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Lucha de pueblo: l’indipendentismo catalano con gli occhi dei filosofi

Le recenti elezioni regionali in Catalogna hanno rafforzato la rappresentanza indipendentista. Evoluzione del conflitto tra governo madrileno e (parte della) comunità catalana che nell’ottobre del 2019 sembrava esser diventato completamente incontrollato: qualcuno la chiamò una “lucha de pueblo”. 

Allora, come oggi, comprendere qual era il “pueblo” in lotta costituiva la chiava per comprendere il senso dello scontro, e figurarsi le sue possibili evoluzioni. Con gli occhi puntati su Barcellona, dove si gioca per il futuro. 

Dall’autonomìa alla independencia 

L’aggettivo più utilizzato dagli osservatori internazionali che hanno tentato di ricostruire la genesi del caos catalano dell’ottobre 2019 è stato “imprevisto”. Ben altra cosa da imprevedibile. Ciò che più stupiva della situazione venutasi a creare, infatti, era come essa fosse tracimata fuori dal controllo delle autorità istituzionali, oltre i confini della mediazione politica: l’uso spregiudicato della violenza concesso alla polizia e la liquidità della protesta- poi quasi diradata come un gas- ne erano i sintomi tangibili. Ma come sia stato possibile arrivare a tanto era già chiaro a tutti. 

All’origine sta la ricerca di una maggiore autonomia da parte delle regioni catalane, che indirizzò l’interpretazione del sibillino preambolo della Costituzione spagnola del ’78: lì dove si parla unitariamente, ma senza spiegazioni, di “nazione” spagnola e di “popoli di Spagna”. Lasciando aperto il dubbio se via sia una sola nazione per tante nazionalità. 

Un’ambiguità più o meno volontaria, che rende storicamente sospetta l’indecisione del governo spagnolo, tra una modifica costituzionale in senso federalista e una ricomposizione centralista dell’amministrazione, agli occhi dei catalani e ostili i movimenti delle varie rappresentanze di Catalogna agli occhi degli spagnoli: sulla reciproca diffidenza si impernia il dialogo. In cui ciascuna delle parti fa dei tentativi per mettere allo scoperto l’avversario. In tal senso, c’è chi legge il referendum del 1 ottobre 2017 come uno “strumento di pressione” attraverso il quale i leader catalani speravano di raccogliere una maggioranza di consensi a favore della secessione tale da mettere l’allora Presidente spagnolo Rajoy con le spalle al muro, costringendolo ad iniziare un processo di transizione legale verso una federazione reale o una confederazione di Stati legati alla Corona. 

E, in effetti, un risultato plebiscitario fu ottenuto, ma su una percentuale di aventi diritto al voto minoritaria. 

Da lì in poi, la strategia cedette il posto alla tattica, già mirata allo scontro: falliti i flebili e guardinghi tentativi di dialogo tra l’allora Presidente della Generalitat de Catalunya Puidgemont (che oggi vive l’ambigua condizione di leader “esiliato” de facto e europarlamentare di diritto) e Rajoy, la propaganda indipendentista che dal 2010, anno dell’espunsione di alcuni articoli dallo Statuto di autonomia catalano, guadagnava consensi a formazioni prima minoritarie divenne schiava delle idee da essa stessa gonfiate. Mentre il governo centrale preparava una repressione efficace. 

Quasi per inerzia, il 27 ottobre il Parlamento catalano sancì unilateralmente la nascita della Repubblica, dichiarando l’indipendenza e tentando disperatamente di internazionalizzare il caso. La risposta di Madrid, in virtù dell’art.155 della Costituzione, fu il commissariamento della regione. 

Su queste posizioni, apparentemente congelate dai pallidi tentativi di distensione pre- e post elettorali, si è mantenuto il rapporto tra le parti. 

E il prolungamento senza soluzioni in vista della tensione ha motivato non tanto la sentenza di condanna comminata nel 2019 ai leader fautori del referendum, miccia che fece esplodere le proteste, quanto l’asprezza delle pene inflitte e la spregiudicatezza della repressione poliziesca favorita o voluta. Così il Caos era servito. 

Sovranità e unanimità 

Tentare di dare un significato alle significanti vicende catalane è da sempre un’impresa ardua, per la compromissione dei punti di vista. Una prova può essere fatta sulla base del pensiero di 3 filosofi abbastanza “europei” da carpire la questione, pur senza coinvolgimenti interni alla vicenda nei secoli. 

Hobbes è il primo. Per lui non ci sarebbero stati dubbi: quella del popolo catalano è stata (ed è tutt’ora) una “ribellione” contro il sovrano. 

Alla chiarezza del giudizio, però, si aggiungono elementi che rendono complesso il sistema delle sue implicazioni: innanzitutto, il popolo catalano non solo è “autore” che ha trasferito il proprio potere indiscriminato all'”attore” governativo, ma è esso stesso “sovrano”; il che significa, in termini democratici, detentore originario del potere decisionale. Teoricamente, quindi, potrebbe disconoscere chi ha autorizzato, se fosse parte almeno maggioritaria di un popolo unico che univocamente ha legittimato il Governo. 

In secondo luogo, è lo stesso Hobbes a dire che lo Stato è dotato di potere di diritto fin tanto che ha il potere di fatto di farsi obbedire: questo spiegherebbe la violenza della repressione contro l’intensificarsi delle proteste che volevano dimostrare l’inconsistenza dello Stato di Madrid a Barcellona. 

Una sfida, quella tra governo centrale e comunità catalana, per la “sovranità”. Cioè per il potere. Di cui è detentore il “popolo”: così in una demo-crazia. 

Ma cos’è il “demos”, con cosa si identifica? Interverrebbe, a questo punto, Habermas: “demos”, nella logica nazionalista di cui tutti siamo, con la modernità, portatori, è identico a “etnos”. Il popolo è la nazione, la comunità dei “nati” in un luogo. 

Qui si apre un ulteriore quesito, relativo al caos catalano (e non solo): è possibile, per un “popolo”, esercitare il potere su un territorio, cioè la “sovranità”, senza una unanimità della popolazione presente su quel territorio stesso? È un esercizio di realismo dire che il più forte decide cosa fare all’interno dello spazio che riesce a controllare, ma quando la forza è un equilibrio intestino, relativo e descritto dalla maggioranza, allo scontro diretto devono essere preferite altre soluzioni. Quali siano può dirlo Gramsci: la lotta, oggi, non può servirsi della violenza per produrre conquiste durature. 

Nella società di massa, politicamente retta sul consenso, domina chi detiene l’egemonia, culturale quindi politica. Principio che presuppone un dialogo tra le parti, possibile solo lì dove via sia una traducibilità dei discorsi, ossia comprensibilità degli intenti. Un discorso pronunciato per se stessi è un monologo, che, se a teatro può commuovere, in una politica di attori interrompe ogni interlocuzione. Anche la più teatrale. 

Microcosmo Barcellona 

La sintesi più entusiasmante del caos catalano la raccolse, in quei giorni, un cronista intervistando i manifestanti in corteo verso Barcellona. Quella in atto, dicevano, era “una lucha de pueblo”. 

Il politologo avrebbe dovuto chiedersi se essa fosse, non fosse e quanto fosse pilotata da forze politiche. Il filosofo, attenendosi alla risposta, avrebbe dovuto chiedersi chi decide quale sia “el pueblo” in lotta. 

Un’ipotesi, allora come oggi, si può accennare osservando il fenomeno della principale città catalana. Barcellona ha una popolazione di circa 1,6 milioni di abitanti, di cui il 16,3% stranieri.

Questa percentuale, cresciuta soprattutto nel periodo dell’ultimo franchismo, è andata concentrandosi prevalentemente nelle periferie edificate senza precisi criteri urbanistici e nell’area industriale già popolata dalle classi lavoratrici provenienti per la maggior parte dall’hinterland catalano. In queste zone, anche i nipoti dei primi immigrati oggi parlano il castigliano. 

A livello di consensi, le periferie barcellonesi, storico baluardo delle sinistre, hanno da sempre offerto un terreno poco fertile al nazionalismo catalano. Così pure i quartieri meno ricchi di Barcellona città, dove l’indipendentismo si attestava, al tempo del referendum, intorno al 30%, contro il 50% del centro. 

Con le Olimpiadi del ’92, e le trasformazioni nel segno di un miglioramento della mobilità pedonale, che si applicavano ad un impianto urbano già disponibile a tali modifiche, dunque di un miglioramento della qualità della vita, Barcellona attrasse milioni di turisti e divenne, agli occhi di molti, “meno catalana”. 

Sul piano politico, il Presidente della Generalitat catalana Pujol, preoccupato dalla crescente affermazione dei governatori di Barcellona sulla regione circostante, rafforzata dalla proiezione internazionale quasi connaturata alla città (almeno dal tempo degli Aragonesi), ridusse la portata politica dell’amministrazione cittadina dall'”area metropolitana” alla “municipalità”: così, l’influenza della città si ridusse sul piano del mediocosmo catalano, costretta a un microcosmo stringente anche dall’allora nuova legge elettorale che privilegiava il voto delle aree rurali. Più spiccatamente nazionaliste. 

Le crisi che venne, scoppiata in Spagna nel 2010, è economica e politica, e favorisce il movimento di Barcelò en Comu alle elezioni comunali del 2015: Ada Colau, neosindaca, inaugura una strategia di decrescita economica della città che unisce programmi utili ad arginare la “gentrification” di spazi sempre più ampi del centro, comportando una espulsione delle famiglie a reddito medio-basso, a politiche volte a mantenere i livelli del turismo alti. Ma è specialmente il paradigma neomunicipalista a conquistare alla Barcellona di Colau l’interesse delle città europee e non solo, e a riportare il suo microcosmo sul piano del megacosmo internazionale, scavalcando il macrocosmo catalano retto dalla Generalitat. Una Barcellona internazionale, trasversale, proiettata verso la creazione di una interconnessione globale di megalopoli contrasta con i progetti nazionalisti dell’indipendentismo che, a ragione o a torto, propugna la creazione di un nuovo Stato nel panorama europeo. E che, per riuscire nei suoi intenti, può contare sul sostegno della popolazione dell’hinterland catalano, senza il controllo del vero motore della regione. 

Le vicende dell’ottobre 2019, tuttavia, già preannunciavano un avvicinamento di fette più ampie di barcellonesi alla causa indipendentista, avvicinamento che potrebbe spiegare il lieve aumento dei rappresentanti di partiti indipendentisti: percentuali allora difficilmente rilevabili, come mostrò la non immediata esposizione della sindaca nella vicenda. A conferma che la scena, in assenza di una mediazione inaugurata da un attore credibile sul piano locale e internazionale, segue il canovaccio impostato da secoli di banali nazionalismi.

Lorenzo Ianiro

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L’esercito del surf: come Amazon, Glovo e lo smart-working hanno cambiato il lavoro e l’autonomia

Il paesaggio pandemico somiglia a una steppa, con le case come tane e i pochi lupi a far da spola da fuori a dentro da dentro a fuori per il cibo. 

Da un lato i dipendenti in smart-working – quelli più fortunati, quelli che possono continuare a lavorare -, dall’altro i riders, i fattorini, i magazzinieri delle grandi aziende di delivery: quell’universo caotico di lavoratori del terziario (arretrato) per il quale manca il nome di una categoria comune. Ma non un ordine. 

Un ordine che, con le parole di Hartmuth Rosa, potremmo dire essere incentrato sul principio della performatività, l’incessante tentativo di mantenersi all’interno della logica della competizione- la nuova faccia della logica della produzione capitalista. La ricerca, individuale e collettiva, di un grado sempre maggiore di autonomia, che genera e rigenera l’effetto esattamente opposto: una nuova forma di alienazione, una dinamica della frammentazione antica, mortale e invisibile. 

Dai riders ai magazzini di Amazon, da Glovo allo smart-working, le trasformazioni nel mondo del lavoro sono lo specchio di un “regime totalitario del tempo”. 

Casa per casa, strada per strada 

Un’inchiesta dell’Internazionale del 6 novembre 2020 sul lavoro di consegna a domicilio di un’azienda cinese titolava: “Schiavi dell’algoritmo”. L’accordo siglato nel settembre di questo stesso anno tra il sindacato Ugl e la federazione delle piattaforme di delivery online- Assodelivery- riconosce quella dei fattorini come una forma di lavoro “autonomo”. 

Dalla Cina all’Italia c’è forse un problema di traduzione. O di definizione, data l’apparente fluidità di un fenomeno che già prima della pandemia di Covid-19 prometteva di cambiare le modalità del consumo e le forme del lavoro; una fluidità spesso interpretata come inconsistenza. I tempi di lavoro dettati dalla piattaforma digitale che registra le performances dei suoi iscritti – le consegne effettuate, i minuti impiegati, le recensioni ricevute – in un sistema che, pur dividendo i fattorini tra quelli a tempo pieno e quelli part-time, i primi con un salario base, i secondi a cottimo, non riconosce ai lavoratori lo statuto di dipendenti; così, i riders stentano a farsi categoria, sfuggono alle garanzie e alla rappresentanza sindacali, spariscono inghiottiti dalle strade, dagli allarmi che segnalano il ritardo di una consegna, nel gioco della performance e della sua valutazione sul quale non hanno alcun controllo. È quanto denuncia l’articolo dell’Internazionale in merito alla situazione dell’azienda cinese. 

In Italia, l’impegno di Cgil, Cisl, Uil, del Ministero del lavoro sta lentamente tentando di raggiungere il nocciolo di sfruttamento dietro la polpa dell’universo liquido dei riders, ma la conquista di maggiori diritti, pur auspicata, non sembra essere sufficiente ad allentare i gangli di un sistema del lavoro tutto basato sull'”accelerazione sociale”. 

È, infatti, un problema relativo alle forme della società e alla formazione della persona quello su cui poggiano i soprusi cui sono costantemente esposti questi lavoratori: un problema morale prima che legale. Un problema che rende lecito riconoscere più somiglianze tra un dipendente che lavora in smart-working e un addetto all’inventario di un magazzino Amazon di oggi, che tra quest’ultimo e un operaio metalmeccanico del mondo industriale di ieri- sfumando, così, anche i confini tra le “classi”. 

Ciò che accomuna mondi e posti di lavoro tanto lontani è il loro fondarsi su una medesima forma (o trasformazione) sociale, che ha come sua specifica caratteristica la riduzione di gradi sempre maggiori di autonomia nell’illusione del pieno controllo sulla propria carriera, cioè del pieno controllo sulla propria performatività. E la responsabilità che condividono nel favorire processi di frammentazione della società- nel maremoto della competizione- e di formazione di un carattere “situazionale” nell’individuo.

L’accelerazione sociale 

È forse una fantasia e un anacronismo insistere, oggi, sull’importanza del lavoro prima ancora che come impiego specifico – cosa faccio – come opera trasformativa caratterizzante l’umano faccio. 

Ma quel lavoro che non c’è, o che non soddisfa, o che ci costringe a continue vessazioni e ingiustizie è, forse, fenotipo di una (ri)strutturazione del modo in cui viviamo che ci obbliga a delle condizioni esistenziali infelici, insoddisfacenti perché insoddisfacibili. Tale ristrutturazione viene concepita da Rosa con la formula di “accelerazione sociale”, basata su crescita e accelerazione come pilastri di un processo che investe l’intero sistema relazionale umano – dal punto di vista produttivo, sociale, morale, politico… – e ne sposta il baricentro da una dinamica posizionale a una performativa. 

Ciò significa che, per raggiungere la tanto agognata autonomia – individuale e collettiva -, vessillo della modernità insieme all’autenticità, si deve essere in grado di essere continuamente competitivi, performativi all’interno di un sistema che della continua ricerca di competitività si alimenta: perciò, si può decidere del proprio destino, secondo le proprie inclinazioni personali, solo se e fin tanto che ci si mantiene nella “lotta”. 

Questa dinamica comporta anzitutto la formazione di un carattere situazionale, che si connota occupando liquidamente e quasi per inerzia gli spazi che gli si dischiudono e risolvendosi, ogni volta, in nuvole di vapore che devono ritrovare sempre di nuovo la condensa, una nuova opportunità. Le persone divengono “wave-riders”, surfisti che cacciano l’onda nell’illusione di poterla domare e, così, di vivere un’esperienza controllo. 

L’illusione dell’autonomia sta proprio nell’impegno per mantenersi il più possibile sulla cresta dell’onda: nella tenuta della propria competitività, nella più ampia continuità di questa infinita lotta performativa, ci si costituisce come soggettività a pieno titolo- persone. In quest’ottica, l’angoscioso timore di esser lasciati indietro da questa forsennata corsa al raggiungimento dello standard del successo- uno standard che è tale in virtù del suo non esser mai determinabile, carpibile-, corrisponde alla paura di perdere, o di non riuscire a garantirsi, il grado minimo di competitività necessario per venire riconosciuti come persone. Un annichilimento sociale. 

Ma perché l’autonomia sarebbe persa, se l’adesione a questo gioco dipende dalla nostra scelta, e se l’intensità con cui ci applichiamo ad esso è rimessa a noi? Per rispondere, possiamo far riferimento a due fenomeni legati al mondo del lavoro: lo smart-working e il lavoro dei riders. Per quanto riguarda il primo esempio, dobbiamo concepirlo come l’espressione più recente – e radicale – di un processo già in atto di trasformazione del sistema lavorativo (definirlo “produttivo”, oggi, risulterebbe in un significato troppo ristretto) dall’organizzazione antropologico-spaziale della fabbrica all’organizzazione secondo il sistema delle “scadenze”. Questo ha prodotto- ed è prodotto di- una “de-standardizzazione e una de-differenziazione” tra “lavoro” e “vita”; inoltre, nel processo è cambiata l’espressione della fonte del controllo sul lavoratore: la Fabbrica ha ceduto il passo alla Scadenza, e ciò nel contesto illusorio di un generale guadagno in termini di autonomia rimessa al singolo dipendente. Senza che ce ne rendessimo conto, dice Rosa, si è instaurato un “regime totalitario del tempo”, che ci impone eteronomamente come – e quanto – aderire al funzionamento del sistema: l’alternativa c’è, ed è l’esclusione sociale e umana, l’annientamento personale. Il problema, nel concreto del caso dello smart-working, è di giustizia, perché il confinamento nella dimensione individuale rende più difficile il lavoro di contrattazione sindacale in maniera direttamente proporzionale all’incremento del potere di controllo del datore di lavoro; ma, ancora di più – secondo Rosa -, è un problema legato alle condizioni in cui si forma la soggettività, individuale e collettiva nel segno dell’eteronomia. 

In questi termini, il lavoro dei riders, ma anche quello dei dipendenti di Amazon, sono l’esempio di come le implicazioni di questo regime totalitario del tempo si riflettono sulla natura del lavoro e del lavoratore nel segno della competitività e della performatività, come abbiamo visto, stretto tra l’illusione dell’autonomia nel conseguimento dei propri incarichi e l’evidenza virtuale dell’algoritmo che detta la frequenza entro la quale, se si è dentro, si compete. La scelta, quindi, è tra un lavoro che si confonde sempre di più con la vita e un’esclusione la paura della quale va oltre il timore dell’emarginazione sociale, oltre il timore della morte. 

La generazione come prospettiva 

Fin qui abbiamo guardato al cambiamento dal punto di vista individuale, seguendo il retaggio per cui una trasformazione della soggettività riguarda l’individuo. C’è un altro piano del discorso: quello collettivo, che potremo analizzare una volta motivato il passaggio ad esso. Rosa continua argomentando che la sfera della competitività è arrivata a “colonizzare” l’intera sfera della vita- della “libertà”- nell’illusione di una (ri)conquistata personalizzazione del lavoro: in questo modo, in ogni campo della vita ognuno ritiene che “non c’è certezza che lo status, una volta raggiunto, verrà mantenuto”. 

Le implicazioni di questo pensiero sul carattere (divenuto) situazionale comportano un’astensione, anzi una repulsione dall'”impegnarsi in scopi di vita che abbiabo una durata che comporti obbligazioni a lungo termine”, e invece la propensione a captare e inseguire l’occasione del momento in un tempo frammentato, in un comportamento frammentato, in un piano individuale ridotto in frammenti- atomizzato, direbbe Löwenthal- dal terrore del venir meno alla competitività. 

Ogni individuo diviene in sè frammentato, e, insieme, un frammento di un’umanità scomposta, famelica: di questo segno è il cambiamento, per quanto riguarda i rapporti interpersonali. E il piano del cambiamento sociale- svanito un mondo della produzione distinto e le sue classi, atomizzata l’umanità- può essere rinvenuto nel ritmo (naturale, culturale, storico: umano) dello “scambio generazionale”: così, “mentre nella prima modernità i cambiamenti sociali erano tradizionalmente concepiti nella successione delle generazioni, oggi essi possono essere osservati in una dinamica interna alla medesima generazione”. 

In termini di tempo – e dei cambiamenti, i processi ad esso associati – siamo passati “da un piano di cambiamento inter-generazionale nella prima modernità, a una fase di sincronizzazione data dalla successione delle singole generazioni [ognuna in sè autonoma] durante la modernità classica, ad un’accelerazione che è divenuta virtualmente intra-generazionale nella tarda modernità” e ciò ha comportato un’estinzione del ruolo della generazione come ruolo collettivo, ed una sua persistenza o resistenza come teatro di rapide e indeterminate (tras)formazioni collettive che avvengono entro il tempo della vita di un’unica, medesima generazione. Pertanto, quella che Rosa definisce la perdita di “continuità diacronica e di coerenza sincronica”, riguarda l’individuo, sì, ma dev’essere osservata come fenomeno imperniato nella modifica della direttrice temporale fondamentale, che è quella generazionale a meno che non si concepisca l’individuo come Singole, come monade (ma allora si starebbe al gioco dell’atomizzazione). Ed è forse proprio qui, su questo piano, che si deve immaginare la sfida per una riconquista del tempo allo spazio dell’autonomia. 

Lorenzo Ianiro

C’è pace all’inferno: perché secondo Kant il conflitto israelo-palestinese è tutt’altro che finito

Era “The Deal of the Century”: Trump lo diceva, e nessuno gli credeva.
Tanto declamato fin dalla campagna elettorale, annunciato dal senior advisor Kushner a
Manama, capitale del Bahrain, un anno fa, ora, nuovamente in tempo di elezioni, sembra più reale
che mai.
Il piano di “the Donald” per risolvere il decennale conflitto tra Israele e il popolo palestinese a
colpi di sussidi economici, abbandonata ogni velleità politica, aveva bisogno di una sola cosa
per prendere il volo: un accordo con le altre nazioni arabe. Quanto si sta delineando proprio in
questi giorni.
Una strategia che si rifa apparentemente a quella tradizione filosofico-politica di cui Kant
è illustre esponente, che vede nell’interconnessione delle economie la precondizione della
concordia globale.
Dietro le apparenze, tuttavia, covano i germi di una nuova fase di un conflitto che è ben lungi
dall’essersi concluso.

Accordi del secolo
In principio fu il “patto del secolo”, annunciato fin dalla campagna elettorale per le presidenziali
2016 e più volte evocato, sempre nel mistero, da Trump e dal suo entourage. Un’idea, per
molto tempo, un astratto disegno strategico che sembrava anche stentare a decollare, data
la repulsione del popolo palestinese per un compromesso che offre soldi in cambio della
sostanziale rinuncia ad uno Stato palestinese, e dato l’attaccamento ad interessi iperpersonali
manifestato dalle varie potenze mediorientali che si affacciano sull’abisso palestinese.
Nello specifico, il progetto (per quel che ci è dato sapere) è quello di dedicare corposi
investimenti economici alle aree abitate dai palestinesi e de facto controllate da Israele dal
1967, così da risolverne i problemi più pressanti (le condizioni di vita degli abitanti di quei
territori, già tragiche e se possibile in peggioramento) e da promuovere uno sviluppo economico
e sociale della zona.
Per conoscere gli aspetti politici della strategia, invece, abbiamo imparato già da più di un anno
a interpretare gli indizi lasciati dalle mosse geopolitiche dell’America di Trump in Medio Oriente,
mosse solo all’apparenza casuali e frammentarie.
Ultima delle quali è una trattativa con gli Emirati Arabi Uniti e con il Bahrain che ha portato ad
un’intesa tra i due Paesi arabi e Israele, sotti l’egida statunitense: l'”Accordo di Abramo”, con il
quale le potenze arabe (quasi sicuramente dirette dall’Arabia Saudita) riconoscono ufficialmente
lo “Stato degli ebrei”. E sanciscono una traslazione delle priorità: dalla lotta arabo-israeliana alla
lotta arabo-iraniana.
Un piano, quello trumpiano, che ruota intorno ad uno dei più ambigui ed importanti principi
sanciti prima della e con la nascita di Israele: già presente tra le righe della Dichiarazione di
Balfour, ripreso nella Dichiarazione di Indipendenza del ’48 e fissato nei cardini della Legge
fondamentale approvata nel luglio 2018. Quel principio che sancisce che l’autonomia, cioè il
riconoscimento della dignità di soggetto morale, di Stato, è in Israele propria del solo popolo
ebraico. Ai palestinesi è concessa la condizione di minoranza governata dalla sovranità
israeliana.
È questo il principio che la strategia di Trump riconosce.
È questo il principio che l’assenso dei due Paesi arabi ratifica.
È questo il principio che i palestinesi (che assistono in questi giorni alla storica riappacificazione
delle due “guide”, Hamas e Fatah, in nome della causa anti-israeliana) rifiutano.

Garanzie per la pace
Il pensiero non nasce come i funghi. Altrettanto i pensatori.
Quando parliamo di Kant dobbiamo riferirci ad una stagione precisa della riflessione
filosofico-politica europea: un’epoca contraddistinta dall’esigenza di giustificare l’assetto
politico esistente e immaginarne i possibili sviluppi futuri.
Il punto di partenza, per molti di questi pensatori, tra cui Kant, è la concezione archetipica della
guerra nella storia e nella natura umane. Guerra che, in “Per la pace perpetua”, Kant descrive
come lo strumento di cui la natura si serve, nell’ambito della teleologia della specie umana, per
popolare di esseri umani la terra in ogni angolo. Guerra che, per il filosofo, è connaturata nel
soggetto umano, così come in altri scritti kantiani lo è il male, detto appunto radicale, radicato.
Assunto questo dato, era diffusa comvinzione, al tempo di Kant, che il commercio stesse
intessendo una rete di relazioni tra gli Stati, estesa quasi a livello globale, tale da risultare come
l’immagine di un complesso di interdipendenze che legavano ciascun soggetto politico agli altri
ed al sistema tutto.
Su una base economica, insomma, si stringono gli accordi di collaborazione tra nazioni e tra
popoli.
Per il filosofo prussiano lo “spirito del commercio” è ciò che garantisce, secondo natura,
la necessità della concordia tra entità morali, gli Stati, tanto distanti per culture quanto
fastidiosamente vicini per spazi occupati su un medesimo globo finito.
L’interesse egoistico spingerebbe gli Stati ad accordarsi, fornendo una condizione fondamentale
per la pace, così come, in un momento antecedente nella storia dell’umanità, aveva spinto gli
individui a riunirsi in una organizzazione statale.
Insomma, sembra che “The Deal” sia stato scritto da Kant. Perché, allora, dovremmo essere
lontani dal raggiungimento di una “pace perpetua” tra Israele e palestinesi?

Kant e Abramo
Si danno delle condizioni, nello scritto kantiano, preliminari “per la pace perpetua tra gli Stati”.
Esse devono essere rispettate da ciascuno di essi nei confronti di ciascun altro, a partire dal suo
vicino più prossimo e potenzialmente più ostile.
Due sono, in particolare, quelle trascurate nel “patto” a stelle e strisce: si dà la possibilità di una
pace solo tra Stati che si riconoscono reciprocamente come tali, cioè come enti morali cui deve
accordarsi il rispetto. Fondamentale è, infatti, l’autonomia dello Stato in quanto soggetto morale,
riconosciuta dall’avversario anche in guerra (se così non fosse, non si darebbe alcuna possibilità
di una pace duratura, ma solo di una tregua).
La seconda condizione, legata a quest’ultimo aspetto, impone che uno Stato terzo possa
intervenire nelle vicende interne di un’altra entità politica solo nel momento in cui questa si sia
già divisa in due realtà politico-morali distinte.
Se la seconda condizione è stata violata fin dal momento della creazione dello Stato di Israele,
ed ancora prima con la promessa dell’impegno inglese nei confronti della sua fondazione,
attraverso un’operazione geopolitica arbitraria, la prima è formalmente preclusa dalla
“costituzione” stessa di Israele, che non può riconoscere nel suo “spazio vitale” entità statali altre
da sé.
Intanto, una dichiarazione ONU ha stabilito ormai un anno fa che il territorio della Striscia di Gaza
sarebbe stato da considerare invivibile già nell’anno in corso. E ancora nessuna pandemia s’era
abbattuta sul mondo.
Forse, il “patto” trumpiano, vista l’impossibilità allo stato attuale dei fatti di assicurare una pace
duratura alla regione, sta giocando sulla volontaria ambiguità insita nel concetto kantiano: cerca
la pace, sì, ma quella eterna dei morti.

Lorenzo Ianiro

Sognare nel Pleistocene

Immaginate di essere un uomo o una donna. Immaginate ora di essere uno dei primi esemplari di uomo o di donna che hanno abitato il pianeta all’incirca due milioni di anni fa. Alla luce della recentissima differenziazione del genere homo dal genere australopitechus, sareste delle creature dalle sembianze inevitabilmente scimmiesche, alle prese con l’apprendimento delle potenzialità e degli accorgimenti legati all’assunzione di una postura eretta. Immaginate di evolvere gradualmente, abbandonando quella porzione di mondo animale che avete condiviso con tutte le altre specie del creato, e di dirigervi verso l’anno 1969: avete lasciato questo pianeta con una navicella spaziale, e avete piantato una bandiera su un altro pianeta, viaggiando nello spazio.

Immaginate ora di addormentarvi. Lo avete fatto per milioni di anni. Immaginate di addormentarvi sotto la volta celeste, bellissima e luminosissima nel buio delle notti ancestrali. Immaginate di sognare. Lo avete fatto per milioni di anni. Immaginate ora di sognare per la prima volta nella storia dell’uomo, e di averne coscienza: qualcosa capita dietro le vostre palpebre, che sono chiuse, e qualcosa capita nel vostro corpo, che è addormentato. È incredibile. Siete tutto, e le vostre potenzialità sono illimitate.

Immaginate ora di svegliarvi. Avete appena vissuto l’esperienza più incredibile della vostra vita. Vorreste salire sulla montagna più alta della Terra e urlare al mondo che siete stati liberi di volare nell’aria assieme agli uccelli, liberi di esplorare gli abissi più profondi degli oceani, e di saltare altissimo tra le nuvole, prendendo i fulmini con le mani. C’è un però. Un però terribile: non avete gli strumenti per farlo. Forse, siete il primo esemplare di uomo che ha fatto esperienza della dimensione del sogno. È un qualcosa di mai accaduto sulla giovane Terra. Non avete un linguaggio che possa descrivere la portata degli eventi che avete visto susseguirsi all’ombra del sonno.

Decidete allora di riprovarci: vi rimettete sotto la volta celeste, e la guardate prima di chiudere gli occhi e rivivere quella fantastica esperienza. Non ci riuscite: per la prima volta nella vita degli uomini, guardate il nero telo della notte e i diamanti che lo decorano con gli occhi di chi ha sognato. La vostra esistenza ora si trova a miliardi di anni luce dalla vita che avete conosciuto prima che il vostro cervello fosse squassato dalla grandezza e dall’inafferrabilità del sogno, e mentre cercate di assicurarvi la sopravvivenza oscillando tra i morsi della fame, i brividi del freddo, il dolore di una morte, sperate che nelle notti sotto le stelle ci sia ancora la possibilità di diventare creature capaci di qualsiasi cosa.

Immaginate di realizzare per la prima volta che non vi è dato volare. Immaginate di realizzare al contempo che ciò che accade in modo inconscio durante il sonno può essere replicato in modo deliberato durante la veglia: se il vostro cervello – che ancora non sapete di possedere – proietta degli incredibili film ante litteram, significa che avete le potenzialità per pensare cose che non avete mai visto e sentito.

Immaginate di incontrare altri come voi, che hanno sognato, e che si sono resi conto, come voi, che potete sognare ad occhi aperti, e piegare il mondo secondo le esigenze. Siete la storia dell’uomo e la forma del mondo.

Immaginate di incontrare altri come voi, che hanno immaginato le cose a partire dalla prima riga. Siete la coscienza del vostro percorso e l’assurdità delle scelte compiute.

Marco Tumiatti

Yes, you can. “Un’ode pindarica su uno stanco, anziché un vincitore!”

Qualcuno ha detto che non ci sono poteri buoni. L’accettazione di qualsiasi forma di potere e delle condizioni proposte o imposte presuppone un dovere di coloro che partecipano al patto, quello di sottostare ai vincoli imposti dall’accordo. Il dovere si esprime quindi in senso di negatività, di qualcosa che faccio perché non posso non farlo, e viene percepito come un elemento altro da me che io recepisco e accetto.

In una logica di comprensione della realtà o di modifica della stessa, però, non solo esistono poteri meno buoni di altri ma soprattutto ogni forma di potere funziona su delle logiche che cambiano nel tempo e nello spazio e che quindi vanno analizzate e capite.

A questo scopo, ci viene in aiuto il dibattuto lavoro di un filosofo contemporaneo Byung-Chul Han, il quale trasferitosi dalla Corea in Germania all’inizio degli anni ’90, si inserisce in un filone di critica intellettuale dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, attraverso categorie della filosofia foucaultiana e post-foucaultiana, che utilizza e supera, ricorrendo a concetti che hanno a che fare con discipline che comprendono l’etica, la filosofia sociale e fenomenologica, la teoria culturale e dei media, il pensiero religioso e l’estetica.

Secondo la lettura che Byung-Chul Han fa sulla nostra contemporaneità, la differenza tra il capitalismo neoliberista e qualsiasi altra forma organizzativa precedente è stata passare dal paradigma del dovere a quello del potere, trasformando un’energia negativa in una positiva che narra la vita e la società come una promessa di infinite possibilità che alla fine illude, deprime e sfinisce l’uomo.

L’uomo del nostro tempo, non fa perché deve, fa perché può ed è abituato a pensare che questa strada di infinite possibilità sia una promessa di realizzazione e di felicità. Interiorizzando questa logica, per cui nessuno ci obbliga a rincorrere l’infinito e la perfezione e il di più, l’uomo diventa l’unico responsabile del proprio successo e anche del proprio fallimento con la forte convinzione che non esistano limiti alla propria felicità o fortuna.

La figura di persona di successo, il modello di realizzazione associato al concetto di perfezione, è quella di una persona votata al concetto di poter fare, veloce nel farlo, capace di occuparsi di tante cose nello stesso momento e che in una sorta di ritmo che non ammette differenze, attraversa tutte le tappe della vita così come è funzionale all’organizzazione socio-economica della nostra società. Il paradosso si esprime nell’imperativo “Sii libero!”.

Non è un caso il fatto che il nostro tempo venga sempre più spesso associato al tempo delle malattie mentali, agli esaurimenti, alla depressione e alle malattie neuronali che per quanto diverse tra loro hanno in comune una struttura post-immunologica: non sono malattie provocate dal diverso, ossia da un attacco esterno sia esso batterico o virale, ma dall’eguale, ovvero dal nostro stesso corpo, dalle nostre stesse convinzioni, dal nostro stesso spirito.

Byung-Chul Han, utilizza la metafora immunologica nel suo “La società della stanchezza” per spiegare come quell’energia positiva, l’energia del potere sia lo strumento di controllo più potente che ci sia, e che proprio la nostra società contemporanea votata al profitto e al progresso adopera. Questo mette in atto un meccanismo di sfruttamento estremamente intelligente, quello dove padrone e lavoratore o più in generale vittima e carnefice coincidono.

La negazione del limite e del finito caratterizza la narrativa e i tutti i campi della nostra società ma è profondamente illusoria. E’ agli occhi di tutti che la comunicazione online ha svuotato di significato la percezione delle distanze o che la produzione a basso costo permette l’illusione di un consumo infinito.

In alcuni casi, l’eliminazione del limite è meno chiaro, eppure l’asservimento alla funzione del potere è estremamente profondo. La difesa della nuda vita e la trasformazione della salute in quanto tale in valore assoluto, per esempio, è manifestazione della negazione del limite della morte.

Nella nostra realtà, la morte non viene accettata ma evitata a tutti i costi. Se questa logica ci rende apparentemente liberi, ci condanna ad una mania di onnipotenza che ci fa temere la morte al punto da diventare schiavi di questa paura e di vivere in una modalità di difesa della nuda vita invece che di valorizzazione della stessa. Il sentire di poter vincere la morte è funzionale alla logica neoliberista perché coincide con la negazione della perdita assoluta e con il mito del progresso infinito.

Aristotele già lo aveva detto che l’accumulazione del guadagno finisce per trascurare la buona vita in favore della nuda vita. L’etica protestante gli ha trovato una giustificazione in senso di sacrificio. La nostra contemporaneità lo innalza a valore assoluto per cui l’uomo utilizza il mito della buona salute per difendere la nuda vita a tutti i costi, asservendosi così al lavoro.

Ma persino l’eros è vittima di questa illusione di superamento del limite. Persino l’eros, è diventato strumento di autosfruttamento nella illusione di libertà. Nel saggio “Eros in agonia”, Byung-Chul Han spiega come l’Eros presupponga un superamento dell’individuo, l’accettazione della finitezza dell’Io e l’incontro con l’Altro, oltre una logica di possesso.

Per quanto non sempre chiaro, l’amore e l’eros si basano su una logica di relazione e la relazione è possibile solo se resiste una distanza e una differenza tra io e l’altro. L’eliminazione del limite tra l’io e l’altro uccide l’Eros e lo piega a strumento di consumo di corpi e anime, a logiche di prestazione e di accumulazione, all’ottimizzazione del proprio guadagno e all’eliminazione del rischio che presuppone l’incontro con l’altro, cose che niente hanno a che fare con l’Eros.

Il risultato di tutto ciò è la generazione di una società di persone sole, frustrate, depresse, incapaci di amarsi, incapaci di mettersi in relazione con l’altro, votate solo all’accumulazione e al consumo dell’esistenza, delle distanze, delle velocità e della difesa della propria vita.

Se su un piano di prassi, separare le categorie dell’Io e degli altri, o i piani di privato e pubblico non ha senso ai fini di un’azione di cambiamento efficace, ai fini dell’analisi non solo è utile farlo ma diventa essenziale partire dal discorso dell’autosfruttamento per capire come funziona il nostro sistema di potere.

Byung-Chul Han viene spesso criticato per il fatto di limitarsi ad un piano di analisi che innesca un sistema di colpevolizzazione degli sfruttati che per di più nei suoi scritti sembrano coincidere con una classe medio-borghese. Ma nell’analisi è indispensabile capire come ogni logica di potere che osserviamo all’esterno, altro non è che una proiezione di quello che succede quotidianamente nella nostra testa e sul nostro corpo per nostra stessa mano. Porre l’accento sul fatto che questa logica sia, almeno in parte, trasversale alle diverse classi sociali non deve sostituire ma integrare quelle analisi che tendono a sottolineare la specifica condizione in cui versano le diverse classi sociali.

Combattere la società della stanchezza presuppone una forte lavoro di analisi e messa in discussione dei nostri stessi comportamenti e credenze che si legano strettamente agli obiettivi che ci poniamo nella nostra vita personale e al modo in cui tentiamo di raggiungerli.

Il concetto di stanchezza diventa in questo senso uno strumento di comprensione molto potente. Infatti, la stanchezza può svuotarci o nutrirci ma questo non dipende dalla quantità di sforzo che abbiamo fatto ma piuttosto dalla qualità. La stanchezza che deriva da una lunga giornata di attività in una condizione di connessione con sé stesso e con il mondo, forse ci farà buttare a letto la sera senza più energie ma è in realtà una stanchezza che ci nutre e rigenera. La stanchezza che invece deriva da una condizione di isolamento, alienazione o rincorsa, è una stanchezza che ci opprime, svuota e distrugge.

Vale la pena sprecarci un po’ di tempo a riflettere sulla qualità e l’origine della nostra stanchezza, magari sottraendoci dal fare qualcosa che proprio potevamo fare ma che alla fine era meglio non fare.

Francesca Di Biase


Fonti

  • Byung-Chul Han (2012). La società della stanchezza. Gransasso nottetempo.
  • Byung-Chul Han (2013). Eros in agonia. Figure nottetempo.