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Slut-shaming: cosa vuol dire essere una donna sessualmente libera in Italia?

In una società come la nostra, fare sesso ti può costare addirittura il lavoro. Se sei donna, ovviamente. Se decidi di prendere in mano la tua sessualità e rompere gli standard sociali, la cultura patriarcale decide di schiacciarti perché diventi una donna scomoda, sfavorevole allo status quo. In una società basata sui doppi standard, questo non succede anche agli uomini. E quello che è avvenuto a un docente dell’Accademia delle belle arti di Urbino ne è l’ennesima conferma. L’uomo, infatti, è stato accidentalmente ripreso mentre faceva sesso durante la DAD, credendo di non essere inquadrato dalla telecamera. L’insegnante, dopo l’avvenimento, ha deciso di dimettersi. In seguito, il direttore dell’Accademia ha dipinto l’uomo come un docente molto stimato dagli studenti, un critico competente nel mondo dell’arte e ha aggiunto che non sarebbe giusto ricordarlo solo per questo avvenimento. L’opinione pubblica si è stretta al fianco del professore. Tutto giusto, se non fosse che alla maestra di Torino vittima di un reato (eh già, il revenge porn è un crimine) è stato riservato il licenziamento con la gogna mediatica in omaggio.

È da millenni che le cose vanno avanti così. Agli albori del patriatcato venne stabilito che, per assicurarsi la certezza della propria paternità, le donne dovessero limitare al massimo i propri rapporti sessuali. E queste limitazioni si sono inasprite con l’avvento del cristianesimo. Non a caso, la Bibbia è intrisa di misoginia, pienza zeppa di versi che ricordano ossessivamente alle donne di tenere le gambe chiuse e di aprirle solo e soltanto per procreare, assolutamente solo dopo il matrimonio (dopo tutto, che donna sei se non ti sposi e non sforni quanti più figli possibili, eh?). In realtà, la Bibbia vieta i rapporti sessuali al di fuori del matrimonio e non a scopo procreativo anche agli uomini. Inutile dire, però, che gli uomini, essendo al comando della società, trovavano molto più facilmente delle scappatoie a una sessualità così opprimente e repressiva. Nel corso dei secoli, alle donne venne imposto di custodire gelosamente la loro verginità prima del matrimonio. Una donna che aveva rapporti sessuali fuori o prima di sposarsi era inevitabilmente perduta. Oltretutto, il matrimonio era anche l’unico modo, per le donne, di poter vivere nella società. Dunque, la verginità intatta era l’unico bene che possedevano le donne. Questa sorte accomunava sia le donne più benestanti, sia quelle facenti parte di categorie sociali meno abbienti. E da qui sono nati i falsi miti sulla verginità femminile, giunti fino a noi: la donna deve rimanere vergine, perché la verginità è simbolo di purezza e castità. E quest’imposizione ci è stato appioppata per secoli, perché si credeva che una donna fosse più virtuosa se si “preservava”. Tutto questo, mentre gli uomini avevano mille relazioni extraconiugali e fuggivano ogni notte nei bordelli per giacere con quelle donne “perdute” che desideravano ma allo stesso tempo disprezzavano. Per tanto tempo si è creduto che le donne non provassero nessun desiderio sessuale e che non raggiungessero orgasmi: insomma, la sessualità femminile è sempre stata dominata dal patriarcato, progettata ad hoc per soddisfare i bisogni dell’uomo e vissuta passivamente.

I retaggi patriarcali non si decostruiscono in due giorni e infatti oggi, sebbene la situazione sia nettamente migliorata già rispetto al secolo scorso, c’è ancora molto da fare. La sessualità maschile non viene mai stigmatizzata e anzi, viene continuamente incoraggiata. Spesso, all’interno delle cerchie di amici al maschile, il valore di un uomo viene misurato anche in base alla quantità di sesso che fa: più donne per fare sesso “conquista” e più sarà stimato dai suoi pari. E ho parlato di conquista e di donne perché si tratta rigorosamente di relazioni etero in stile uomo predatore – donna preda. Tutto ciò avviene fin dalla giovane età: ragazzini appena adolescenti che si vantano delle loro esperienze sessuali (non) fatte per apparire più interessanti agli occhi degli amici. Un uomo che non rientra all’interno di questi standard sperimenta una buona parte delle pressioni che il patriarcato esercita anche sugli uomini. Per quanto la riguarda la sessualità femminile, vale tutto il contrario: si comincia da giovanissime quando realizziamo che nostro fratello minore può portare liberamente le ragazze a casa e noi invece dobbiamo stare attente a non farci scoprire quando frequentiamo un ragazzo. Poi, quando ancora siamo ancora totalmente inconsapevoli di cosa ci aspetta, i parenti cominciano a dire “ah, a 16 anni la rinchiudi in casa!”. Alle medie ti fidanzi con un ragazzo più grande e via, slut-shaming a non finire dai tuoi compagni. Durante l’adolescenza, subiamo tante di quelle offese legate alla nostra vita sessuale, che dopo un po’ la parola “troia” diventa parte della quotidianità e non suona nemmeno più così offensiva. Ci viene insegnato a distinguere le “sante” dalle “puttane”: le prime sono le donne di serie A, quelle meritevoli di rispetto. Le ultime, secondo i discutibilissimi standard della società, sono le donne sacrificabili, quelle che hanno deciso di non piegarsi al patriarcato, dunque anche coloro che vivono la sessualità attivamente e in modo consapevole. Anche le donne che decidono di mandare un video intimo al proprio fidanzato.

