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Draghinomics: come cambia l’Italia con la Dottrina Draghi

Sono passati alcuni giorni dall’insediamento effettivo del Governo Draghi e possiamo cominciare a  tirare le prime conclusioni. 

Molti di noi, appassionati di politica, erano incollati agli schermi da giorni, seguendo gli  aggiornamenti di una crisi di governo inaspettata, innescata quasi un mese prima da Matteo Renzi,  con il ritiro delle ministre del suo partito, Italia Viva, che non trovava sbocchi. Erano i giorni del mandato esplorativo al Presidente della Camera Roberto Fico, una personalità che si considerava in grado di coniugare le sensibilità sia del M5S che del centro sinistra, i giorni di un  serrato tavolo di confronto programmatico a cui sedevano i delegati di tutti i partiti che avevano  sostenuto l’esperienza del decaduto Governo Conte II. 

Spiazzando tutti, ma forse non troppo, quella stessa sera Renzi comunicò unilateralmente il  fallimento di quel tavolo e nelle ore successive il Presidente della Repubblica annunciò la  convocazione di colui che già da tempo era il convitato di pietra del dibattito politico-istituzionale:  Mario Draghi. 

Sono seguiti giorni di festa e giravolte, nei quali tutti, o quasi, si sono affrettati a salire sul carro di  Mario, il salvatore della Patria, l’uomo della provvidenza.  

Giorni nei quali ci raccontavano di quanto Draghi fosse eccelso anche nel bere il caffè la mattina e  Matteo Salvini, quello delle felpe “No Euro”, si dichiarava europeista e pronto ad appoggiare  l’esecutivo. 

Dopo un ennesimo giro di consultazioni, questa volta di extra-lusso, considerando la presenza del  redivivo cavaliere Silvio Berlusconi e del garante-guru del M5S Beppe Grillo, è nato il Governo  Draghi. 

L’esecutivo guidato dall’ex presidente della BCE nasceva, secondo le indicazioni stesse del  Presidente Mattarella, per essere il governo dei migliori, costituito da personalità di altissimo  profilo. Nella realtà si è trattato di un chiaro disegno politico, più che di un tentativo di unità  nazionale, con l’obiettivo di separare i settori strategici del Paese dalle questioni di dibattito politico, equilibrando tale operazione con lottizzazione partitica dei posti governo. 

Questo non è solo il governo di Mario Draghi, è la Draghinomics. 

Innanzitutto partiamo con il segnalare come in 18 ministeri su 23 siano di stanza personalità di  provenienza settentrionale. In particolare, tutti i ministeri strategici, quelli economici in primis, sono in mano a figure provenienti dal Nord Italia. 

Assistiamo quindi ad un palese ricambio di classe dirigente e conseguente riassestamento di focus e metodologia d’azione, soprattutto riguardo ai meridionalissimi governi Conte, nonostante la  presenza della Lega nel primo. 

Ma non si tratta solamente di una questione geografica, le prerogative più importanti sono infatti  assegnati a personalità che possiamo definire organiche ad un deep state italiano. Dove per Deep  State non andiamo a corroborare strampalate teorie del complotto d’oltreoceano, ma identifichiamo  l’alta amministrazione e gli apparati economici, industriali e militari italiani. Un tentativo quello di Draghi, che visto da una certa prospettiva, rappresenterebbe anche un  passaggio obbligato nella storia di tutte le nazioni che aspirano ad essere di più e configurarsi come  potenze. L’allineamento fra apparati e decisori politici, l’organicità dello stato, sono elementi tipici  delle potenze, ma non è questa la sede d’analisi opportuna per un discorso che presenterebbe mille  questioni opposte. 

L’intervento di Draghi ha portato inoltre una riforma istituzionale de facto, nella quale il Ministero  dell’Economia e delle Finanze diventa un’appendice esecutiva della presidenza del Consiglio stesso,  manovra favorita sia dall’expertise di Mario Draghi, sia dalla collocazione al vertice del MEF dell’ex membro del suo board alla BCE: Daniele Franco. 

Non è un caso, infatti, che qualsiasi questione economica, Recovery Plan inclusa,venga percepita  come materia personale di Draghi. Semplicemente è davvero così. 

Proviamo a tracciare, al netto di queste considerazioni, delle linee guida di una Draghinomics, una  dottrina Draghi. 

Innanzitutto un riassestamento istituzionale, su di un modello esecutivo-aziendale di strong  governance, che vede la questione economica appannaggio principale e diretto del vertice  dell’istituzione, Draghi stesso in questo caso, nella veste di una sorta di Amministratore Delegato o  Chief Director. 

A seguire: un tentativo, molto all’americana, di coinvolgimento degli apparati nelle questioni  strategiche del paese, sganciandole dai condizionamenti di politica interna. 

