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Ilva, non Ilva o altro: un caso eminente di inconciliabilità tra sviluppo e sostenibilità

La vera domanda, quando si parla di “sviluppo sostenibile”, è: cos’è che non funziona nello sviluppo, nella logica dello sviluppo? 
In auge almeno dalla Seconda Rivoluzione Industriale, essa sembra essere oggi in crisi. Messa alle strette da un fattore imprevisto: l’ambiente. 
Riadattare la produzione ai nuovi limiti ecologici è un’operazione complessa: ne è caso esemplare la vicenda che coinvolge l’ex Ilva di Taranto, dilaniata nell’alternativa tra una riconversione che sacrifica parte del personale e una mantenimento “normale” della produzione, che grava sulla salute degli abitanti. 
Un dramma industriale che cela un dramma filosofico: la fine di un modo di pensare, quello dialettico. E, forse, l’alba di un nuovo senso. 

In principio era Marx 

L’Ilva è figlia dello sviluppo industriale occidentale. O, meglio, è l’incarnazione italiana tristemente più famosa del capitalismo moderno e della sua logica: logica sulla quale si basa il funzionamento dell’economia industriale. 
Potendo raccogliere la varietà e complessità della galassia produttiva di matrice capitalista in un unico sistema composto di elementi comuni diversamente articolati, otteniamo un concetto utile: quello di Economico. 
Nello specifico, l’Economico capitalistico è il sistema produttivo che si basa sull’accumulo di plusvalore, da parte dell’industriale, attraverso uno sfruttamento del lavoro che ingrossa il capitale investito nell’azienda. 
In estrema sintesi, è questa la realtà descritta da Marx nel Capitale. Dal punto di vista economico. 
Com’è facile capire, ciò ha importanti conseguenze sul piano sociale e politico. Per quel che riguarda il primo aspetto, una simile organizzazione produttiva genera una contrapposizione netta tra i due gruppi partecipi in diverso modo del processo produttivo: capitalisti e proletariato, infatti, sono le due parti di una lotta di classe dagli esiti, secondo Marx, ben determinati. 
Sul piano politico, una tale organizzazione strutturale produce una sovrastruttura ideologica liberale alla quale lo stesso Marx contrappose un modello alternativo: l’organizzazione collettivistica del lavoro, fondamento dell’ideologia comunista. 
Ma qual è il senso di tale prospettiva marxiana? Come possiamo leggere le varie articolazioni, economiche politiche sociali, di tale pensiero? Forse come parti di un sistema, erede di Hegel, in cui la regola è il conflitto, e la logica la dialettica? 
È, questa, una interpretazione verosimile. Se le diamo ascolto, allora dobbiamo accettare che sul paradigma Tesi-Antitesi-Sintesi si dispiega la realtà dell’umano per Marx. Innanzitutto la realtà storica, il senso della storia: il progresso, infatti, è storia di negazione. 
Dell’Altro, se guardiamo al rapporto economico-sociale. Della Natura, se assumiamo uno spettro ampio, esteso al significato stesso del produrre. 

Le eredità della “nuova” economia 

L’economia capitalistica, tuttavia, non rimane invariata dai tempi di Marx. Raggiunto il suo apice produttivo durante le due guerre mondiali e toccati i limiti della sua espansione al termine della Guerra Fredda, il “vecchio” sistema economico-industriale ha oggi cambiato pelle. Tanto che, dalla sua muta, è uscito un che di nuovo, che conserva un’eredità del passato solo perché non sa come sbarazzarsene. 
La fine della contrapposizione tra i due blocchi, e il trionfo dell’egemonia capitalistica, ha portato ad una espansione del mercato verso i Paesi che prima ne erano fuori, poi ad una industrializzazione in senso capitalistico dei nuovi arrivati, e, infine, ad un relativo livellamento degli standard produttivi dei Paesi industrializzati. 
Ciò significa che la concorrenza tra prodotti pressoché identici si è dovuta spostare dal piano della loro produzione al piano della loro vendita: essendo minime le differenze tra i sistemi produttivi per quanto riguarda la capacità di immissione di beni sul mercato nella maggiore quantità possibile al minor costo possibile, le società industriali hanno cominciato ad investire sulla vendita. Cioè sulla forma del prodotto, sulla sua pubblicità, in senso lato. Anche per questo si parla, oggi, di una società post-industriale, in cui la produzione e la fabbrica sono passate in secondo piano rispetto alla pubblicizzazione e al marketing. Inoltre, importanti cambiamenti sono avvenuti anche nel campo della conformazione della società. Nel quale la marxiana identificazione (e contrapposizione) per classi è andata sempre più sfumandosi a vantaggio dell’espansione del ceto medio, avvenuta sia per allargamento del mondo capitalistico, sia per integrazione di fette sempre più ampie della popolazione in nuovi settori lavorativi. 
Quest’ultima è divenuta possibile grazie al processo socio-politico definito “burocratizzazione” degli Stati. Un fenomeno che ha raggiunto i suoi massimi esempi negli Stati a regime totalitario o semi-totalitario, ma che ha coinvolto in generale quei Paesi in cui lo Stato è divenuto, per un certo periodo, pervasivo nella vita economica della nazione. 
Il ceto medio così artificiosamente ingigantito, plasmato dall’economia diretta dallo Stato, ha visto, con il ritorno ad una economia di mercato, spalancarsi più ampie libertà di scelta. Anzi, maggiori opportunità di investimento: dove i “beni” investiti erano e sono il denaro in surplus e il tempo libero. Ciò significò una immissione sul mercato di quantità sempre maggiori di prodotti pubblicizzati attentamente. Con l’obiettivo di gonfiare a dismisura i bisogni già creati per dopare i consumi e mantenere vitale il mercato, ed il processo produttivo alle sue spalle. 

