Samuel Maoz (1962) tornò a Venezia nel 2017 dopo esser stato il vincitore del Leone d’Oro per Lebanon nel 2009, aggiudicandosi il Gran Premio della Giuria col suo Foxtrot. In questo secondo film ritorna il contesto dell’esercito, rielaborato totalmente sotto il segno della tradizione yiddish e quel determinismo spirituale che accompagna la narrativa ebraica novecentesca.
I Feldman sono una coppia benestante dell’Israele odierno o almeno di quel lato moderno e ateo del paese che pensa di essersi lasciato alle spalle le credenze delle precedenti generazioni.
Un giorno, i coniugi ricevono la notizia della morte del figlio Jonathan (Yonaton Shiray), soldato posto ad un posto di blocco nel settore Nord, dove nulla passa fuorché cammelli o visitatori usciti da una pièce di Beckett.
Il fatto è che ad essere morto non è loro figlio ma un omonimo: cosa di poco conto per il destino e il divino imperscrutabile del film, pronto a vendicarsi del passato di Feldman padre tramite il figlio.
Maoz costruisce il suo film in tre atti con tre differenti livelli di stilizzazione ma è proprio questo il punto che nuoce al film ed espone le debolezze della struttura.
S’inizia con una prima parte da romanzo novecentesco: la caratterizzazione della famiglia e soprattutto del padre, Michael (Lior Ashknenazi), riesce compiutamente, con la descrizione di un ambiente opprimente e castrante in cui s’insinua la pedanteria di parenti e militari nel far elaborare il lutto.
Inoltre, il personaggio della nonna ricorda moltissimo quelle figure genitoriali ebraiche e dominanti già riscontrabili in certe pagine di Svevo, nella biografia di Saba o nei soggetti di Woody Allen, anche se qui si vira verso il tragico.
Maoz è un regista di atmosfere: gli spazi dell’appartamento di casa Feldman fanno da cornice perfetta per gli sbalzi d’umore e di dolore della famiglia. Il problema si mostra nella seconda parte, quando si tratta di raccordare gli interni della casa con l’avamposto a nord dove Jonathan controlla una strada deserta con i suoi compagni.
Il piccolo gruppo, si potrebbe dire, aspetta Godot incastrato in quell’angolo di nulla come la Winnie di Giorni felici: qui siamo vicini a Beckett e l’astrazione vuole raggiungere l’assurdo con i dialoghi letterari che parlano, in maniera didascalica, della lotta di quel piccolo plotone contro l’ignoto e le comparse improbabili dei muti personaggi nelle macchine fermate per controlli.
C’è una frizione di stile che crea uno stacco profondo tra questo atto e il precedente e se si può ammirare la fotografia che coglie l’ampiezza del deserto o i dettagli degli interni della postazione, non si può non pensare che questi personaggi avrebbero potuto tranquillamente costituire una trama a parte in un altro film.
Il collante tra le varie parti è un fatto di contenuto: il foxtrot è un ballo che fa sempre ritornare al punto di partenza, la colpa d’infanzia del padre Michael colpisce lui attraverso il figlio e aumenta il peso di un oltraggio alla famiglia e alla tradizione, dovuto alla vendita di un’antica Bibbia per avere una rivista di pin-up.
Si aggiunga poi il fatto che Jonathan diventi omicida ed il fatto di aver stroncato vite innocenti vada a braccetto con lo shock che il padre, con la sua vendita, ha causato alla nonna, mai più ripresasi dall’infelice transazione, ormai un marchio per la sessualità colpevole del figlio.
Un simile determinismo spirituale va a braccetto con un’ironia sadica che esprime il volere della divinità cui nulla sfugge e sfrutta elementi (o creature, in questo caso) inaspettati per compiere la sua giustizia.
Ciò che è irrisolto nel film è un fatto di stile: i contenuti non hanno trovato la giusta forma per esprimersi.