La tecnicizzazione della Giustizia, nella persona di Marta Cartabia, l’affidamento della questione  energetica ad un altro tecnico, proveniente da uno dei principali centro di potere in Italia: la  Leonardo, azienda partecipata dallo Stato impegnata nell’industria militare e aerospaziale.  Ancora la gestione dell’emergenza Covid affidata ad un’appartenente dei vertici Militari, il generale  Figliuolo (al posto del silurato Domenico Arcuri) ed il posizinamento dell’ex capo della polizia  Franco Gabrielli al vertice dell’Intelligence.  

Tutto ciò accompagnato da altri interventi più velati, come la nomina di Giancarlo Giorgetti al  Ministero dello Sviluppo Economico, sulla carta in quota lega, nella realtà uomo dei Palazzi, vicino  alla classe industriale e di gradimento bipartisan, oppure il caso del Ministero della Pubblica  Amministrazione, ufficialmente affidato ad una personalità politica (Renato Brunetta, quota Forza  Italia), ma de facto iper-tecnicizzato, nominando Marcella Panucci, ex numero uno di  Confindustria, come Capo di Gabinetto e Carlo Cottarelli come consulente. 

La Draghinomics è questo: verticizzazione della questione economica, trasformando il sistema di  governance economica in un modello simile al board di un’azienda o di una banca, coinvolgimento  degli apparati e dell’alta amministrazione nei settori strategici del Paese ed infine un riassestamento  del focus nazionale verso l’area settentrionale, che ama definirsi “mitteleuropea” e sostanzialmente  interna alla catena del valore tedesca (alla fine in qualche modo i soldi del Recovery Fund  dovevamo restituirli).

Lorenzo Giardinetti

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C’è pace all’inferno: perché secondo Kant il conflitto israelo-palestinese è tutt’altro che finito

Era “The Deal of the Century”: Trump lo diceva, e nessuno gli credeva.
Tanto declamato fin dalla campagna elettorale, annunciato dal senior advisor Kushner a
Manama, capitale del Bahrain, un anno fa, ora, nuovamente in tempo di elezioni, sembra più reale
che mai.
Il piano di “the Donald” per risolvere il decennale conflitto tra Israele e il popolo palestinese a
colpi di sussidi economici, abbandonata ogni velleità politica, aveva bisogno di una sola cosa
per prendere il volo: un accordo con le altre nazioni arabe. Quanto si sta delineando proprio in
questi giorni.
Una strategia che si rifa apparentemente a quella tradizione filosofico-politica di cui Kant
è illustre esponente, che vede nell’interconnessione delle economie la precondizione della
concordia globale.
Dietro le apparenze, tuttavia, covano i germi di una nuova fase di un conflitto che è ben lungi
dall’essersi concluso.

Accordi del secolo
In principio fu il “patto del secolo”, annunciato fin dalla campagna elettorale per le presidenziali
2016 e più volte evocato, sempre nel mistero, da Trump e dal suo entourage. Un’idea, per
molto tempo, un astratto disegno strategico che sembrava anche stentare a decollare, data
la repulsione del popolo palestinese per un compromesso che offre soldi in cambio della
sostanziale rinuncia ad uno Stato palestinese, e dato l’attaccamento ad interessi iperpersonali
manifestato dalle varie potenze mediorientali che si affacciano sull’abisso palestinese.
Nello specifico, il progetto (per quel che ci è dato sapere) è quello di dedicare corposi
investimenti economici alle aree abitate dai palestinesi e de facto controllate da Israele dal
1967, così da risolverne i problemi più pressanti (le condizioni di vita degli abitanti di quei
territori, già tragiche e se possibile in peggioramento) e da promuovere uno sviluppo economico
e sociale della zona.
Per conoscere gli aspetti politici della strategia, invece, abbiamo imparato già da più di un anno
a interpretare gli indizi lasciati dalle mosse geopolitiche dell’America di Trump in Medio Oriente,
mosse solo all’apparenza casuali e frammentarie.
Ultima delle quali è una trattativa con gli Emirati Arabi Uniti e con il Bahrain che ha portato ad
un’intesa tra i due Paesi arabi e Israele, sotti l’egida statunitense: l'”Accordo di Abramo”, con il
quale le potenze arabe (quasi sicuramente dirette dall’Arabia Saudita) riconoscono ufficialmente
lo “Stato degli ebrei”. E sanciscono una traslazione delle priorità: dalla lotta arabo-israeliana alla
lotta arabo-iraniana.
Un piano, quello trumpiano, che ruota intorno ad uno dei più ambigui ed importanti principi
sanciti prima della e con la nascita di Israele: già presente tra le righe della Dichiarazione di
Balfour, ripreso nella Dichiarazione di Indipendenza del ’48 e fissato nei cardini della Legge
fondamentale approvata nel luglio 2018. Quel principio che sancisce che l’autonomia, cioè il
riconoscimento della dignità di soggetto morale, di Stato, è in Israele propria del solo popolo
ebraico. Ai palestinesi è concessa la condizione di minoranza governata dalla sovranità
israeliana.
È questo il principio che la strategia di Trump riconosce.
È questo il principio che l’assenso dei due Paesi arabi ratifica.
È questo il principio che i palestinesi (che assistono in questi giorni alla storica riappacificazione
delle due “guide”, Hamas e Fatah, in nome della causa anti-israeliana) rifiutano.