Queste differenze si riflettono sia sulla vicenda del docente di Urbino, sia su quella della maestra d’asilo di Torino. L’uomo ha deciso di dimettersi volontariamente, eppure nessuno gli è andato contro: il direttore stesso lo ha (giustamente) difeso, al contrario della direttrice di Torino che ha immediatamente deciso di licenziare la maestra. La notizia dell’insegnante scoperto a fare sesso in DAD in realtà non ha fatto molto scalpore, non ha indignato nessuno. Nessuno ha mai detto “non posso affidare i miei figli a un uomo che fa sesso”. Mentre per la maestra non è stato così, nonostante lei sia stata vittima di un reato: sono piovute critiche (a lei), slut-shaming, victim blaiming e il licenziamento. Nessuno ha deciso effettivamente di colpevolizzare il suo ex e tutte le persone che hanno continuato a far girare il suo video privato. Quella donna è stata violata prima dal suo compagno, poi da tutte le persone che l’hanno stigmatizzata per aver deciso di vivere la sua vita sessuale come meglio credeva.  Questo succede ancora oggi, perché in realtà una donna non è mai totalmente libera di usufruire del proprio corpo. È come se il nostro corpo non ci appartenesse ma fosse di proprietà della società, che ci impone di usarlo in modo da non risultare scomoda a nessuno. Usare il proprio corpo andando controcorrente significa inevitabilmente andare incontro alla rabbia misogina del patriarcato. Il docentedi Urbino ha deciso autonomamente di dimettersi, ma non ha subito nessuna conseguenza a livello sociale. Al contrario, la maestra di Torino è stata per settimane sulla bocca di tutti, subendo i peggiori insulti dalle stesse persone che minimizzavano il gesto del suo ex a goliardata: sì, lui ha sbagliato, ma lei? Perché le ha mandato quel video? Doveva aspettarselo. Purtroppo slut-shaming e victim blaiming nel 2021 sono ancora all’ordine del giorno, sono esperienze che accomunano tutte le donne e le survivor. Gli stessi media hanno dato molto credito alla vicenda della maestra di Torino, dando voce a tutti i soggetti della vicenda che la colpevolizzavano tranne che a lei, la vera vittima di tutto, e di fatto alimentando un sistema che letteralmente si nutre dell’odio per le donne.

I doppi standard sono una diretta conseguenza del patriarcato, e finché le donne continueranno ad essere discriminate per la loro vita sessuale, la situazione non cambierà. Lo stigma sociale per una donna sessualmente libera è ancora alto, lo abbiamo visto con la maestra di Torino e lo subiamo ogni giorno sulla nostra pelle. È un meccanismo subdolo che discrimina pesantemente le donne, le fa sentire in colpa e sporche, le colpevolizza di provare il più umano dei desideri. La sessualità libera, se praticata in modo consapevole e totalmente consenziente, può essere considerata un atto politico. E ora vi lascio con una riflessione molto cruda: Silvio Berlusconi è diventato Presidente del Consiglio e Donald Trump Presidente degli USA. Entrambi alle loro spalle avevano vari scandali riguardo la loro vita sessuale. Però questo non ha impedito loro di continuare sia l’attività imprenditoriale che quella politica. Ne sono usciti puliti, zero conseguenze sociali, e anzi, lì fuori c’è molta gente che li stima anche perché manifestano la tipica immagine del macho che esprime la sua mascolinità attraverso il sesso. Una maestra a Torino invece ha subito uno slut-shaming pesantissimo e ha perso il suo lavoro per aver mandato un video intimo al suo ragazzo. Credete che se ci fosse stata una donna al posto di Trump o Berlusconi, avrebbe governato ancora a lungo?

Giorgia Brunetti

In copertina: fotografia di Deborah Perrotta, si ringraziano Sara Quercioli e Andrea Macchi per aver prestato i loro volti.

SITOGRAFIA:

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Cultura dello stupro: la gerarchia della violenza di genere (pt. II)

Clicca qui per leggere la prima parte dell’articolo.

Femminicidio: la punizione per aver rifiutato gli standard patriarcali

femminicidio
/fem·mi·ni·cì·dio/
sostantivo maschile

Qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuarne la subordinazione e di annientarne l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte. Il termine femminicidio fa uscire il fumo dalle orecchie a tanta gente che lo vede come una sorta di discriminazione nei confronti degli uomini. Si sente spesso dire “La morte di una donna per mano del compagno non è più importante di un uomo morto sul posto di lavoro”. Attenzione: qui nessuno sta cercando di creare una gerarchia dei morti. Il termine “femminicidio” sta ad indicare il movente dell’omicidio: una donna che viene uccisa in quanto donna. Il femminicidio comprende tutti quegli omicidi in cui un uomo (partner, compagno, marito, fratello, amico, uomo rifiutato etc) uccide una donna che ha osato riprendersi la sua libertà. Dunque, non tutte le donne che vengono uccise sono vittime di femminicidi. Il termine femminicidio ammette che ci sia un problema di sistema: non si tratta di omicidi generici, c’è una matrice patriarcale e misogina all’origine. Il concetto stesso di femminicidio implica che ci sia disparità di genere in una società. Quindi, quando urlate alla discriminazione maschile ogni volta che sentite il termine femminicidio, riflettete su quanto siete fortunati riguardo al fatto che non esista un corrispettivo maschile. E se credete che un termine specifico per il nostro omicidio in quanto donne sia un privilegio, ve lo concediamo volentieri.