Necessità nella dialettica 

Eppure, questo sistema è in crisi. Non apparente; sostanziale. 
Facciamo finta di poter astrarre dalle leggi di mercato, ignoriamo i “naturali” cicli della produzione. Immaginiamo, per l’oggi, una diversa causa di crisi, attingendola dal futuro prossimo: l’irreversibile alterazione degli equilibri ambientali che implica l’esaurimento delle risorse e, soprattutto, il mutamento delle condizioni di abitabilità del pianeta. Una tale causa comporta uno stravolgimento della logica industriale: la necessità passa dall’essere un attributo sostanziale della dialettica, del suo dispiegarsi, al darsi come elemento ineliminabile che si frappone allo scorrere fluido degli ingranaggi del Logos Economico. Una necessità nella dialettica, fuori dal suo controllo. Che implica un ripensamento del sistema che su questa dialettica si fonda. 
Ciò che abbiamo chiamato necessità, e che abbiamo contrapposto alla logica del progresso dialettico, cioè al capitalismo, non è altro che la determinatezza del futuro. Un fattore, questo, che sconvolge il meccanismo di accumulazione di capitale da reinvestire, tanto sul piano economico quanto sul piano finanziario: la logica dialettica, infatti, presuppone l’indeterminatezza del futuro. È la clausola basilare per lo sviluppo. 
Ora, data l’inaggirabilità di questo ostacolo, è chiaro che parlare di sviluppo accoppiandogli l’aggettivo sostenibile non risolve il problema. E ciò perché tale proposta si regge ancora su di una logica dialettica. 
Lo sviluppo, il progresso non possono fare a meno dello sfruttamento: dell’ambiente e del lavoro. Nell’ottica di un allontanamento illimitato dell’orizzonte presso cui tale sfruttamento si esaurisce. 
Oggi, un simile allontanamento si mostra nella sua faccia più illusoria. E, in più, lo sfruttamento appare svantaggioso: perché impiegare certi tipi di risorse per la produzione altera pericolosamente gli equilibri dell’ecosistema, avvicinando ancor di più l’orizzonte. E perché il mercato coinvolge un ceto medio sempre più partecipe del giudizio sulla vendibilità di un prodotto. 
Perciò, la possibilità della riconversione industriale nell’epoca della necessità si riduce all’adozione della prospettiva della sostenibilità, piuttosto che dello sviluppo sostenibile. Ciò significa instaurare una cooperazione tra capitalista e fruitore (in cui il lavoratore sia al centro come essere umano) nella creazione di una nuova produzione, capace di far fronte alla necessità di una conversione dei mezzi di produzione. Una conversione ecologica. 
Rimane aperta, tuttavia, la questione relativa ai costi di una simile conversione. Testimone l’ex Ilva. Una questione che, se abbandonata dalla mediazione politica, rischia di ridursi al solo piano dei meccanismi di mercato, capaci di riadattarsi semplicemente sostituendo i mezzi vecchi con mezzi nuovi, ma con lo stesso fine di sempre. 

Lorenzo Ianiro

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Aluminij: un’agonia che dura da più di 20 anni

Il 9 luglio 2019 dopo 44 anni di attività ha chiuso la fabbrica Aluminij a Mostar. Il “gigante dell’Erzegovina”, nome che si era legittimamente affibbiato, è solo uno dei tanti esempi di fallimenti dopo la guerra degli anni ’90 nei paesi che un tempo componevano l’ex-Iugoslavia.