Garanzie per la pace
Il pensiero non nasce come i funghi. Altrettanto i pensatori.
Quando parliamo di Kant dobbiamo riferirci ad una stagione precisa della riflessione
filosofico-politica europea: un’epoca contraddistinta dall’esigenza di giustificare l’assetto
politico esistente e immaginarne i possibili sviluppi futuri.
Il punto di partenza, per molti di questi pensatori, tra cui Kant, è la concezione archetipica della
guerra nella storia e nella natura umane. Guerra che, in “Per la pace perpetua”, Kant descrive
come lo strumento di cui la natura si serve, nell’ambito della teleologia della specie umana, per
popolare di esseri umani la terra in ogni angolo. Guerra che, per il filosofo, è connaturata nel
soggetto umano, così come in altri scritti kantiani lo è il male, detto appunto radicale, radicato.
Assunto questo dato, era diffusa comvinzione, al tempo di Kant, che il commercio stesse
intessendo una rete di relazioni tra gli Stati, estesa quasi a livello globale, tale da risultare come
l’immagine di un complesso di interdipendenze che legavano ciascun soggetto politico agli altri
ed al sistema tutto.
Su una base economica, insomma, si stringono gli accordi di collaborazione tra nazioni e tra
popoli.
Per il filosofo prussiano lo “spirito del commercio” è ciò che garantisce, secondo natura,
la necessità della concordia tra entità morali, gli Stati, tanto distanti per culture quanto
fastidiosamente vicini per spazi occupati su un medesimo globo finito.
L’interesse egoistico spingerebbe gli Stati ad accordarsi, fornendo una condizione fondamentale
per la pace, così come, in un momento antecedente nella storia dell’umanità, aveva spinto gli
individui a riunirsi in una organizzazione statale.
Insomma, sembra che “The Deal” sia stato scritto da Kant. Perché, allora, dovremmo essere
lontani dal raggiungimento di una “pace perpetua” tra Israele e palestinesi?

Kant e Abramo
Si danno delle condizioni, nello scritto kantiano, preliminari “per la pace perpetua tra gli Stati”.
Esse devono essere rispettate da ciascuno di essi nei confronti di ciascun altro, a partire dal suo
vicino più prossimo e potenzialmente più ostile.
Due sono, in particolare, quelle trascurate nel “patto” a stelle e strisce: si dà la possibilità di una
pace solo tra Stati che si riconoscono reciprocamente come tali, cioè come enti morali cui deve
accordarsi il rispetto. Fondamentale è, infatti, l’autonomia dello Stato in quanto soggetto morale,
riconosciuta dall’avversario anche in guerra (se così non fosse, non si darebbe alcuna possibilità
di una pace duratura, ma solo di una tregua).
La seconda condizione, legata a quest’ultimo aspetto, impone che uno Stato terzo possa
intervenire nelle vicende interne di un’altra entità politica solo nel momento in cui questa si sia
già divisa in due realtà politico-morali distinte.
Se la seconda condizione è stata violata fin dal momento della creazione dello Stato di Israele,
ed ancora prima con la promessa dell’impegno inglese nei confronti della sua fondazione,
attraverso un’operazione geopolitica arbitraria, la prima è formalmente preclusa dalla
“costituzione” stessa di Israele, che non può riconoscere nel suo “spazio vitale” entità statali altre
da sé.
Intanto, una dichiarazione ONU ha stabilito ormai un anno fa che il territorio della Striscia di Gaza
sarebbe stato da considerare invivibile già nell’anno in corso. E ancora nessuna pandemia s’era
abbattuta sul mondo.
Forse, il “patto” trumpiano, vista l’impossibilità allo stato attuale dei fatti di assicurare una pace
duratura alla regione, sta giocando sulla volontaria ambiguità insita nel concetto kantiano: cerca
la pace, sì, ma quella eterna dei morti.