La violenza di genere rappresentata dai media

Qual è il mezzo che permette di alimentare al meglio questo tipo di cultura? I media, naturalmente. Le testate giornalistiche mainstream italiane sono totalmente impreparate sulle questioni di genere. “Raptus di gelosia”, “Donna uccisa dal marito: lei non puliva né cucinava”, “Il gigante buono”, “La uccide perché la ama troppo”, “Ragazzine ubriache fradicie violentate dall’amichetto”. Questi sono solo alcuni esempi dei migliaia di titoli che riportano notizie di femminicidi e violenze sessuali. Converrete con me che è agghiacciante: titoli di questo tipo, in un paese egualitario sarebbero inammissibili, ma è evidente che in Italia siamo ancora indietro sulle questioni di genere. I media sono l’espressione della società in cui viviamo: disinformata, che non analizza le vicende, né riflette sulle conseguenze delle proprie azioni. Ci avete mai pensato a come si sente una survivor che legge un titolo del genere? Doppia violenza: prima da parte del suo abuser e in seguito da parte dei media. In relazione al caso Genovese, i media si sono sbizzarriti nel dipingerlo come un genio, il mago delle start up, un grande uomo d’affari che ora, poverino, dovrà fermare la sua attività perché ha stuprato una modella per ore! Ma non è la prima volta. Non è affatto raro che i giornali, ad esempio, per narrare la vicenda di un femminicidio, dopo aver dato un movente totalmente errato dell’omicidio (raptus di gelosia docet), descrivano l’omicida come un “marito devoto e padre amorevole”, quasi come se volessero far empatizzare il pubblico con l’assassino. Gli stessi giornali che, sulle pagine dei social network, non disattivano mai i commenti sotto i post delle notizie di femminicidi e altre violenze di genere. Come se si potesse avere un’opinione “diversa” sulla violenza. Sembrerà stupido e di poco conto, ma così facendo si legittima la possibilità di esprimere la propria idea su un fatto oggettivo che tutti dovrebbero condannare. Non si tratta di censura, ma di buon senso: non ci deve essere nessuna libertà di espressione sulla violenza, perché è questo che incoraggia il victim blaiming e lo slut shaming che nei commenti non mancano mai, e che a loro volta, incoraggiano la cultura dello stupro. Ma non è tutto: le testate giornalistiche, così come i loro assidui commentatori, non disdegnano la minimizzazione della violenza né la colpevolizzazione della vittima. “Il deejay con il vizietto”: è così che Il Mattino si riferisce a un deejay che ha stuprato per ore una donna. Perché lo stupro è un vizietto, non il frutto di un problema sistemico e culturale! O vogliamo parlare di Feltri che in prima pagina ci propone il titolo “Ingenua la ragazza stuprata da Genovese”, come se andare a un festino ed entrare in camera con un uomo gli desse il permesso di violentarla! E giù di victim blaiming. Ma del resto, parliamo di Libero, che con titoli e articoli discutibili, ci convive da tempo ormai. Purtroppo questi titoli non sono affatto l’eccezione, ma la regola, altrimenti non staremmo parlando di problema sistemico. C’è una forte ignoranza in materia di violenza di genere (ma in generale, riguardo le discriminazioni sociali) da parte dei media e questo non fa altro che fomentare la cultura dello stupro, poiché i tg e i giornali esprimono ciò che pensa l’opinione pubblica, ed è inconcepibile che si pensi che lo stupro possa essere provocato o che il femminicidio sia causato da un eccesso di gelosia improvvisa.

Per tutti coloro che saranno arrivati alla fine dell’articolo ancora convinti che il femminismo in Italia non serva più e che il termine femminicidio sia una forma di sessismo verso gli uomini, c’è altro da dire: le denunce. Le donne non vengono incoraggiate a denunciare per mille motivi: non ci sono prove, temono di non essere credute, l’iter da seguire è troppo lungo. Spesso sono anche gli stessi poliziotti a dissuadere la donne dalla denuncia. Rendiamoci conto: poliziotti, che dovrebbero esprimere autorità e sicurezza, rendono ancora più difficile (e talvolta umiliante) la denuncia. Anche da questo si può notare che è un problema culturale e soprattutto a livello di sistema: le forze dell’ordine sono esse stesse il sistema.

Noi abbiamo bisogno del femminismo. Sono anni che veniamo uccise, molestate e stuprate. L’abolizione del matrimonio riparatore e del delitto d’onore, così come gli altri diritti, non ci è stata certo concessa gentilmente. Il femminismo non è silenzioso (come piacerebbe al giornale “La Verità”), né tutto rose e fiori, è un movimento rivoluzionario che punta a sradicare la società per costruirne una il più paritario possibile. Non riuscirete a silenziarci, sebbene siano anni che ci proviate. Nel 2020 il femminismo è più vivo che mai, pronto a far crollare le vostre certezze. E alcune femministe sono arrabbiate, ma dopo millenni di patriarcato non potete biasimarci.

Giorgia Brunetti

Cultura dello stupro: la gerarchia della violenza di genere (pt. I)

Lady Gaga, Rihanna, Halle Berry, Madonna, Asia Argento, Kesha, Loredana Bertè. Tutte queste donne hanno qualcosa in comune: hanno subito abusi e violenze da parte di uomini di cui si fidavano. La violenza sessuale è un’esperienza che accomuna quasi tutte le donne del mondo. Non a caso, tempo fa leggevo sui social un tweet “ogni donna ne conosce un’altra che ha subito violenza, ma nessun uomo conosce uno stupratore”.

Alberto Genovese era un imprenditore milanese che spesso organizzava dei party a casa sua. A queste feste partecipava tanta gente, finché non è venuto fuori lo scandalo. L’imprenditore stupra, tortura e filma una modella diciottenne per 20 ore di fila. Un uomo fa la guardia fuori dalla porta della sua stanza dove si consuma la violenza. Sembra quasi un thriller, uno di quelli dove c’è un serial killer psicopatico che stupra e uccide le donne perché ha un conflitto irrisolto con la sua ex fidanzatina del liceo. O con sua madre, e quindi punisce tutte le donne che le somigliano. Ma è tutto vero, e purtroppo per Alberto, non si tratta di psicopatia (anche se forse lui preferirebbe così, perché in tal caso potrebbero diminuirgli la pena per infermità mentale). Ovviamente, lui non ci ha pensato due volte a investire il suo denaro in ottimi avvocati. “Sono vittima della droga” è stata la sua prima reazione alle accuse, e tutto ciò è molto curioso, perché in nessun libro di psicologia clinica viene citato lo stupro tra i sintomi dell’abuso di sostanze stupefacenti. Lo sappiamo tutti, Alberto non è vittima della droga, così come non lo è della situazione, né tantomeno del sistema: è ricco, un imprenditore perfettamente integrato nella società. “Un figlio sano del patriarcato”, vi direbbe una femminista. Cresciuto perfettamente come la società patriarcale voleva. Il caso Genovese è particolarmente emblematico per analizzare a fondo la questione della violenza di genere. È molto facile immaginarsi lo scenario: un uomo ricco organizza delle feste, a cui partecipano molte persone, tante modelle. Alcune di loro vogliono divertirsi, altre probabilmente vogliono sbarcare il lunario nel mondo della moda sperando che un imprenditore le metta in contatto con le persone giuste. Per certi versi ricorda il caso Brizzi: il regista che organizzava dei provini per delle attrici, prometteva loro di metterle in contatto con delle agenzie. Dopo di che, il provino comprendeva una sorta di contatto sessuale. Ovviamente, dopo il “provino” non c’era nessuna chiamata a nessuna agenzia. Questi due uomini hanno qualcosa in comune: un grande ego direttamente proporzionale al potere che esercitano. Perché il problema sta tutto lì: è una questione di potere.