Ma cos’era l’Aluminij? Si trattava della più grossa industria di produzione dell’alluminio nella regione balcanica che dal 1975, anno della sua fondazione, è riuscita non solo a imporsi a livello locale creando un’enorme rete di cooperazione con diverse aziende, cooperative e fabbriche minori e non, come il cantiere navale di Ploče o come la storica compagnia Jedinstvo, ma anche a livello internazionale, siglando partnership ad esempio con la Chrysler tedesca, la Fiat italiana e l’Hydro ASA norvegese.
Un colosso del genere come ha fatto allora a fallire? La risposta è semplice ed è benissimo riassunta da un modo di dire Serbo-Croato: “Balkanska Posla” (tradotto significa “Business balcanico”). Questo “business” fa riferimento alla malagestione tipica dei governi post-socialisti e degli imprenditori che hanno acquisito le fabbriche. Nel caso specifico dell’Aluminij si riferisce alle polemiche che i governi croato e bosniaco hanno creato attorno alla fabbrica, accusandosi a vicenda di aver sabotato il suo corretto funzionamento. Prima di analizzare nello specifico quali sono queste accuse e quali sono i fatti dietro ad esse, bisogna precisare che l’azienda è detenuta per il 44% dal Governo bosniaco, per un altro 44% dai lavoratori ed ex-lavoratori e per un 12% dal Governo croato, secondo l’accordo siglato nel 2007 dai due paesi coinvolti.
Da una parte, quindi, abbiamo il Governo bosniaco che accusa quello croato di sfruttare il partito locale che rappresenta i croati, l’HDZ (Hrvatska Demokratska Zajednica, Unione Democratica Croata) per assumere solo lavoratori di etnia croata e in questo modo incrementare la percentuale reale di proprietà dell’azienda. Dall’altra parte abbiamo il Governo croato e i diversi partiti che rappresentano i croati in Bosnia che accusano il Governo bosniaco di sabotare volutamente l’azienda per forzare l’assunzione di ulteriori lavoratori di etnia “bosgnacca” (fede islamica) ma anche per costringere la Croazia ad accettare una revisione dell’accordo che permetta la completa cessione dell’azienda alla Bosnia.

Alla fine, le accuse di entrambi sono veritiere, perché l’HDZ sfrutta realmente i suoi agganci politici per far assumere solo croati nell’Aluminij, tanto che anche l’Amnesty International in un suo report ha confermato la presenza di soli lavoratori croati, accusando lo stesso partito e l’azienda di compiere di fatto una “pulizia etnica”. Il Governo bosniaco, invece, aumenta in modo spropositato i costi dell’elettricità all’Aluminij quando la Bosnia è un paese che ha un elevato export di energia elettrica. L’azienda diventa un mezzo tramite il quale i due governi regolano i conti tra di loro per accordi che ritengono insoddisfacenti ma che sono stati siglati in presenza di supervisori internazionali.
Tutto ciò si ripercuote sui lavoratori, dove in questo caso 900 di loro si trova di punto in bianco senza lavoro. Se aggiungiamo a questo tipo di “gestione” anche gli accordi loschi che i governi siglano con figure ancora più losche, la gestione clientelare di certe aziende da parte dei partiti, il nepotismo che si instaura non solo in aziende private ma anche in quelle pubbliche, la vendita a prezzi bassissimi di interi assetti pubblici a profittatori di guerra nel pieno “dell’isteria di privatizzazione”, manovre segrete per falsificare i bilanci o debiti privati coperti dai conti pubblici e la mancanza di una reale volontà politica nel sostenere una rilancio effettivo dell’economia, ecco che si ha il quadro tragico di questi paesi.

Per 20 anni queste scelte hanno portato a un accumularsi di problemi che ora lentamente stanno uscendo allo scoperto, non facendo altro che rendere più lunga l’agonia per i cittadini. Per citare alcuni esempi: il fallimento dell’Agrokor, che costituiva un gigantesco impero economico al quale però il Governo croato falsificava il bilancio e nascondeva i debiti esponenziali che aveva accumulato il proprietario Todorić; il fallimento della catena “Kerum” dell’omonimo proprietario ed ex-sindaco di Spalato, dopo i debiti che lui stesso aveva accumulato giocando ad azzardo; la chiusura della storica azienda “Zastava” in Serbia per l’incapacità del Governo serbo di impedire alla Fiat di delocalizzare; la chiusura di interi cantieri navali come quello di Fiume o di Pola perché il Governo croato non aveva voluto pagare gli stipendi ai lavoratori preferendo invece aumentare il bilancio positivo dei conti pubblici; la chiusura della fabbrica di tabacco in Bosnia dopo che il Governo l’aveva venduta a un magnate bulgaro…