Lorenzo Ianiro

Guerra fredda in terre calde: orientarsi oggi nel caos del Medio Oriente

Il fumo si alza scuro sopra i cieli di Beirut. Il 4 agosto, il carico di nitrato di ammonio sequestrato
ad una nave russa (e probabilmente diretto a gruppi terroristici) e conservato nel porto della
capitale libanese da 6 anni è esploso. Mietendo un centinaio di vittime e radendo al suolo il
porto, centro nevralgico di una città e di uno Stato altamente dipendenti dalle importazioni.
Giornalisti e interpreti internazionali concordano nell’affermare che non si è trattato di un
attentato, ma di un incidente: e ciò stupisce in un’area di mondo in cui è difficile ammettere
il ruolo del caso. Tuttavia, sebbene non si tratti di una nuova Siria o di un nuovo Yemen, la
questione libanese emersa alle cronache per via del boato dell’esplosione affonda nel caos
mediorientale, che nella Siria e nello Yemen, annosi focolai di guerra, ha due casi di studio
esemplificativi del contesto, e rischia di sprofondarvi.
È nella geopolitica di quell’area di mondo- il Medio Oriente- in cui i vuoti di potere spesso
generano poteri vuoti (da sostenere attraverso la stampella di una burocrazia corrotta, come le
manifestazioni di piazza in Libano denunciavano in autunno) che si radica una rivalità profonda:
quella tra Arabia Saudita e Iran, che combattono una “guerra per procura” tra lo Yemen e la Siria,
e fino in Tunisia, Marocco e Libia. Ragionando a partire dai popoli, e non dai confini, cioè secondo
una prospettiva imperiale.
Ciò che accade in Libano in questi giorni dev’essere, perciò, letto dallo storico attraverso una
lente geopolitica ed una filosofica; così, egli può sperare di risalire dalla particolarità del caso

Beirut alla situazione del contesto regionale, aggiungendo un nuovo elemento a quella che viene-
troppo facilmente- liquidata come una piccola Guerra Fredda su diversa latitudine.

Guerre calde
Il 2011 è ricordato come l’anno delle Primavere arabe: movimenti di protesta, anti-monarchici e
filo-democratici, che scossero molti dei regimi del Medio Oriente e del Nord Africa. Era la piazza
che si raccoglieva per chiedere una riforma. Meglio ancora: era una parte della società civile,
composta e articolata a diversi livelli, che si mobilitava per tentare di alterare gli equilibri politici
e spesso anche istituzionali del proprio Paese.
Quasi ovunque, nella nazioni interessate, ciò significò la guerra civile.
In Siria, i primi colpi furono sparati per ordine di Assad, Presidente “ereditario” contestato
dalla popolazione come autocrate, e la protesta assunse i tratti della rivoluzione: si costituì
l’Esercito Siriano Libero, formato da truppe dell’esercito regolare, civili e militanti jihadisti, le cui
file andarono ingrossandosi in seguito alla decisione del regime di aprire le prigioni. In questo
modo, pensava Assad, le altre potenze dell’area- leggi l’Arabia Saudita- e i grandi osservatori
internazionali- leggi gli USA- avrebbero avuto non poche difficoltà nel sostenere la protesta
senza finanziare i “terroristi”.
La rilevanza della Siria nella regione rende il conflitto locale immediatamente internazionale:
l’Iran accorse a sostegno dell’autocrate e, per un gioco di pesi e contrappesi, l’Arabia Saudita,
in testa alle monarchie del Golfo, iniziò a finanziare la rivolta. Ma non intervenne direttamente,
bensì sfruttando gli attori di volta in volta coinvolti nello scontro: i ribelli e le milizie estremiste;
la Turchia che mira a indebolire Assad; la Giordania, intervenuta dopo la discesa in campo di
Hezbollah (una milizia di ispirazione khomeinista emersa dalla stagione delle guerre in Libano,
una trentina di anni addietro).
Con l’ingresso di Hezbollah nel conflitto, si rafforzava l’apporto dell’Iran nella guerra. È proprio
Hezbollah, inoltre, ad aver convinto il regime libanese a calarsi nel caos siriano, a sostegno di
Assad in funzione filo-iraniana: è l’inizio di una diaspora vastissima verso un Paese- il Libano,
appunto- il cui debito pubblico era in aumento vertiginoso, e la cui moneta vacillava insieme
all’apparato bancario, cuore dell’economia. La genesi della crisi economica in cui ancora versa
Beirut.

Il quadro del conflitto va tenuto presente anche quando, considerando i suoi sviluppi, si osserva
il coinvolgimento di attori del peso degli Stati Uniti d’America, intervenuti nel 2013 a sostegno
dei ribelli dopo la denuncia dell’impiego, da parte di Assad, di armi chimiche contro i civili, e della
Russia, formalmente in campo contro l’ISIS, più precisamente in funzione di supporto ad Assad.
USA e Russia hanno certo determinato importanti sviluppi del conflitto, ma non ne sono i
promotori nè i due principali contendenti: lo dimostra l’ambigua situazione in cui si è ritrovata
l’America. Da una parte a sostenere i curdi nel Nord della Siria in funzione anti-ISIS, dall’altra ad
appoggiare in funzione anti-Assad Erdogan, che sembra però più interessato ad eliminare la
minaccia di un Kurdistan a cavallo di Turchia, Iraq e Siria. In un vortice che ha assorbito molto
denaro alla presidenza Obama.
Tuttavia, l’annunciato disinteressamento degli USA di Trump nei confronti della questione
siriana, ha impoverito la posizione saudita, che arretra: ne è testimonianza il vertice di Ankara
dello scorso settembre, tra una Turchia sempre più filo-russa ed un Iran sempre più vessato
dall’Occidente americano, sotto l’egida di Putin, sempre più occidentale nel suo progetto zarista.
È chiaro: la discesa in campo di Stati Uniti e Russia ha spostato i pesi sui piatti della bilancia. Ciò,
però, non deve confonderci circa le origini della disputa.

