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Kurdistan Calling

Siria e Kurdistan sono diventati nomi che leggiamo distrattamente nei titoli dei giornali mentre scorriamo la homepage di facebook. “Siria: i combattimenti sono costati la vita a 1.106 bambini lo scorso anno”, “Kurdistan: nuovi raid aerei turchi “, “Dall’Italia in Siria e ritorno, allarme foreign fighters”.

Superata una fase di isteria di massa dovuta alla serie di attacchi terroristici di matrice islamica, che hanno colpito l’Europa a partire dal 2015, abbiamo fatto ciò che di più sbagliato si poteva fare; abbiamo trasferito il problema oltre i nostri confini, lasciando che piano piano svanisse anche dalle nostre memorie.

Nell’incontro che si è tenuto ieri presso la facoltà di Scienze Politiche di Roma Tre, Corrado Formigli e Adib Fateh Alì ci hanno ricordato che vivendo in un mondo globalizzato le guerre non sono più locali, ma sono di tutti.

Entrambi i giornalisti hanno realizzato numerosi reportage nei campi di battaglia di Iraq, Iran, e Siria, e in particolare Alì, giornalista curdo, ha illustrato la storia di un popolo senza patria che lottato in nome dei principi morali democratici dell’Occidente, ma non ha ancora ottenuto il riconoscimento dei propri diritti.

Il popolo curdo ricorda per certi versi l’esperienza dei soldati coloniali africani durante le guerre mondiali; popolazioni coinvolte in un conflitto scatenato dall’Occidente, che vengono chiamate a combattere in nome di una libertà che a loro non verrà mai riconosciuta.

Alì esprime il suo risentimento anche verso la società occidentale in persona; gli Stati Uniti d’America, i quali si sono serviti dei curdi come di un’arma efficace, abbandonata sul campo una volta terminato il lavoro.

Quando gli americani hanno prontamente smantellato i loro accampamenti e sono tornati in patria, i curdi si sono ritrovati soli sul campo di battaglia, stretti  nella morsa dell’Iran, dell’Arabia Saudita, e della Turchia di Erdoğan che minaccia continue operazioni anti-curdi.

Non c’è dubbio che, se lo scopo di Adib Fateh Alì è quello di dare voce ad un popolo, quello di Corrado Formigli è di raccontare il campo di battaglia. Il conduttore di “Piazzapulita” ci parla della sua esperienza di reporter di guerra e della responsabilità che ha questo tipo di giornalismo nel raccontare un conflitto. Nell’era social, la violenza viene banalizzata e ridicolizzata, lo schermo di un computer contribuisce a filtrarne la crudezza e a privarla del suo significato.
Questi nuovi mezzi di diffusione di massa, si sono rivelati strumenti di propaganda estremamente efficaci per l’ISIS. Se l’obiettivo dei combattenti islamici è quello di infuocare gli animi dei più giovani, i social network hanno accorciato le distanze e facilitato indottrinamento e reclutamento, dando vita, in molti casi, al fenomeno dei foreign fighters.

Formigli cerca invece, nel suo lavoro, di restare fedele al racconto profondo degli orrori del fronte, chiaramente spinto da una passione personale tale, che ha sconfitto ogni remora verso la prima linea. I suoi racconti degli anni passati a seguire il conflitto contro lo Stato Islamico lo hanno avvicinato alla realtà locale grazie al continuo confronto con la popolazione. Con l’aiuto di Alì, Corrado Formigli ha più volte seguito i combattenti della resistenza curda, ed è stato il primo giornalista italiano ad entrare a Kobane.

Il confronto con i due giornalisti e con Leopoldo Nuti, professore di Storia delle Relazioni Internazionali, si è concluso con un’aspra previsione futura nei confronti del popolo curdo e della situazione mediorientale in generale. Il pessimismo di Alì in particolare è figlio di un senso di delusione nei confronti delle “potenze democratiche dell’Occidente”, che sbandierano i loro valori liberali, per poi tradirli l’attimo dopo in nome dei propri interessi.

La discussione termina definitivamente con un ultimo exploit di Formigli, in pieno stile “dibattito di Piazzapulita”, che ci ricorda come l’ipocrisia europea abbia alimentato un pensiero comune molto più vicino a quello di Erdoğan piuttosto che ai valori occidentali. Ciò che dovrebbe risvegliare le nostre coscienze è che questo pensiero comune, che sta pericolosamente infettando l’Italia, è forse l’unica cosa che dovremmo preoccuparci di tenere fuori dai nostri confini.

Benedetta Agrillo

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