La cosa più tragica del caso Aluminij resta però il fatto che da questa azienda dipendessero migliaia di altre aziende minori o cooperative e che ora, con il fallimento, i 900 lavoratori rischiano di diventare decine di migliaia e che rischia di ripercuotersi anche al di fuori del confine della Bosnia, andando a colpire ad esempio, il cantiere navale di Ploće in Croazia che già rischia un calo del 50% di attività. Una tragedia causata da polemiche nazionaliste tra governi miopi e sordi che continuano a sostenersi tramite una rete clientelare.

Una tragedia che rischia soltanto di aggravarsi col tempo, perché anche davanti a questi disastri i governi preferiscono continuare a polemizzare, anziché riflettere su piani per una ripresa economica effettiva.

Andrea Zamboni Radić

Valigetta di sopravvivenza nell’era dell’innovazione sociale

Spesso mi sto trovando a scrivere per La Disillusione di un concetto tanto rivoluzionario quanto fumoso, quello dell’innovazione sociale.
Non esistono definizioni condivise del concetto, tanto più che l’accademia e la teoria hanno dedicato poco spazio all’analisi e allo studio del suo significato. In termini generali possiamo definirlo come uno strumento pratico e teorico che si riferisce a tutte quelle nuove idee che si impegnano per raggiungere obbiettivi sociali. Se vi sembra che voglia dire tutto e nulla, non siete soli.

Vale la pena però cercare di entrare più nello specifico, se non altro perché il concetto sta trovando tappeti rossi stesi da parte di istituzioni di ogni genere, molto affascinate dalle soluzioni promesse in merito alla discrepanza crescente tra i bisogni relativi alla qualità della vita degli individui e delle comunità, e le risposte tradizionalmente proposte.

Bisogna tenere presente che il termine ‘innovazione sociale’ è di per sé un termine neutro. Inteso come processo di miglioramento di prodotti e processi, è presente nella nostra società da sempre ed è stata motore dei cambiamenti storici della nostra organizzazione sociale e di vita quotidiana.

È vero, però, che la veste che l’innovazione sociale indossa cambia a seconda delle ragioni che la spingono ed è vero anche che l’innovazione sociale diventa più significativa in momenti di cambiamenti particolarmente veloci.

Oggi, l’innovazione sociale si presenta come quel processo che tenta di riappacificare la dimensione utilitaristica della nostra economia, preponderante e dalla faccia poco umana, con quella sociale, sempre più rumorosa e insoddisfatta. È anche quel processo che compensa la ritirata delle garanzie storicamente garantite dai nostri sistemi di welfare, dando risposte immediate ai bisogni di anziani, disabili, genitori, donne e individui di tutti i tipi.    

Bisogna tenere presente che all’interno delle innovazioni ricadono “buone innovazioni”, “cattive innovazioni” e persino “finte innovazioni”. Mi riservo di dedicare all’argomento almeno una tesi di dottorato prima o poi in futuro, mentre per quanto riguarda questo articolo, voglio spostare l’attenzione su un tipo di innovazione sociale a cui mi sto dedicando negli ultimi mesi: le competenze trasversali, in inglese soft skills.

Mi trovavo da poco ad un tavolo con professionisti del terzo settore in cui ci siamo trovati tutti d’accordo nel dire che una delle più grandi innovazioni a cui stiamo iniziando ad assistere sia la marcia indietro del sistema della specializzazione a favore di un sistema in cui cresceranno di importanza proprio le competenze trasversali.  

Ultimamente si inizia a parlarne anche in Italia, soprattutto in ambito aziendale e nel settore privato, perché i datori di lavoro sono sempre più in cerca di figure flessibili a cui si possano insegnare competenze specifiche ma che portino nel proprio bagaglio la capacità di svolgere compiti complessi che richiedano quindi competenze diverse dalle conoscenze settoriali.

In inglese, le soft skills sono chiamate così in contrapposizione alle hard skills. Per hard skills si intendono tutte quelle competenze che vengono insegnate all’università o sul posto di lavoro. Un economista sa calcolare i tassi di interesse, un medico sa diagnosticare una malattia, un ingegnere sa fare i calcoli delle strutture.  Sono per la maggior parte settoriali, se si escludono alcune skills come quelle legate all’utilizzo delle tecnologie che invece diventano sempre più indispensabili indipendentemente dal lavoro. La specificità delle hard skills si spiega con la accresciuta complessità e specializzazione del mondo e del lavoro.

In questi tempi strani, in bilico tra il trionfo e la disfatta del neoliberalismo, personalmente sono passata dal considerare le soft skills, le competenze trasversali, come un ennesimo modo di servire il capitale, una “brutta innovazione sociale”, a credere che siano strumenti potentissimi sia a livello personale che, potenzialmente, a livello sociale.

Perché?

Le competenze trasversali servono a raggiungere un obiettivo, anche il più semplice.

Per esempio, se il mio obiettivo è quello di fare colazione con il caffè e una mattina mi rendo conto di essermi dimenticata di comprarlo, le soft skills mi permettono di non incazzarmi e rompere una tazzina per esprimere la mia frustrazione (intelligenza emotiva), di prepararmi un tè per permettermi comunque di cominciare la giornata (problem solving) e di programmare di passare al negozio a comprare il caffè dopo il lavoro così da averlo per l’indomani (time management).

Chiaramente poco importa se poi rompo una tazzina o se una mattina salto la colazione, ma è chiaro che quando gli obiettivi diventano più complessi o la posta in gioco è più alta, diventa sempre più importante possedere questo tipo di capacità.

Quando ho iniziato a sentire parlare di soft skills, mi si rizzavano i peli delle braccia a pensare come si trovassero sempre nuovi modi di rendere più produttivi i lavoratori. Ma con il tempo ho cominciato a vederle come strumenti utili al raggiungimento di un obiettivo che prescinde dall’aumento della produttività.

Ognuno di noi ha alcune capacità comportamentali più o meno pronunciate. C’è chi potrà essere bravissimo nella gestione del tempo ma non capire più niente quando si trova davanti ad un imprevisto. Qualcuno potrebbe trovare naturale riuscire a controllare le proprie emozioni ma avere assolutamente zero capacità di curare i dettagli.

Tutti questi aspetti diventano importanti quando nella vita ci troviamo a desiderare di raggiungere un qualsiasi obiettivo. La buona notizia è che su tutte queste competenze si può lavorare e anche ciò che ci viene meno naturale può essere imparato.

Le scuole danesi che insegnano l’empatia attraverso la condivisione dei problemi individuali di gruppo e la mediazione guidata, per esempio, stanno insegnando proprio una soft skill, quella dell’intelligenza emotiva, perché l’empatia è una di quelle emozioni che permettono una migliore convivenza con gli altri nella propria vita così come in un contesto professionale.  

Senza che l’efficienza diventi una malattia, parlare e insegnare le competenze trasversali potrebbe tanto aiutare in un mercato del lavoro sempre più fluido, quanto ridurre lo sforzo che le persone si trovano ad affrontare nei processi di crescita personale.

Senza contare che combinate tutte assieme, definiscono delle menti creative e innovative, che davanti al mondo non vedono né staticità, né accettano lo status quo, ma al contrario muovono tasselli e costruiscono nuove figure.

Ecco perché indipendentemente dal fatto che le aziende ci richiederanno sempre di più di dimostrare di avere queste capacità, dovremmo prendere le competenze trasversali sul serio. E integrarle nei programmi scolastici. E trovare degli strumenti adatti per l’insegnamento, strumenti di tipo tecnologico, tradizionale o del tutto innovativo.

A che punto siamo noi?

Francesca di Biase


Fonti:

http://www.rivistaimpresasociale.it/archivio/item/56-oltre-la-retorica-della-social-innovation.html

https://qz.com/763289/denmark-has-figured-out-how-to-teach-kids-empathy-and-make-them-happier-adults/

http://www.cnos-fap.it/sites/default/files/articoli_rassegna/pellerey_rassegna1-2016.pdf

https://www.university2business.it/2019/02/14/competenze-trasversali-la-rivincita-delle-soft-skill/

Il car sharing: un nuovo modo di vedere l’auto

Gli ultimi anni hanno visto sorgere svariati esempi di economie collaborative, in cui il concetto di proprietà è passato in secondo piano in favore dell’accesso a un determinato bene o servizio. Insomma, nella prima metà del 21° secolo sempre più persone considerano più importante avere la possibilità di usufruire di qualcosa piuttosto che possederla. Ed ecco che svariati oggetti finiscono per essere condivisi con sconosciuti tramite la gigantesca diffusione di internet. Dai giocattoli alle case, dalle biciclette ad attrezzi da muratore, dai terreni agli abiti, è oggi possibile affittare per un periodo limitato una gamma di oggetti sempre più ampia, in nome del risparmio, della condivisione e dell’efficienza. Un fenomeno in vasto aumento è senza dubbio quello del car sharing. Sono centinaia le compagnie di car sharing, con centiaia di migliaia di iscritti, che con una piccola quota di iscrizione ricevono un tesserino intelligente che dà accesso ai veicoli delle varie autorimesse che la compagnia possiede, previa prenotazione con un semplice smartphone. Un dato interessante è che una consistente percetuale degli iscritti a una società di car sharing ha venduto la sua auto in seguito alla sua iscrizione alla società. Comprare e mantenere un auto è costoso, e come ogni altro oggetto, viene utilizzato per un tempo molto limitato. Il fenomeno del car sharing migliora l’efficienza dell’automobile, in quanto viene utilizzata più spesso e da molte più persone, con il risultato di ridurre il costo di manutenzione per ogni utente. Inoltre, ciò riduce il numero di veicoli nelle strade, e anche le emissioni di CO2 nell’atmosfera, dimostrando che il vantaggio è non solo economico ma anche ambientale. I dati mostrano che nel 2009 ogni veicolo di car sharing ha provocato l’eliminazione di 15 automobili private, e nel 2013 questi cambiamenti nel mondo dell’auto hanno ridotto le emissioni di CO2 di quasi 500.000 tonnellate.

Il fenomeno presenta dei margini di espansione e possibilità che vanno, forse, oltre le aspettative dei pionieri del car sharing. Gli sviluppi tecnologici in materia di auto elettriche e a guida autonoma nascondono una potenzialità che ben si accorda con il principio alla base del car sharing. Possiamo facilmente immaginare che nei prossimi anni, auto a guida autonoma porteranno un cliente nel luogo da lui scelto, per poi lasciarlo e andare a prendere il cliente successivo, e così via, il tutto in autonomia e sempre tramite una banale prenotazione via smartphone. Questo non solo ridurrebbe il traffico, le emissioni di CO2 e le spese in termini economici, ma anche incidenti mortali che ogni giorno si verificano sulle strade di tutto il mondo. Checchè ne dicano i più restii all’uso di auto intelligenti, il 90% degli incidenti stradali avviene per errore umano: colpi di sonno, distrazioni, mancanza di riflessi, tutti problemi che ad una vettura a guida autonoma non possono mai capitare. La nuova generazione, quella cresciuta con internet, è poi molto più favorevole all’adottare veicoli a guida autonoma rispetto alle vecchie, con buona pace dei cultori dell’auto e della guida manuale. Guida manuale che naturalmente non scomparirà, ma verrà semplicemente ridimensionata, almeno nel breve-medio periodo.

Facendo un piccolo riassunto, sembra che non ci sia nulla per cui essere contrari: i costi sono considerevolmente ridotti, il traffico nelle grandi città è ridotto e l’ambiente ringrazia. Inoltre la possibilità del car sharing a guida autonoma amplifica tutti i precedenti vantaggi, e ne aggiunge altri, su cui spicca la riduzione degli incidenti mortali. Nonostante ciò, come per ogni innovazione, c’è chi vince e c’è chi perde.

Il primo ostacolo è la mentalità di ognuno di noi. L’automobile è un simbolo di libertà, di autosufficienza, possedere una macchina è stato uno status symbol per molto tempo e la si può considerare come la rappresentazione ideale della proprietà privata del XX secolo, una rivoluzione iniziata negli stabilimenti Ford. Perdere il possesso di un simbolo così importante può frenare molte persone, anche se molte cose stanno cambiando e la terza rivoluzione industriale sta travolgendo ogni certezza della nostra vita quotidiana, inclusa quella stessa di “proprietà privata” convenzionale, che il car sharing, così come altri servizi, stanno contribuendo a minare, ma non è questo il luogo per approfondire il concetto di proprietà privata e la sua trasformazione nel terzo millennio.

Abbiamo detto in precedenza che ogni veicolo di car sharing elimina dalla circolazione 15 veicoli privati. Questo dato ci porta logicamente a capire chi è il prossimo perdente: le grandi aziende automobilistiche, che vedranno diminuire il numero di immatricolazioni mano a mano che il fenomeno di car sharing si espanderà. Tuttavia anche le grandi aziende non sono rimaste a guardare e si sono attivate per produrre sia veicoli a guida autonoma, nel tentativo di essere i pionieri della nuova rivoluzione dei trasporti su strada, sia accordi commerciali con le aziende di car sharing per non vedere sfumare i loro profitti. Ma a conti fatti, il – relativo – piccolo compenso che ricevono per il car sharing non potrà mai uguagliare la mole di guadagni per la vendita di milioni di auto ogni anno. Per il momento il car sharing è nel complesso un fenomeno di nicchia anche se in rapidissima espansione, e non è in grado di impensierire i profitti dei grandi colossi del settore auto, ma l’attenzione riservata da questi ultimi alla novità è indice se non di paura, almeno di una lieve preoccupazione. Il trend sembra essere preciso e senza molti margini di discussione e cambiamento, il car sharing è una realtà che vuole trovare il suo posto in questa economia e, forse, anche di cambiarla.