Guerra fredda
La guerra civile siriana ha uno stretto legame con un altro, forse ancora più atroce, conflitto,
apertamente esploso nel 2015: quello in Yemen tra i sostenitori del vecchio Presidente Saleh
(gli Houti) e i sostenitori di Hadi, suo successore alla presidenza. I primi, finanziati dall’Iran,
tentavano di rovesciare Hadi, nuovo campione dello status quo e perciò gradito alla monarchia
saudita.
Tanto la guerra siriana quanto la guerra yemenita condividono la natura di conflitti locali che
manifestano la più vasta disputa tra il mantenimento e la ridefinizione dello status quo del Medio
Oriente.
Come in Iraq negli anni ’80, ciò che è in gioco in questi Paesi sono gli equilibri di potere
determinatisi in seguito alla disgregazione dell’Impero ottomano nell’area, da cui sorgeranno,
dalle ceneri di antiche e antichissime egemonie, il Regno dell’Arabia Saudita, nel 1932, e l’Iran
moderno, prima occidentalizzato, poi riformato dall’ayatollah Khomeini in una Repubblica
islamica.
È su queste due entità politiche che si impernia la geopolitica mediorientale: ora propensa a
conservare un assetto politico definito, cioè ad accomodarsi sui desideri sauditi, ora disposta a
trasformarsi drasticamente, spinta dalle ambizioni iraniane.
Sebbene sia riduttiva questa divisione dei fronti, dal momento che per ogni caso particolare i
due grandi attori geopolitici mediorientali rintracciano le proprie convenienze e sottolineano i
propri timori, non si tratta di puro manicheismo: è dalla rivoluzione khomeinista in Iran, infatti,
che trasformò lo Stato in un regime popolare islamico anti-occidentale e sacralizzato, che Iran e
Arabia Saudita si contendono la guida del mondo musulmano.
Almeno, in età contemporanea.
Senza risalire all’epoca subito successiva all’età dei Quattro Califfi, seguita alla morte di
Maometto, possiamo riconoscere in questa regione continue tendenze alla riconfigurazione
geopolitica, determinate dal raccoglimento della leadership da parte di attori differenti, ciascuno
con la sua forza politica, cioè con la sua posizione straregica nel territorio. Così, gli Omayyadi
della penisola araba hanno trionfato e poi ceduto il posto agli Abbasidi persiani, prima che i
Turchi ottomani ne raccogliessero l’eredità per farne un impero.
È uno schema, quello della conquista del ruolo di guida della popolazione musulmana, che opera
sulla base del principio secondo il quale, in Geopolitica, “il vuoto non esiste” (Lucio Caracciolo),
ed è solo lo spazio che viene occupato da chi riesce ad affermare il proprio potere: così, mentre
l’Arabia Saudita si considerava, anche in virtù della presenza nel proprio territorio di Medina e della Mecca, il faro del popolo musulmano in Medio Oriente, risorgeva negli anni ’80 uno Stato
dichiaratamente islamico, guidato da un predicatore ostile alle monarchie secolarizzate, figlie del
demonio occidentale, con ambizioni di leadership sul resto del mondo islamico.
Siria, Yemen, Iraq, Afghanistan, Libia, Bahrein, Tunisia, Marocco (e in un futuro non troppo
impensabile anche il Libano) sono opportunità, per ciascuno dei due Paesi, per affermare il
proprio ruolo, in attesa di un passo falso da parte dell’avversario. Una “guerra per procura”, che a
molti ricorda la “nostra” Guerra Fredda.
Ma Iran e Arabia Saudita non ambiscono al controllo del mondo, bensì del Medio Oriente.
Tener presente questo punto ci consente di leggere la rivalità tra i due Stati-imperiali senza i
fraintendimenti derivanti dall’adozione di categorie della Storia europea.

Cosa accade in Medio Oriente?
I sostenitori dell’interpretazione che legge il rapporto Iran-Arabia Saudita come una “Guerra
fredda” mediorientale si avvalgono, spesso, della divisione in seno all’Islam tra Sunniti e Sciiti,
e fa delle due famiglie religiose altrettante fazioni, ciascuna portatrice di interessi strategici.
Come una sorta di riproposizione del conflitto silenzioso tra USA e URSS nel mondo del secondo
dopoguerra.
Cedendo a questa interpretazione, però, si dimentica che quasi ovunque la convivenza tra
sunniti e sciiti è stata felice, e che i fedeli islamici si riconoscono come parte di una medesima
confessione: un popolo che ha nella religione il fondamento della propria identità.
Perciò, se vogliamo parlare di un conflitto tra due poli in Medio Oriente, dobbiamo rintracciare
altrove il piano di scontro.
In Europa, al termine della II Guerra mondiale, si affermarono come contrapposti due diversi
modelli politici: quello americano e quello sovietico, ciascuno dei quali ambiva ad espandere il
raggio della propria influenza sui Paesi lambiti dalla guerra e, poi, interclusa la via dell’Europa,
ad indebolire l’avversario attaccandolo ovunque esso avesse interessi nel mondo. Ben presto,
divenne una guerra di logoramento, e l’URSS ne fu sconfitta.
Ma, a ben guardare, la “nostra” guerra fredda fu uno scontro tra opposte configurazioni
economico-sociali: il Liberalismo e il Comunismo; obiettivo era la conquista, ideologica e
territoriale, dell'”egemonia” in società varie, storicamente dissimili, secondo un paradigma
tanto più efficace quanto più esteso, ma senza l’eliminazione dell’avversario o un suo eccessivo
rafforzamento. Egemonia è, infatti, il concetto gramsciano che dirige la contesa tra le parti in un
sistema democratico, dove la vittoria di una delle due non è definitivo annichilimento dell’altra.
Ciò significa che il mondo del Liberalismo trionfante, il mondo post-Guerra fredda, non può non
tener conto del concetto di eguaglianza sociale, cardine del Comunismo, se vuole conservare
l’egemonia: perché una libertà priva di eguaglianza nelle possibilità è una libertà di pochi, dunque
un’astrazione e un’ipocrisia. Che conduce alla vittoria dei populismi, che invece fanno di una certa
uguaglianza il proprio credo.
Non è, quella descritta, una situazione traducibile in Medio Oriente: il motivo è che il modello
politico di riferimento, qui, è quello della teocrazia, per il quale vi è un’autorità indiscutibile,
legittima in virtù del suo potere naturale, intorno alla quale la comunità si raccoglie a prescindere
dai confini nazionali. Il potere, in questo caso, non va conquistato, ma stabilito come principio
ordinatore di una popolazione politicamente disgregata, ma socialmente coesa.
Si tratta di affermarsi come guida di una comunità transnazionale, proseguendo la tradizione di
un’area di mondo in cui gli imperi, sepolti nella sabbia, non hanno mai smesso di esistere.

Lorenzo Ianiro

Medio Oriente: Interessi e Ruolo della Russia in Siria

La situazione attuale: 

In occasione del meeting per l’accordo sulla stabilizzazione dell’area siriana di Idlib, svoltosi a Mosca il 5 marzo scorso alla presenza del Presidente russo Vladimir Putin e del Presidente turco Recep Erdogan, la principale questione affrontata è stata quella di una de-escalation della violenza nel territorio.

L’accordo ha previsto il cessate il fuoco a partire dalla mezzanotte del 6 marzo scorso, ed è stato predisposto l’inizio di un pattugliamento congiunto turco-russo su di un’area di 30 chilometri a partire dal 15 marzo. Nello specifico si tratta del controllo dell’autostrada M4 di fondamentale importanza strategica che collega l’Iraq con la regione siriana di Latakia, attraversando la città di Aleppo e lungo la quale vi sorge la base aerea russa di Hmeimim. Dal 10 marzo i russi avrebbero già iniziato a sorvolare il distretto di Idlib con droni in via di osservazione.

Nell’testo dell’Accordo, i due capi di stato hanno riaffermato l’importanza del rispetto della sovranità, indipendenza e integrità territoriale dello stato siriano, sostengono la lotta al terrorismo come stabilito dalla risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite del 2015, affermando inoltre che non sarà possibile una soluzione del conflitto attraverso l’utilizzo di armamenti.

La guerra civile siriana è attualmente una delle più gravi al mondo, dove il conflitto, che ormai è in atto da quasi un decennio, ha causato la morte di più di mezzo milione di civili, spingendo milioni di persone a fuggire dal loro paese cercando di oltrepassare il vicino confine greco – turco. Quello siriano è un territorio dove i conflitti interni ormai si sono fortemente incancreniti, e gli interessi internazionali (per questo la si può ritenere una guerra per procura) hanno favorito il prolungamento di una guerra crudele che ha visto nella popolazione civile la principale vittima sacrificale. 

Sono molti i tentativi intrapresi ormai da anni per cercare di favorire una stabilizzazione, o una riduzione della violenza. A settembre dello scorso anno, l’ONU è riuscita, non senza difficoltà, a costituire un comitato per l’elaborazione di una nuova costituzione per il Paese sotto la guida dell’inviato Geir Pedersen e a cui la Russia partecipa congiuntamente ad altri 150 Paesi. 

Altro importante elemento in questo senso è il Formato di Astana del dicembre 2016 attraverso il quale Russia, Turchia e Iran si accordarono per favorire una de-escalation della violenza, nel rispetto di quanto stabilito dalla risoluzione delle Nazioni Unite precedentemente menzionata. Il Formato portò alla suddivisione del territorio siriano in 4 zone, 2 per ognuno dei due fronti nemici ossia il regime di Damasco contro quello ribelle. Nonostante ciò, è importante ricordare che in questa occasione non furono coinvolte le milizie per l’Unità di Protezione del Popolo (YPG) comprendenti anche i Curdi che ormai, in seguito al ritiro degli Stati Uniti, si sono ritrovati completamente soli nella lotta al terrorismo, ma anche nel doversi difendere da un lato dagli attacchi turchi, essendo accusati di essere un gruppo terroristico, e dall’altro dal regime di Assad che non ne riconosce la legittimità. In questo senso, proprio su spinta di Putin, il governo di Damasco, allo scopo di frenare l’avanzata turca, ha proposto un accordo di tregua proprio con i Curdi, a condizione che questi dichiarino, quindi, apertamente di opporsi agli Stati Uniti, in cambio di protezione dagli attacchi di Ankara.

Ma quali sono gli interessi che hanno spinto Mosca a ricoprire un ruolo così rilevante in un territorio come quello siriano? Perché Putin si è fatto promotore della creazione di un’immagine della Russia come di una mediatrice tra le parti a favore di una pace per Damasco?

Sin dagli anni ‘70 del secolo scorso, l’allora Unione Sovietica ha influito negli affari siriani. Durante gli anni della Guerra Fredda la Siria ebbe sempre un approccio filo sovietico, sin dalla rivoluzione Ba’athista degli anni ‘60 e che vide nell’URSS il naturale alleato a cui appoggiarsi contro l’imperialismo occidentale e i sostenitori di Israele. Questo legame si intensificò sempre più arrivando anche alla stipula di un accordo di amicizia negli anni ‘80. Andropov, l’allora segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, riteneva che la Siria fosse l’ultimo baluardo contro gli Stati Uniti in Medio Oriente e per questo si fece carico, in quegli anni, di grandi finanziamenti a Damasco oltre al rifornimento di armamenti, garantendole un sostegno non indifferente. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la Siria risultò fortemente indebitata con l’alleato russo, ma, nonostante ciò, Mosca ritenne opportuno l’annullamento del 70% del debito acquisito, grazie una delibera del governo nel 2005.

Ma i motivi che legano la Russia alla Siria e che ne hanno spinto l’intervento nel conflitto nel 2015, non sono da ricondurre esclusivamente a questioni del passato di tipo ideologico, infatti, nel 1971, venne accordata la concessione di una base navale nelle acque siriane, la base Tartus, unico sbocco navale sul Mediterraneo per Mosca e per questo strategicamente di grande importanza, e ancora attualmente in suo possesso grazie ad un accordo siglato nel 2017, che ne prevede una concessione per altri 49 anni.

A ciò si aggiunge che la Siria è il 3° acquirente di armi dalla Russia, rappresentando circa il 10% di tutte le esportazioni russe di armi e quindi di non indifferente rilevanza per l’economia del Cremlino.

Infine, in questo scenario il settore energetico riveste sicuramente un ruolo fondamentale. Quelli stipulati tra Russia e Siria sono accordi di lungo termine per l’esplorazione e sfruttamento di gas naturale. A livello energetico la posizione siriana è strategica trovandosi proprio come territorio di transito verso la Turchia e di conseguenza verso l’Unione europea e avere uno stretto legame con essa permette di poter influire sul mercato energetico siriano, ma anche di avere una posizione di osservatore su tutto il mercato energetico mediorientale diretto a Occidente.

L’attuale strategia di Mosca nelle relazioni internazionali:

La Russia si è posta l’obiettivo di voler riguadagnare un ruolo di rilevanza nelle dinamiche geopolitiche globali perse proprio successivamente al collasso dell’URSS. La dura situazione economica in cui si trovava  dopo il 1991 e che addirittura la portò nel 1998 a dichiarare default, la fecero ritirare dalla sua posizione tra gli attori preminenti. Oggi la Russia, che è in lenta ripresa economica già a partire dal 2000, non ha interesse a ricreare la situazione bipolare del passato, bensì Mosca comprende come le relazioni internazionali siano profondamente cambiate e dove nuovi attori si sono affacciati nello scenario globale favorendo lo sviluppo di un multipolarismo.

La Federazione Russa sta puntando a favorire un dialogo positivo proprio con queste nuove figure come ad esempio con la Cina, ma anche con stati dalle più ridotte dimensioni, come nell’America centrale e nell’America del Sud, ma anche con l’Africa e, per l’appunto, con il Medio Oriente. La Russia intende quindi creare un fronte multipolare in cui potersi ritagliare un ruolo non di egemone, bensì di mediatore a favore di un dialogo costruttivo, allo scopo di arginare l’influenza statunitense e di evitare di trovarsi nuovamente isolata dalle questioni internazionali. Per Mosca una situazione di equilibrio in Medio Oriente è di fondamentale importanza dato che ciò garantisce alle potenze dell’area di potersi contrapporre all’influenza statunitense.