La violenza machista come espressione di potere

Non sono certo rari gli uomini potenti accusati di molestie sessuali. Donald Trump, Harvey Weinstein, Roger Ailes, Jeffrey Epstein, ecco alcuni nomi. Sono accecati dal loro potere, credono di avere il mondo nelle loro mani. E le donne sono comprese in quel mondo che loro possiedono. La maggior parte delle violenze sessuale nei confronti delle donne o di uomini avviene per mano di altri uomini. Sorge spontaneo chiedersi: perché? Cosa spinge una persona a esercitare una violenza sessuale? Lo stupro è, al contrario di come molti credono, un’affermazione di potere o in molti casi un metodo per umiliare la vittima. Dunque, il contatto o il sesso (non consensuale) sono solo i mezzi che permettono di esercitare questo tipo di potere. Ed è innegabile che gli uomini si trovino parecchi gradini più in alto rispetto alle donne nella gerarchia sociale. E se questo avviene tra persone comuni, non sarà difficile immaginare che più si sale di livello nella società, maggiore sarà il potere degli uomini. Perciò non c’è da stupirsi se un ricco imprenditore che stupra e tortura una ragazza per ore e ore trovera comunque qualcuno che lo difenderá: potere, denaro e privilegi gli permetteranno di uscirne il più pulito possibile. Avete capito bene: privilegi. Il privilegio è un vantaggio sociale. Nella società patriarcale occidentale la posizione più privilegiata possibile è quella del maschio bianco, etero, cisgender, abile e benestante. Attenzione: privilegio non significa non avere problemi nella vita. È indubbio che anche le persone più privilegiate possano avere una vita dura, ma avere un vantaggio sociale significa che alcuni aspetti della sua identità (genere, etnia, orientamento sessuale, etc) non influiranno mai negativamente sulla sua esistenza. Quindi, al posto di accusare il femminismo di colpevolizzarvi per il semplice fatto che vi pone davanti agli occhi la realtà dei fatti, sarebbe arrivato il momento di fare un’associazione tra posizione privilegiata nella società e violenza di genere. È arrivata l’ora di riflettere sulla fallace educazione che ci viene inculcata fin da quando siamo piccoli e sul perché gli stupratori sono sempre perfettamente a proprio agio con un tipo di cultura che sottomette le donne.

Cos’è la cultura dello stupro?

“Cultura dello stupro è il termine usato a partire dagli studi di genere dalla letteratura femminista e postmoderna, per analizzare e descrivere una cultura nella quale lo stupro e altre forme di violenza sessuale sono comuni, e in cui gli atteggiamenti prevalenti, le norme, le pratiche e atteggiamenti dei media, normalizzano, giustificano, o incoraggiano lo stupro e altre violenze sulle donne” (fonte: Wikipedia). Proviamo a pensare alla cultura dello stupro come se fosse una piramide. Alla base della piramide vi sono le discriminazioni sessiste più “lievi”. In primis vi è lo slutshaming, ovvero una pratica che consiste nel discriminare una donna che ha desideri ed una vita sessuale attiva. Lo slutshaming si esprime solitamente attraverso i tipici epiteti patriarcali e volgari usati per insultare le donne (ing. slut). C’è da dire che termini del genere sono ormai di uso comune nella vita di tutti i giorni e vengono spesso utilizzati anche per insultare donne in contesti che non hanno nulla a che vedere con la loro vita sessuale. Inutile dire che il corrispettivo di “troia” non esiste al maschile poiché la sessualità maschile è sempre stata incoraggiata, a dispetto di quella femminile che per secoli è stata ignorata, controllata dagli uomini e demonizzata dalle religioni monoteiste. Lo slutshaming è una forma di discriminazione molto comune, dubito fortemente che esistano donne che non siano mai state appellate in quel modo.

Oltre allo slutshaming, alla base della piramide troviamo il victim blaming, cioè la colpevolizzazione della vittima nei casi di stupro o molestie sessuali. Alcuni esempi: “te la sei cercata!”, “eh, ma vestita così cosa ti aspettavi?”, “se ti ubriachi e ti comporti da tr*ia, poi non ti puoi lamentare se ti stuprano!”; insomma, affermazioni terribili che non fanno altro che deresponsabilizzare il colpevole della violenza commessa, perché per il patriatcato è sempre più comodo ammonire e giudicare le donne per la loro libertà piuttosto che educare gli uomini.

Sempre allo stesso gradino troviamo i cosiddetti rape jokes, ovvero gli “scherzi sullo stupro”. Attualmente, l’ironia è oggetto di dibattito. Esistono tanti tipi di umorismo, negli ultimi anni si sta diffondendo il black humour (letteralmente umorismo nero), ovvero fare ironia su argomenti spinosi quali religione, politica, razzismo, omofobia, sessismo. E sullo stupro, anche. L’ironia è soggettiva e ognuno ha a cuore degli argomenti su cui preferisce non scherzare. Purtroppo però, in una cultura come la nostra, i rape jokes vengono normalizzati, come se fossero alla stregua delle battute di Colorado. Nessuno che pensa mai a come possa sentirsi una survivor che legge una battuta sullo stupro. Nessuno che pensa al suo dolore, quello non interessa mai a nessuno, la “libertà di espressione” degli uomini viene sempre posta prima dei sentimenti delle donne. Negli ultimi anni, alcune comiche statunitensi hanno cercato di rivoluzionare il concetto di rape jokes indirizzando la natura satirica della battuta verso gli abuser o coloro che colpevolizzano lo stupro, e non verso la survivor.

Salendo leggermente nella piramide troviamo il catcalling, le molestie e dall’avvento dei social anche le “dickpic” non richieste. Le dickpic sono le foto dei genitali maschili. Qualsiasi ragazza con un account Instagram si sarà trovata almeno una volta nella vita una foto del genere nei DM – ovviamente non richiesta, altrimenti non staremmo parlando di molestie. La dinamica è sempre la stessa: nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di profili fake senza la foto profilo (chissà, forse si vergognano anche loro di ciò che fanno), con un nome utente che ricorda un codice fiscale e naturalmente con 0 followers e 0 post. Solitamente iniziano la conversazione con un “hey” (ma nel peggiore dei casi vanno dritti al sodo) e dopo un paio di messaggi iniziano le prime domande intime senza che nessuno gli abbia dato il permesso. Dopodiché, ti ritrovi le loro parti basse in chat. Che tu lo abbia chiesto o no, a loro non importa assolutamente.

Il catcalling, invece, consiste nel suonare il clacson, fare apprezzamenti non richiesti e fischiare (come se fossimo dei cani) alle sconosciute per strada. Molte persone stentano ancora a riconoscerlo come una molestia. “Ma quindi ora non possiamo nemmeno fare i complimenti a una ragazza che incontriamo per strada?” beh, a me non risulta che le donne di solito suonino il clacson urlando volgaritá dal finestrino della macchina ogni volta che vedono passare un uomo, quindi non vedo perché dobbiate sentirvi in diritto di esprimere i vostri gusti mettendo a disagio la vostra interlocutrice. Nel concetto di molestie, oltre alle dickpic non richieste e al catcalling, rientra qualsiasi tipo di contatto sessuale non richiesto.

Salendo di livello nella piramide, aumenta la gravità delle molestie. Troviamo il revenge porn, lo stealthing e la coercizione sessuale. Il revenge porn non ci è nuovo, si tratta della condivisione di materiale intimo non consenziente, e ovviamente le maggiori vittime di questa pratica sono le donne, la cui vita viene rovinata da uno stigma sociale che impedisce loro di avere una vita sessuale libera e soddisfacente, come nel caso della maestra di Torino.

Lo stealthing invece è una pratica che consiste nella rimozione del preservativo durante il rapporto a insaputa del partner. Di questo argomento si parla ancora poco, e anzi, da pochissimo ha iniziato a essere considerato come una forma di molestia negli ambienti femministi. Inutile dire che, oltre ad essere una mancanza di rispetto e di consenso per le volontà della donna, è anche dannoso per un eventuale rischio di gravidanze indesiderate e di trasmissione di malattie veneree di cui l’altra persona che partecipa al rapporto non è consapevole.

La coercizione sessuale è una forma di costrizione a un rapporto sessuale che implica la mancanza di un consenso scevro da pressioni psicologiche. Quindi, sia costringere una persona a fare sesso, sia ricattarla che metterla sotto pressione per far sì che accetti equivale a molestarla, poiché il consenso va espresso liberamente sempre e comunque.

La violenza di genere, in particolare lo stupro, che si trova quasi sulla sommità della piramide, oltre che un metodo di affermazione del potere e umiliazione, è anche un mezzo di punizione. Basti pensare a donne come Laura Boldrini, Carola Rackete, Greta Thunberg, Silvia Romano. Tutte donne che non hanno saputo restare ai posti che la società patriarcale ha imposto loro. Gettate in pasto a continue gogne mediatiche dai politici sovranisti e ogni volta i commenti erano sempre gli stessi: insulti sul loro aspetto fisico, slutshaming, e gli immancabili auguri di stupro. Il concetto di stupro è totalmente normalizzato tanto da venir usato come augurio nei confronti di una donna che troviamo poco simpatica (e poco vicina ai ruoli di genere, naturalmente): dai, magari un pene infilato nella sua vagina di prepotenza la rimetterà al suo posto e comincerà ad abbassare la cresta questa tr*ia! Ah, sfatiamo un falso mito: lo stupro non è causato da nessun impulso irrefrenabile dell’uomo, non ha niente a che vedere con dei presunti ormoni impazziti. Questa narrazione tossica della violenza sessuale non fa altro che rinforzare il concetto dell’uomo animalesco che sa ragionare solo con i genitali e che impazzisce quando vede delle gambe nude spuntare sotto una minigonna. Narrazione totalmente in linea con il patriarcato, visto che non fa altro che giustificare gli uomini per le loro violenze perché “non si sanno controllare”. Gli uomini sono dotati di intelletto, se stuprano non è perché hanno un eccesso di testosterone, ma perché sanno di poterlo fare. E infine, avvicinandoci alla punta della piramide abbiamo la massima espressione della violenza di genere: il femminicidio.

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Giorgia Brunetti

Fonti:

Lettera aperta di un’attivista femminista nel 2020 (quasi 2021)

Ho iniziato a fare attivismo sui social, perché sono una studentessa di Comunicazione e mi piace guardare allo strumento che ho tra le mani non come un demone cattivo che ci divide, ma come uno di quegli scettri magici con cui giocavo quando ero bambina.
Per me il social è: piazza, con l’unica differenza che se mi mettessi al centro della piazza del mio paese per dire ciò che penso su alcune tematiche, probabilmente sembrerei una pazza. E non so nemmeno se qualcuno mi starebbe a sentire.
Il social è: potenza. Basta esprimere un qualcosa che crei interazione, positiva o negativa che sia. Crei riflessione.
La riflessione è diventata il mio primario obiettivo, primordiale obiettivo. Dal primo post in cui ho iniziato a parlare di mercificazione del corpo femminile, uno specchio e una scritta di rossetto rosso: “decidi tu”.
In quei mesi stavo scrivendo la mia tesi di laurea in Sociologia Generale: Stereotipi e Mercificazione del corpo femminile in televisione, pubblicità e media.
Il riscontro è stato positivo ma anche negativo.
Vi chiederete perché c’è del “negativo” dietro ad un messaggio che invece è del tutto positivo perché spingevo solo tutte le ragazze come me ad autodeterminarsi!

Positivo perché ho capito che non sono sola e l’ho fatto capire di riflesso alle altre ragazze, tutte insieme ci siamo confrontate e abbiamo capito quanto quel mostro (il maschilismo) spesso e volentieri non ci lascia scelta e così “non decidiamo noi”, non decidere per se stess*: mi sento svuotata se ci penso;
negativo perché sono arrivati i primi insulti, i primi giudizi, perché si sa quando ti esponi è così. Dico “negativo” non perché non accetti le critiche costruttive, ma perché spesso e volentieri erano giudizi giusto per difendere la categoria, dalla serie “not all men”. O perché fa sempre strano che una donna si ribelli, dobbiamo stare al nostro posto e subire, no?!

Da sempre siamo destinate: siamo le bimbe che giocano ai ruoli passivi, e i maschietti a quelli attivi.
Poi siamo lo stigma madre, moglie, figlia, dedita alla casa.

Che fai, ti ribelli?
Stai zitta, che è meglio!

Così iniziano a darmi della “femminista” per offendermi, o denigrare il mio lavoro e ancora oggi non so ancora bene come prenderla sinceramente: a volte penso che certe persone mi provocano dispiacere, nel senso che non riescono ad informarsi pur avendo a disposizione uno strumento che glielo permette, ma come ho detto qualche giorno fa nelle mie stories: a volte si tratta di non-volontà.
Basterebbe davvero, leggere un libro, navigare in internet per capire che quando ridicolizzate il movimento dicendo cose come “neofemminismo” state sbagliando, perché il femminismo va per ondata e noi ci troviamo ancora nella quarta ondata, dal 2012 circa,  l’ondata del femminismo inclusivo, il femminismo intersezionale. E che il “neofemminismo” non esiste, come non esistono le “nazifemministe”.
Soprattutto perché date per scontato che il femminismo sia una cosa che riguarda solo le donne.
E invece esistono (per fortuna) anche uomini femministi.
E “dovremmo essere tutti femminist*”.
Maschilist* invece lo siamo tutt*, ed è facile capire il perché.
Viviamo in una società che ci campa a pane e maschilismo.
E lo assimiliamo tutt*, in modo davvero intrinseco.

Io sono stata maschilista in passato, lo sono stata quando facevo slut-shaming senza rendermene conto, lo sono stata quando giudicavo e facevo body-shaming.
Nessun* nasce femminista, purtroppo. Perché, ripeto, nasciamo in una società messa così.
Però lo si può diventare. Si può migliorare. Ci si può correggere.

Intanto, come boomerang mi arrivano di ritorno certe parole:

Ripetitiva.
Esagerata.
Esasperata.


Queste parole qui me le hanno dette più e più volte. Anche “femminista” come offesa: il femminismo guarda alla parità, non vedo perché dovrebbe essere visto con accezione negativa. Non vogliamo la superiorità rispetto a voi, vogliamo semplicemente essere viste alla pari e speriamo ogni giorno di più che voi siate d’accordo per questo e lottiate al nostro fianco e invece …  “ancora che rompete?non vi manca niente! Potete pure votare!”

Oh, sì, grazie mille!
Sì, “ ancora” , fatevi un giro per dati ISTAT, e capirete.

Ripetitiva: E menomale! Stiamo ancora al punto che confondete il maschilismo col femminismo, credendo che siano opposti. A livello linguistico vi confondono forse, ma grazie ar BEEEPP… che stiamo sempre a ripetere le stesse cose, non fate sforzi, mi raccomando!

A livello linguistico è vero, le parole possono confondere, ma ripetita iuvant:

femminismo
/fem·mi·nì·ṣmo/
sostantivo maschile
Storicamente, il movimento diretto a conquistare per la donna la parità dei diritti nei rapporti civili, economici, giuridici, politici e sociali rispetto all’uomo: le prime manifestazioni del f. risalgono al tardo Illuminismo e alla Rivoluzione francese; estens., il movimento, ampio e articolato, che tende a porre l’accento sull’antagonismo donna/uomo, nel sociale come nel privato, e a realizzare una profonda trasformazione culturale e politica, riscoprendo valori e ruoli femminili in senso antitradizionale.

maschilismo
/ma·schi·lì·ṣmo/
sostantivo maschile
La presunta superiorità dell’uomo sulla donna, tradizionalmente connessa con gli attributi della virilità; l’atteggiamento o il comportamento che ne deriva, nei suoi riflessi sociali.

Chiedo, al ragazzo che in direct message mi disse: “Beh io odio le femministe e odio i maschilisti”.

Ora è più chiaro?

