Nessuno si sognerebbe mai di dire che gli uomini sono i nemici delle donne, e anzi, in tal caso si urlerebbe immediatamente al “sessismo inverso”: eppure i dati ci dicono che la violenza sulle donne perpetrata da uomini è un fenomeno sociale. Ovviamente, i nemici delle donne non sono gli uomini. È innegabile, però, che gli uomini abbiamo un maggior potere sociale: per questo, se fossero loro ad esporsi contro il patriarcato sarebbero paradossalmente più credibili di noi donne.
Né la prima né l’ultima vittima
Non è la prima volta che immagini private e intime vengono diffuse senza il consenso delle proprietarie. Pochi mesi fa è scoppiato lo scandalo dei famigerati gruppi su Telegram. In queste chat, gruppi di migliaia di uomini (e spesso anche donne) si scambiavano materiale pornografico non consensuale come se si trattasse delle figurine dei Calciatori Panini. Donne, inconsapevoli, che subivano veri e propri stupri virtuali. Su quei gruppi potrei essere finita io, o qualche mia amica, ed è uno dei prezzi da pagare per essere donne in una società patriarcale e misogina. E non è tutto: molte delle foto che venivano condivise erano semplici post presi da Instagram o dagli altri social network (che, oltretutto, in alcuni casi venivano spogliate con dei programmi appositi). Questo la dice lunga su come non siano la libertà sessuale e la nudità ad istigare gli uomini ad oggettificare le donne: nudes e foto di volti condividevano lo stesso oscuro destino sui gruppi di Telegram. La vicenda di Telegram mi colpì molto per un particolare. Gli uomini sui social continuavano a scrivere imperterriti “Not all men” in risposta alle femministe. La prima cosa che pensai è “non tutti gli uomini sono coinvolti e non tutte le donne sono finite sulle chat di Telegram. Eppure, molte di noi sono spaventate tanto da renderlo un problema di genere. Perché gli uomini non fanno lo stesso? Perché al posto di deresponsabilizzare e difendere a spada tratta il proprio genere di appartenenza non provano ad interrogarsi sul perché così tanti uomini – così tanti da rendere la violenza sulle donne un fenomeno sociale – si comportino in un certo modo?”
Ritornando al termine “goliardata”, è d’obbligo accennare il caso di Tiziana Cantone, ennesime vittima di revenge porn, la cui storia è terminata con il suicidio. Il ragazzo che ha deciso di gettare la maestra in pasto allo stigma sociale, ha mai pensato al dolore e al trauma psicologico che potrebbe averle causato? Se davvero le sue intenzioni fossero state goliardiche e innocue (“senza voler ferire” come ha dichiarato l’avvocato del diavolo), avrebbe quantomeno provato a fare un paragone con il caso Cantone. Perché una goliardata non ha nessun impatto psicologico e sociale sulla tua vita, il revenge porn sì.
Fonti: