Votare ai tempi del Covid. Quei tempi in cui ogni gesto che facevamo quasi in automatico ci
sembra un po’ meno scontato, figuriamoci quelli che già da tempo lamentavano una carenza di
senso.
Quei tempi in cui proprio quei gesti che manifestano segni di crisi andrebbero per primi
interrogati, ascoltati, risolti.
Dicevamo, votare. Ai tempi del Covid, ma già da un’era. Un gesto che appare a molti privo di
senso, perché incapace di incidere veramente sulla realtà.
Al di qua dei risultati (che spesso sono confusi con la realtà, appunto)- del referendum
costituzionale, delle regionali, dei passati, presenti e futuri appuntamenti elettorali- è evidente la
distanza che oggi separa l’apparato amministrativo del Paese, e la classe politica che lo popola,
dalla società civile.
Una distanza dalle origini lontane, che tanto il “populismo” consolidato quanto il “trasformismo”
riscoperto non fanno che velare, essendo entrambi modi di non-rappresentatività politica.
Da cosa deriva la “crisi della rappresentanza” della classe politica? C’è un’alternativa percorribile?
Sono domande fondamentali, che non possiamo ignorare o pensare di seppellire nelle urne,
perché solo la loro coscienza può far luce sull’abisso nel quale sprofondiamo.
Dal populismo al trasformismo e ritorno
Nel microcosmo Italia il rapporto tra società civile e classe politica si è rotto già da tempo, dal
cruciale 1992 almeno. E qui, da tempo, sono stati elaborati metodi politici capaci di sostituire la
rappresentatività.
Il figlio più illustre di questa stagione è il populismo ultra-contemporaneo, che al “popolo”
come massa indistinta e consenziente ha sostituito il Consumatore, soggetto collettivo
indifferenziato dotato di una volontà univoca e passiva (o re-attiva). Una reinterpretazione della
volontà collettiva di Rousseau in cui la volontà ha perso ogni razionalità, per divenire assenso
all’immagine proposta.
Il contatto politico della rappresentanza, fondato sul concetto di responsabilità o,
kantianamente, sul “rispetto” per il “dovere morale”, stabilisce un rapporto di attribuzione del
potere politico dagli individui alla classe politica, definendo il carattere repubblicano della “forma
di governo”: la costituzione repubblicana, nel pensiero illuminista, è quella che prevede una netta
distinzione dei poteri dello Stato, e non può fare a meno della rappresentanza, secondo Kant,
perché se così fosse assisteremmo all’assunzione di tutti i poteri da parte di un medesimo
soggetto politico. Se il popolo, sovrano in quanto legislatore, diviene anche esecutore, la forma
di governo è dispotica.
Ciò che che caratterizza il populismo è proprio questa- per il momento ancora virtuale-
assunzione della sovranità popolare, che sta nella facoltà dei cittadini di darsi le proprie leggi, tramite il Parlamento, da parte dell’esecutore governativo che si erge a incarnazione
della consensualità collettiva. Con risultato la perdita di autonomia della popolazione.
Quell’autonomia il cui esercizio, in sistemi politici complessi quali sono quelli moderni, è
possibile tramite il principio di rappresentanza.
Ma la “responsabilità” può essere infranta anche appellandovisi in nome della “ragion di
Stato”. Nasce, così, un altro abominio figlio del vuoto di rappresentatività politica italiano. Un
mostro per la verità antico, proveniente almeno dall’era dei primi vagiti dello Stato unitario: il
trasformismo.
Così definito dalle parole del suo più celebre interprete, Agostino Depretis, descrive una
strategia tesa a mantenere un certo asset istituzionale, internazionale e storico-politico
attraverso l’invenzione, da parte di un soggetto governativo immobile, di intese politiche e
commistioni anche contraddittorie e incoerenti. Un’applicazione circoscritta agli equilibri politici del motto del Gattopardo “cambiare tutto perché nulla cambi” che, piuttosto che interpretare
le rivoluzioni sociali, si assicura il controllo della sfera politica assicurandosi l’interesse della
maggioranza degli eletti. Anche a costo di dover modificare, in questo tentativo, lo statuto e gli
indirizzi del proprio schieramento.
Sono modalità collegate, molto spesso in reciproca dipendenza, emblematiche di una crisi che
esse sono chiamate a nascondere, come ideazioni di una classe politica che trae la propria
legittimità ora evocando, ora gestendo un presunto popolo italiano.
Il sacrificio della formazione personale
Platone, nel Menesseno, fa dire a Socrate che la democrazia ateniese è “una aristocrazia con
l’approvazione dei più”. Formula scimmiottata dal celebre discorso di Pericle agli ateniesi.
L’idea è quella che, più avanti nel tempo, sarà formalizzata da Aristotele: la politeia, il governo
dei molti, è la migliore forma di governo perché si dà come il giusto mezzo tra il governo di
tutti (democrazia) e il governo di pochi (oligarchia), e di entrambi corregge le storture. In essa,
infatti, a governare è una moltitudine sufficientemente agiata da potersi permettere di servire gli
interessi della cosa pubblica. Una moltitudine di aristoi.
Ora, la questione è come individuare il carattere degli aristoi, dei “migliori”: un problema
etico-politico, che per Platone prima e per Aristotele poi non può essere risolto delegando alla
massa del “popolo” il compito di scegliere la sua classe dirigente tramite consenso.
Affidare un ruolo simile alla massa, infatti, per i due filosofi, significa spianare la strada al
governo dei demagoghi, coloro i quali sanno su quali corde suonare per accattivarsi il favore dei
più.
La soluzione individuata da Platone è la definizione preventiva del complesso della società
secondo tre gruppi determinati: i produttori, i guerrieri e i governanti. Una partizione che opera
innanzitutto una distinzione secondo le qualità naturali degli individui, e in secondo luogo che
metta in atto una loro formazione completa che gli permetta di sviluppare al massimo le proprie
capacità: così emergono le classi della struttura politica, e tra queste quella dei filosofi, che
ricopre la funzione di governo.
L’intera comunità è coinvolta nelle maglie di un sistema per certi versi rigido, per altri
interconnesso e collaborativo, in cui il criterio discriminante, in base al quale si riconoscono
i gruppi sociali, è il grado di razionalità degli individui, generato dalla natura e formato
dall’educazione.
Ciò che filtra del discorso di Platone in un sistema repubblicano in cui “la sovranità appartiene
al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, è il problema della
identificazione delle persone adatte a guidare lo Stato: gli aristoi, eletti dalla totalità dei cittadini
come rappresentanti in Parlamento, ai quali è affidata la responsabilità di interpretare le
istanze sociali, tradurle e farne delle leggi, le quali dovranno essere attuate dal Governo, la cui
formazione e il cui operato passa al vaglio delle camere, sotto la supervisione dei garanti della
carta costituzionale.
Il sistema si regge su una serie di responsabilità intrecciate, la prima delle quali è quella degli
eletti nei confronti dei cittadini. Come può prodursi una frattura tra questi soggetti? Da cosa
deriva lo iato tra classe politica e società civile?
Volendo dare una risposta sintetica: dalla crisi degli strumenti di formazione della
rappresentanza. Dalla corruziome e dal crollo del soggetto politico moderno, il “moderno
Principe” nelle parole di Gramsci: il partito.
Non il partito in sé si è esaurito, ma il compito che gli conferiva senso e levatura; o meglio, ad
essersi affievolite fino quasi a scomparire sono le capacità di interpretare un simile compito, che
è anche un destino.
La formazione dell’individuo (abbandonati i platonici retaggi innatistici), l’educazione morale cui
si accompagni una produzione etica: è quanto ha perso di importanza, venendo trascurato, e lasciando un vuoto di significato tra l’esistenza di una società civile e la presenza di una classe
politica.
Questo vuoto viene rienpito di vacuità, necessaria, tuttavia, a misurare il gradimento del leader,
unica fonte di legittimità cui questi possa aggrapparsi: è la pubblicità che il leader, l’incarnazione
della classe politica, fa della sua persona, perché questa venga notata, quindi elevata a
“migliore”, aristos.
Da questo processo di spettacolarizzazione, per dirla con Debord, emergono non dei
rappresentanti, ma dei “naturali candidati” sempre in cerca di approvazione e di riconoscimento.
Nuove strutture, vecchia politica
Concezione, produzione, vendita. Sono i tre momenti del processo di immissione di beni sul
mercato.
Mentre il capitalismo moderno, nel suo sviluppo fino alla caduta del Muro e al termine della
Guerra fredda, si concentrava per lo più sulla produzione, in una continua gara a rendere
più concorrenziale la merce abbattendo i costi della sua realizzazione, l’era successiva,
dell’unificazione pressoché totale dei mercati e, oltre, dello sviluppo impetuoso e della diffusione
delle tecnologie, ha il suo fulcro altrove. Nella concezione e, soprattutto, nella vendita.
Tali mutamenti riguardano l’Economico, quel complesso di rapporti sociali finalizzati alla
gestione della circolazione delle merci e al rafforzamento del mercato: quello che, al tempo
di Marx, era un Economico-industriale, oggi è un Economico-pubblicitario. Ciò che conta,
nell’odierna competizione per l’incremento della propria incidenza sulla realtà economica e
sociale, è il bisogno che riesce a creare l’immagine pubblica di una merce.
Intuire il cambiamento sul piano della produzione può essere utile per chiarire la genesi della
crisi della formazione politica dell’individuo, e per immaginare prospettiva differenti.
Per quanto riguarda la crisi, possiamo azzardare brevemente un parallelo tra il tramonto della
centralità del sistema-fabbrica e l’avvizzimento del soggetto partitico: entrambi, pur non avendo
esaurito il proprio ruolo produttivo, vedono disciogliersi il loro senso sociale ed esistenziale.
Alla perdita di importanza della lavorazione di un bene, corrisponde una perdita di rilevanza
del processo di formazione della persona in rapporto al ruolo che essa andrà a occupare nel
sistema sociale.
Ed i luoghi di quella lavorazione e formazione permangono come involucri vuoti, ancora utili al
consumo.
Un’alternativa politico-sociale, perciò, non solo è possibile, ma è anche necessaria. Anzi,
kantianamente, proprio perché è un dovere è una possibilità.
Le proposte che seguono sono solo accennate, e meriterebbero forse maggiore spazio
espositivo. Ma tentano, comunque, di definire tre linee sulle quali una politica consapevole
dovrebbe orientarsi: la ridefinizione dello Stato nazione, la ridefinizione del paradigma
democratico, la ridefinizione dello strumento partitico.
Innanzitutto, ripensare il paradigma Stato-nazionale. Farlo alla luce di un contesto globale in
cui il sistema economico e le sfide politiche sono gestite da centri di potere geograficamente
interni ai confini statuali, ma molto spesso indipendenti dalle politiche nazionali, perché connessi
in reti che ridefiniscono il limes: è il caso delle “città globali” di cui parla Saskia Sassen. Reti
internazionali di denaro e potere in cui ogni città che ne è attraversata ha un suo ruolo specifico,
indipendentemente dalla distanza.
In secondo luogo, comprendere il modello politico del presente come repubblicano prima e
più ancora che come democratico. Kant prima e Habermas poi riconobbero nella repubblica
una forma di governo incentrata su una Legge fondamentale e sulla condivisione di una cultura
politica: questo è un sistema compiutamente aperto di cittadinanza, integrabile a livello
macroregionale, europeo.
Democrazia è, invece, un modo di governare, affidando la sovranità al demos: ma la determinazione di questo “popolo” è naturalmente problematica e storicamente esclusiva.
La nostra costituzione è già chiara su questo: l’Italia è una repubblica in cui la sovranità
popolare si esercita secondo la legge, cioè secondo la Costituzione stessa, e lo fa attraverso il
Parlamento, assemblea dei rappresentanti eletti dai cittadini.
Infine, reinventando un soggetto politico sensato, cioè utile alla mediazione tra società civile
e classe politica, che sappia evolversi verso una connessione tra il piano transnazionale e la
dimensione locale, e che impari ad operare su scale diverse dell’amministrazione di una entità
politica unitaria: il livello confederativo, il livello macroregionale, il livello regionale e il livello
locale.