Esagerata: è una parola che proprio non sopporto, cosa è esagerato per te, non lo è necessariamente per me. Tu sei una persona X, e io ne sono tutt’altra. Il mio percorso di vita è il mio, le mie reazioni sono le mie, i miei modi restano i miei, non esagero, ma reagisco. E quando un uomo, bianco, cisgender mi dice che sono esagerata se penso che il catcalling sia una cosa squallida, beh, anche meno. Vorrei tanto riparlarne se mai succedesse il contrario, voglio vedervi lì di sera mentre torni a casa con il mazzo di chiavi tra le dita e il cuore in apnea. Allora in quel momento, avendolo provato, sì: potremmo riparlarne. Ma non succederà mai, perciò decido io ciò che è esagerato sulla mia pelle, se permettete.
E’ un po’ come se io donna, bianca, cisgender, un giorno mi sveglio e dico ad una donna, nera, transgender: sei esagerata se ti senti esclusa, dai!
Non posso saperlo, non potete saperlo, punto.

Esasperata: sì, sono esasperata.
Esasperare vuol dire: rendere  acuto, gravoso.
Per me è tutto questo è grave, molto grave.
Ogni giorno molte ragazze mi raccontano le loro storie, una ragazza che ormai è mia amica, mi ha raccontato di quella volta che è stata stuprata.
Capite? Ditemi ancora che non devo essere “esasperata”.
Esasperata lo sarò sempre, fin quando non cambia tutto questo.
Fin quando troverò lavoro e sarò trattata al pari del mio collega uomo.
Fin quando potrò uscire a tutte le ore senza modificare il mio abbigliamento “perché non si sa mai”.
Fin quando in televisione non sentirò più di una donna uccisa dal marito “perché l’amava troppo”.
Fin quando “una donna ha fatto questa importante scoperta per la scienza” come se non avesse nome e cognome.
Fin quando ognuna di noi potrà scegliere come autodeterminarsi e potrà vivere liberamente la sessualità.
Fin quando non esisteranno più lo slut-shaming, il body-shaming, il revenge porn, il victim blaming, le molestie verbali, quelle fisiche, gli stupri, il femminicidio, il mansplaining.
Fin quando non saremo più carne da macello, vetrina, involucro sfavillante o cornice muta.
Fin quando non saremo davvero libere.

Punto. 

Vanessa Putignano

Politica: femminile singolare. Perché le proteste polacche ci mostrano un’alternativa a Hegel e Heidegger

Le proteste esplose il 30 ottobre in Polonia, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale
che ha cancellato, di fatto, il diritto all’aborto, sono l’espressione visibile di un fermento interno al
Paese. Un fermento di cui già le elezioni dell’ottobre di un anno fa offrivano un indizio.
Allora, il PiS (“Diritto e Giustizia”) si confermava come il primo partito polacco, difensore di
un’identità indiscussa, dello Spirito assoluto.
Dall’altra parte, sinistre e liberali proponevano un programma di resistenza, nato per essere
d’opposizione. Scritto nella stessa lingua del Soggetto destinato a governare.
Ma, già allora, si prospettava un’alternativa. Femminista. Che in piazza, in questi giorni, ha trovato
il suo terreno politico.

I vincitori, Hegel
Al termine di un’elezione non si dovrebbe parlare di vittoria, concetto guerresco che poco si
addice a un regime democratico. Ma vallo a spiegare a Kaczynski, leader del PiS, principale
destinatario di quel 43,6% di consensi raccolto nella società polacca nel 2019.
A premiarlo, allora, furono le politiche economiche adottate nella precedente legislatura (è al
governo dal 2015): sussidi diretti alle famiglie, soprattutto quelle più povere e trascurate delle
periferie del Paese, e le promesse sul salario minimo e sul sostegno per le spese mediche. A
favorirlo fu una crescita economica stabile, sostenuta.
Ma a catalizzare i consensi è stata la sua idea di Polonia, in cui molte istanze e altrettante paure
popolari hanno trovato ascolto: una comunità di patrioti riunita nella nazione, radicata nella
tradizione e nei valori da essa espressi, che lo Stato ha il dovere di incarnare e difendere. In
stretta collaborazione con il potere religioso, che legittima una certa narrazione etnica ed etica
dei sovranisti.
La difesa dell’identità polacca. L’identico che sfida l’Altro per uscirne rafforzato nel suo essere,
consapevole di sé, autocosciente. Hegel risuona nello spirito di quanti, in Polonia, pongono in
cima alla lista delle proprie preoccupazioni la diffusione del movimento per i diritti LGBT e la
disgregazione della famiglia: timori presenti soprattutto nella popolazione maschile tra i 18 e i
39 anni, come mostravano alcuni sondaggi pubblicati in periodo elettorale. E come le piazze di
questi giorni, riempite di ragazze e ragazzi, sembrano smentire.
La famiglia è il nucleo etico-sociale dello Spirito polacco, l’ultimo baluardo della nazione nei suoi
tratti originali, l’essenza del carattere di una comunità che si sviluppa e si dota di uno Stato. Sono
le relazioni familiari, codificate dalla tradizione, a descrivere l’ethos comune dei rapporti sociali,
da cui una gerarchia di valori e di autorità. Identità è il mantenersi identico proprio di questo
sistema.
E non ingannino le politiche economiche solidaristiche messe in campo dal PiS: lo stesso Hegel,
infatti, nei “Lineamenti di filosofia del diritto”, proponeva un dilemma circa la redistribuzione del
benessere, affermando che essa, se attuata, mentre da una parte mitiga la povertà, dall’altra può
indebolire l’autostima del cittadino.
Lo stesso avverrebbe nel caso di un intervento dello Stato nell’occupazione lavorativa dei
cittadini creata ad arte: ciò produrrebbe sì una redistribuzione del benessere, ma al prezzo di una
forzatura del funzionamento autoregolato del mercato, che solo è in grado di produrre ricchezza.
Un dilemma sul Welfare State risolto da Kaczynski, erede di Hegel, con la scelta di una strategia,
corrispondente ad una precisa idea di Stato.