Andrea Maggiulli


Bibliografia

  • Homo deus. Breve storia del futuro, di Yuval Noah Harari
  • La società a costo marginale zero, di Jeremy Rifkin
  • La terza rivoluzione industriale, di Jeremy Rifkin

Sardex – che cosa è il denaro?

Il 10 aprile 2010, esattamente nove anni fa, in Sardegna avviene la prima transazione in Sardex, una nuova moneta complementare all’Euro. Questa transazione inaugura la nascita di un modello di valuta complementare locale di successo, dimostrato dagli studi di vari esperti, come quello portato avanti da tre professori per la London School of Economics – Paolo Dini, Wallis Motta, Laura Sartori -. E confermato dal fatto che molte altre regioni italiane hanno iniziato un percorso di creazione di una propria valuta complementare sotto la guida e l’accompagnamento dei fondatori di Sardex.

Seppure ogni sistema di valuta complementare riporta le proprie specificità, altre città e comunità in Europa e Nord America stanno percorrendo percorsi simili e ugualmente virtuosi, tanto che diventa interessante provare ad esplorare attraverso il caso Sardex cosa siano queste valute complementari e perché rappresentino un modello in espansione.

Cosa rende un esperimento di moneta complementare così interessante?

Il modello Sardex rappresenta una risposta di una comunità ai danni che una regione debole subisce nel contesto di un’economia capitalista globalizzata. Creando un circuito di moneta parallela a quella tradizionale, permette l’accesso al denaro, ai prestiti, alla liquidità e al consumo ad una popolazione che ha sempre e profondamente subito le logiche di accentramento della ricchezza, dello sfruttamento della sua terra e dell’impoverimento perverso che ne deriva.

Ma per capire meglio che soluzione la moneta Sardex e modelli simili propongano bisogna fare un po’ di chiarezza su cosa sia e come funzioni la moneta tradizionale. Per quanto possa sembrare banale, la prima domanda da porsi è: che cosa è il denaro?

Probabilmente, la prima definizione che ti è venuta in mente, lettore, è che il denaro è la moneta o la banconota che tieni nel portafoglio. E questo è vero. Se hai qualche conoscenza di economia saprai persino che il denaro è contemporaneamente un mezzo di scambio, uno strumento di conto, debito e riserva di valore. Essenzialmente, è una convenzione introdotta con l’aumentare del volume e della complessità degli scambi, un oggetto di per sé senza valore a cui se ne attribuisce uno, ampliando le opportunità limitanti del baratto, definendo il valore di un bene in una maniera unica per tutti, e trasferendo valore nel tempo.

Ma la verità è che il denaro può essere definito in moltissimi modi diversi a seconda della lente che si decide di adottare. In Sardegna, si è deciso di privilegiare una definizione di imprenditoria sociale del denaro, che combina logiche di economia con logiche di azione e responsabilità sociale.

Come funziona il Sardex?

Il modello Sardex funziona secondo la logica di un circuito a cui imprenditori, aziende, esercizi commerciali e terzo settore aderiscono in una logica di economia circolare. A tutti i soci del circuito vengono attributi al momento dell’inizio del processo una certa somma di Sardex sulla base di alcuni criteri economici di valutazione. Una volta entrati nel circuito però gli attori possono acquistare prodotti e servizi utilizzando i Sardex come mezzo di scambio ma anche restituendo il debito contratto attraverso i propri beni e servizi.

La conditio sine qua non per cui questo sistema funziona è che non esistono i tassi di interesse. Abbiamo accennato al fatto che la moneta è definibile anche come debito perché nel momento dell’acquisto di un bene, viene maturato un debito nei confronti del venditore che viene restituito proprio sotto forma di denaro. L’assenza di tassi di interesse significa due cose: in primis, ogni volta che un’azienda acquista qualcosa il debito d’acquisto resterà stabile; in secundis, non esiste incentivo al deposito di denaro in banca perché questo non genera interessi, aumentando la velocità della circolazione della moneta e incentivando quindi il consumo in un’economia debole e poco propensa al consumo come quella sarda.

