Coi registi cinefili si ha sempre il pericolo che il gusto della citazione possa atrofizzare la struttura del film così come l’impatto emotivo. Senza un metabolismo forte che possa dominare il vizio del rimando si ha indubbiamente un esercizio sterile di erudizione in immagini, non certo un film che possa sostenersi con le sue sole forze.
Scarface (1983) di Brian De Palma ha avuto la forza di imprimersi nell’immaginario collettivo, perfino definendo la cultura estetica di chi si identificava con il protagonista Tony Montana (Al Pacino).
Howard Hawks ed il suo originale Scarface del ‘32 sono riscritti partendo non da un’origine italiana del personaggio principale ma cubana; dall’enfasi sulla sua natura bestiale, di arricchito violento che trova il suo riflesso nel kitsch della sua villa, oscillante tra il barocco ed il neoclassico ispirato a Pompei (creata dalla mano di Ferdinando Scarfiotti).
Tutto è stridore in questo Scarface dove De Palma si espone totalmente come regista dell’eccitazione, “sotto steroidi”, che vuole testarsi fino in fondo prima di trovare l’equilibrio (pur sempre eccitato) di Carlito’s Way (1993), lontano da quell’esercizio freddo di cinefilia che era Gli intoccabili (1987).
Il melodramma inghiotte i protagonisti, questo è vero, ma non senza far riferimento alla soap opera e ai tempi in cui fu creato: questo è un film che appartiene profondamente agli anni ‘80, non soltanto per un fatto di spazi o musica (composta da Giorgio Moroder, di cui si vuole ricordare il tema Bolivia).
Si può dire che la diffidenza della critica per Scarface sia più dovuta ad un rifiuto di certe parti della trama che non dello stile. Il Morandini, infatti, parlava a suo tempo di un sostegno del film “tra la giovane critica”, probabilmente perché questa era più abituata ad un’estetica del violento senza mediazioni. Questa constatazione si potrebbe estendere perfettamente al pubblico che non di rado rimuove la ridondanza dei dialoghi di Oliver Stone e l’elemento incestuoso del personaggio per ammirarne la scalata al potere e far proprio il motto di Tony: The world is yours.
Questo problema però ci pone di fronte ad un’incomprensione diffusa nei confronti dell’intento del regista: De Palma è un moralista, con una sensibilità non diversa da certi medievali che dovevano descrivere con fattezze grottesche le creature maligne così da imprimerle nella mente del pubblico.
Ciò non toglie che la pietà sia presente in questo film e spetti non alla polizia (come osservato da Roberto Nepoti) ma ad Elvira (Michelle Pfeiffer), che certo non è modello di rettitudine, fare un rendiconto dell’ascesa di Tony Montana.
La caduta del gangster si compie sul piano dei sentimenti: lui non ha sangue freddo e lo si vede in maniera lampante (quasi esilarante per il gusto delle sequenze) quando si fissa sulla sorella Gina (Mary Elizabeth Mastrantonio) con il sottofondo musicale crescente, portando noi spettatori del 2020 a Kill Bill di Tarantino che deve aver imparato da certe scene: il suono del trigger combinato allo zoom ci riporta a Beatrix che ricorda i suoi aguzzini prima di elaborare il suo piano.
Non resta nulla a questo sicario e trafficante cubano se non uno standoff sanguinoso verso la fine, inghiottito in una struttura cinematografica di genere da cui non c’è uscita e che lo consegna alla memoria.