Gli sconfitti, Heidegger
Al termine di un’elezione non si dovrebbe parlare di sconfitta. Soprattutto quando lo
schieramento penalizzato dai risultati non ha proposto alcuna visione alternativa, a tratti
confondendosi con gli avversari.
La battaglia, se c’è stata, si è giocata tutta sul piano dei principii, e con la dialettica della
contrapposizione: contro il sovranismo, erede dei fascismi, contro la propaganda tradizionalista
e irrispettosa del “diverso”, incapace di fronte alla novità, contro gli scandali, la corruzione degli
uomini delle istituzioni. Che sembravano intoccabili, agli occhi della maggioranza, prima delle
recenti proteste: esplose per protestare contro l’abolizione del delitto all’aborto, infatti, si sono
trasformate in un attacco alla corruzione delle istituzioni.
Alle elezioni del 2019, centristi-liberali e formazioni della sinistra, divisi sul piano politico,
chiamarono la popolazione a raccolta contro il regresso verso forme di politica troppo simili
a quelle dalle quali con tanta fatica, dopo le guerre, si era riusciti ad emergere. Un appello alla
resistenza come conservazione di quel senso più autentico della propria storia scoperto grazie
alla democrazia reale, al prezzo di molto sangue e umiliazione.
Una posizione, pur nelle differenze tra il liberalismo del partito “Piattaforma civica” nella sua
immagine tradizionale, incarnata da Tusk al Consiglio europeo, e il socialismo democratico della
coalizione delle sinistre, politicamente stagnante, senza prospettive originali da opporre alla
retorica della destra sovranista.
Una campagna elettorale volta a nulla di più di un’insistenza su tematiche sdoganate in Polonia
con la fine dela Guerra Fredda: il valore della democrazia per un nuovo (vecchio) protagonista
della Storia, non più assoluto, come il Soggetto hegeliano, ma immerso nel mondo e, anzi,
abbandonato ad esso in un’assenza pressoché totale di significati etici o escatologici capaci
di fare da guida. È la scoperta dell’Esserci heideggeriano, un essere-nel-mondo gettato in una
dimensione di cui non è il creatore, pur essendone responsabile, un essere-con plasmato come
identità nella e dalla relazione.
Questi, per poter recuperare il senso della propria esistenza, deve continuamente emergere dalla
condizione di omologazione totale nella quale si disperde, spaesato, affidandosi alla pubblicità
totalizzante dell’uomo comune (il “Si”): è in questo sforzo che sta la possibilità di recuperare la
propria originalità, e con essa un’identità.
Ma, oltre alla tensione, personale, non è indicata una prospettiva etica cui riferirsi in quanto
collettività fatta di incontri con l’Altro, che spesso impongono una ridefinizione del sistema.

L’alternativa, Kittay
In democrazia, la posta in gioco del confronto politico è la conquista dell’egemonia da parte
di una delle forze rappresentative della popolazione. Per poter stabilire la propria egemonia, il
partito deve farsi portatore di una certa visione del mondo condivisa: deve essere interprete
della realtà, e offrire una prospettiva sui tempi.
In sostanza, non è un astratto consenso che deve essere ricercato, plasmando i programmi e la
propaganda in modo da infiltrarsi tra le crepe della società per dare una parvenza di resilienza.
È necessario, invece, per la salute della democrazia, inventare un percorso di formazione della
società civile che porti gli elettori a farsi, da pubblico, rappresentati.
Ciò significa un’apertura all’ascolto e una elaborazione condivisa. Due temi evidenti della
campagna elettorale del 2019 di Malgoratza Kidawa-Blonska, candidata di “Piattaforma civica”
alla carica di premier. A lei, il candidato e leader del partito aveva ceduto il posto chiave dello
schieramento d’opposizione: una scelta politicamente significativa, perché stravolgeva una
condizione consolidata non solo in Polonia.
La candidata, infatti, dava voce in campo moderato e liberale alle esperienze femministe
polacche, giunte nel Paese insieme alla democrazia, dopo la Guerra Fredda, sulle gambe delle
donne che affermavano il diritto all’autodeterminazione dei propri corpi contro le concessioni anti-abortiste fatte dal governo democratico di allora alla Chiesa. Quelle stesse concessioni
che si riaffacciano nella sentenza del 22 ottobre scorso, contro la quale un’onda anomala
proveniente dalla società civile polacca ha sommerso le piazze.
Allora, nel 2019, Kidawa-Blonska non raggiunse i voti necessari, ma qualcosa si smosse. Non
solo un allargamento della rappresentatività politica, ma la proposta di una alternativa che,
poiché poggia su una formazione già iniziata in vari strati della società, nascondeva già allora,
forse, un paradigma etico differente da quello tradizionale, incentrato sull’io.
Un paradigma teorizzato principalmente da Kittay e basato sul principio della “doulia”: ogni
sistema sociale si regge su rapporti di interdipendenza essenziali, solo in virtù dei quali si
può dare qualcosa come la persona, in grado di formarsi e di svilupparsi perché sostenuta da
qualcuno nel suo essere responsabile nei confronti di qualcun altro.
Si parla, cioè, di un circuito di “dividui”, ciascuno dei quali esiste grazie a qualcun altro, su
dimensioni che trascendono lo Stato nazione e che riguardano (o possono riguardare) l’intera
congregazione umana.
La personalità, dunque, è il risultato di una dipendenza e non coincide con una individualità,
bensì con la formazione della propria esistenza all’interno di un sistema che, secondo la tesi di
Amartya Sen, non provvede alla re-distribuzione della ricchezza prodotta (che solo può essere
efficace in una società di individui indipendenti), ma a favorire una eguaglianza di capacità, cioè
di opportunità, tra le persone.
Ma, allora, nel 2019, la linea moderata di Kidawa-Blonska, portatrice di una visione femminista
graduale, non fece breccia negli elettori. Ad un anno di distanza, le strade si riempiono di
manifestanti che rivendicano una politica diversa, e che difficilmente sembrano potersi
accontentare di una voce moderata.

Lorenzo Ianiro