La moneta Sardex viene utilizzata come denaro per spese personali o familiari, ma non viene riconosciuta per il pagamento di tasse o immobili, né per trasferire valore o mettere da parte risparmi come quelli per la pensione. È una moneta di utilizzo di breve e medio termine legata proprio al concetto di consumo quotidiano.

Qual è il valore specifico di Sardex?

Un modello come quello di Sardex, pur non rompendo completamente con il nostro modello economico, si sottrae e rompe alcune regole fondamentali delle logiche di mercato e in particolare, Sardex:

  • fa crollare uno di quei capisaldi del modello capitalista: le banche. In un’economia capitalista (ma in realtà anche in quella sovietica o cinese) esiste un modello verticistico di creazione del denaro volto a creare un vero e proprio monopolio della valuta. La Banca centrale stampa moneta secondo le direttive della politica monetaria in vigore in percentuali variabili tra Paesi ma comunque minoritarie rispetto al totale del denaro creato. La maggior parte del denaro deriva invece dal debito che i cittadini producono nei confronti delle banche. Eliminando le banche dall’equazione, in un modello come quello di Sardex chiunque può creare denaro attraverso l’erogazione di beni e servizi secondo un modello di economia circolare. Per quanto non tutto ciò che riguarda le banche può dirsi negativo, è indiscutibile che la finanza sia l’aspetto più instabile e più pericoloso della nostra economia, quello responsabile di 208 crisi monetarie dal 1970 ad oggi, tra cui la grande crisi del 2008.
  • introduce elementi di identità e di responsabilità sociale: scegliere Sardex significa entrare a far parte di una rete locale, di una comunità di persone attive, portando enormi benefici tanto sul piano sociale quanto sul piano economico. Scegliere Sardex significa alimentare e sostenere l’economia locale poiché tutte le imprese che ne fanno parte sono imprese sarde che per tantissimo tempo sono state penalizzate dalle logiche della globalizzazione e da quelle del mercato. In altre parole, emerge la valuta come elemento di identità e di omaggio alla propria casa. Il denaro acquisisce così un carico emotivo positivo. I soldi sono quasi sempre motivo di imbarazzo, di disagio, o di ansia mentre è stato rilevato che l’utilizzo del Sardex sia motore di sentimenti di orgoglio, di appartenenza, di gratitudine, riportando ad una dimensione umana un oggetto che ha profondamente a che fare con la nostra umanità ma che ne è completamente privo. Questo ha delle conseguenze sul modo in cui le persone spendono e in questo senso diventa un passaggio fondamentale nell’educazione del cittadino ad una partecipazione attiva e critica alla vita di comunità, mettendo in moto quel processo di scelta consapevole a cui chiunque abbia a cuore il concetto di democrazia dovrebbe guardare.

I vantaggi delle monete complementari sono molto più di quelli elencabili in un articolo. Le monete complementari creano una scorta di denaro per la comunità in momenti di crisi, aiutano a limitare le attività delle multinazionali aumentando esponenzialmente l’occupazione e il reddito della comunità (per ogni moneta locale spesa, reddito e occupazione aumentano da due a quattro volte), e accorciando la catena di fornitura riducono l’impatto ambientale della produzione.

Vi suonano nuovi concetti come comunità, impatto ambientale, economia locale, democrazia? Probabilmente no perché sempre più spesso queste parole vengono usate per descrivere l’unica via percorribile perché la nostra società impari dai propri errori e riesca a costruire una versione migliore di sé stessa in grado di sopravvivere ai cambiamenti che stiamo vivendo. E l’adozione di una valuta complementare è un’azione concreta che contribuisce all’implementazione di un modello di sviluppo sostenibile.

L’economista Bernard Lietaer, colui che ha implementato in Belgio il sistema di convergenza ECU, precursore dell’Euro, parla del monopolio monetario come di una monocoltura e paragona il nostro modello di economia a un ecosistema ambientale. La monocoltura uccide, la diversità rende prospero. Il Sardex, così come molti altri sistemi di monete complementari non hanno come obiettivo la sostituzione totale e la distruzione delle monete tradizionali.

Le monete tradizionali servono per tramandare il valore, per facilitare il movimento delle persone, per creare un certo tipo di ricchezza. Ma svantaggiano le economie e le classi sociali più deboli e in momenti di crisi provocano pericolosissimi effetti domino. Le monete complementari come il Sardex, invece, assicurano una certa stabilità e resilienza tanto desiderate da tutti coloro che subiscono i contraccolpi della globalizzazione e del capitalismo. In una maniera molto più onesta rispetto alle varie teorie sovraniste che vorrebbero semplicemente cancellare il passato e tornare indietro. Sardex propone una soluzione per andare avanti.

Francesca Di Biase


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