Qualche settimana fa ho avuto il piacere di scoprire la forza evocativa del cinema sudcoreano.
Suscitando l’attenzione di tutti, prima vincendo la Palma d’oro a Cannes poi aggiudicandosi l’Oscar come miglior film, Parasite è stato capace di conquistarmi mentalmente ed emotivamente sin dal primo minuto.
Inconsciamente Parasite può sembrare una semplice commedia, fatta di battute simpatiche, qualche immagine di velata critica sociale, una famiglia povera che riesce a riscattarsi. In poche parole, una commedia dalla quale ci si aspetta un lieto fine, non da “tutti vissero felici e contenti” come nelle fiabe, ma da “il lavoro ripaga sempre” come vorremmo fosse nella vita reale. Può sembrare una trama fatta di incastri perfetti, ma ecco che sparisce l’ultimo pezzo mancante per completare il puzzle. Finisco di essere quello spettatore spavaldo che crede di sapere tutti i meccanismi della storia, finisco di sentirmi il padrone assoluto della scena, per ritrovarmi in un dramma sociale dal finale che ha la stessa potenza distruttiva di un uragano e la stessa cattiveria di un colpo allo stomaco.
È stata la scrittura cinematografica di Bong Joon-ho, fatta di violenti primi piani e colpi di scena, che mi ha fatto perdere di vista l’azione, che ha fatto saltare in aria quei punti di riferimento che avevo. Si ritrova improvvisamente un clima teso, di critica sociale fatta di sangue, truffe, conquiste, corpi e relazioni. Una guerra tra poveri, tra simili, che invece di aiutarsi fra di loro, si ritrovano con i coltelli in mano, macchiati di sangue.
Bong Joon-ho ha avuto il coraggio di rivelare, di porre l’attenzione su ciò che è scomodo, prima inquadrando uno scantinato rappresentativo della condizione sociale della famiglia Kim: un bagno improvvisato, quattro mura rimediate, persone che vivono delle vite degli altri, che si aggrappano alle disgrazie altrui per guadagnarsi da vivere. Poi riprendendo l’opposto per evidenziare il gap sociale: una villa paradisiaca con tanto di governante, abitata dalla famiglia Park che riconosce la sfortuna (si scrive sfortuna, si legge povertà) di chi entra ed esce dall’abitazione con l’olfatto.
Parasite ti sbatte in faccia la realtà nuda e cruda.
Due ore intense di buon cinema. Sono belli quei film che ti smuovono l’anima, che ti lasciano qualcosa, che ti frullano nel pensiero anche nei giorni successivi alla proiezione, il confronto, la conversazione. Parasite è uno di quelli.