La Siria in questo contesto  è un esempio di questa strategia. Il sostegno al regime di Damasco, in collaborazione anche con l’Iran, è di fondamentale importanza per favorire l’influenza nell’area. 

Inoltre la Russia, che sin dal 2014 è stata fortemente isolata a livello internazionale a causa dell’invasione della Crimea, azione considerata illegittima dal fronte occidentale, ha trovato nell’intervento in Siria una via per uscire da questo isolamento: spingere per una de-escalation della violenza a favore del ritorno alla pace nell’area è un tema che l’Occidente non può che sostenere positivamente.

Resta da chiedersi quanto la strategia offensiva di Ankara non destabilizzi il dialogo trilaterale costruito su spinta di Mosca con Teheran per favorire la stabilizzazione in Siria. Inoltre, quanto questa situazione pone il Cremlino in una posizione scomoda nel cercare di mantenere il suo ruolo di mediatore non potendo rinunciare a un alleato strategico (forse poi non tanto alleato), e rendendola, per questo, complice?

Quando l’intervento di questi attori esterni alla Siria potrà portare alla conclusione di un conflitto dove contrasti etnici, di religione e sociali si confondono con gli interessi internazionali?Proprio a causa di ciò gli obiettivi principali, ossia quello della lotta al terrorismo e la protezione dei civili, rischiano di passare in secondo piano, oscurati da disaccordi tra le parti che, invece di sostenersi a vicenda, favoriscono propria l’inarrestabile riversamento dei siriani nei campi profughi, nonché la ripresa del fronte jihadista che, con tanta difficoltà e tante perdite, si cerca di contrastare.

Arianna Muro Pes

SITOGRAFIA:

Minatori oppressi nell’Africa del Sud

Nella campagna circostante l’area di Newcastle, una città situata nella regione KwaZulu-Natal in Sud-Africa, un ragazzo di 15 anni è in procinto di andare a pascolare il gregge. All’improvviso un gruppo di uomini, una folata di vento, ed ecco che il suo udito percepisce il nome di un uomo e una frase ben distinta: “Deve morire”. Riconosce subito il nome di quell’uomo, il suo nome è Lucky S., uno dei più noti attivisti dell’area contro le aziende minerarie. Preso da un senso di spaesamento corre a casa mentre quelle parole rimbombano sempre più forti nella sua testa. Arrivato a casa, consapevole della gravità di ciò che aveva sentito avverte la madre. Il telefono sta squillando. Lucky S. risponde. Dall’altra parte della cornetta una donna lo avverte che è in pericolo di vita, qualcuno ha intenzione di ucciderlo. Come era successo ad altri attivisti nelle altre regioni del Sud Africa sapeva che quel momento sarebbe arrivato.

I proprietari delle grandi aziende minerarie cercano di mettere le mani sul grande tesoro nascosto nel sottosuolo del paese africano. Tra i primi paesi con la più grande riserva di carbone e metalli; ben l’80% delle riserve di platino mondiali sono nascoste in questo territorio. Lo scontro di interessi con gli abitanti autoctoni delle varie comunità sorge nel momento in cui le diverse attività minerarie mettono in grave pericolo l’ecosistema, la tradizione, il sostentamento e la sopravvivenza delle stesse comunità. Oltre all’impatto ambientale, gli attivisti locali protestano contro le condizioni lavorative invivibili e i bassi salari dei minatori.

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Il governo non si è mai soffermato troppo sugli effetti collaterali di queste attività sull’intera popolazione considerando solamente il suo impatto sullo sviluppo economico del paese. Gli attivisti così si trovano ad affrontare non solo le potenti multinazionali, ma il loro stesso governo che ostacola il loro diritto di espressione e di assemblea attraverso stratagemmi burocratici senza alcun fondamento legale o attraverso l’uso coercitivo per mezzo delle forze di polizia. Come riportato da alcuni leader di protesta di varie zone del paese, spesso i municipi hanno fatto richiesta di permessi specifici o addirittura hanno esercitato la capacità di proibire manifestazioni in casi assolutamente non specificati dalla legge. Allo stesso modo l’intervento della polizia per disperdere le manifestazioni è stato richiesto più volte in casi non previsti, la legge sud-africana ne prevede l’intervento solo in casi di estrema necessità o pericolo.

L’impatto delle attività minerarie è davvero così devastante? Alcuni dati riportano chiaramente l’effetto negativo delle miniere sull’aria, il terreno, le risorse d’acqua e i campi arabili, essenziali per il sostentamento delle famiglie rurali della zona. In uno studio del 2014 il Council for Scientific and Industrial Research ha esaminato l’acqua del fiume Olfants River, le cui acque scorrono in molte zone minerarie, trovando un eccesso di antimonio, arsenico, mercurio e uranio. Tutti elementi che, se in eccesso, sono altamente tossici per l’uomo e l’organismo marino. Difatti questo fiume è considerato tra i più inquinati d’Africa, ma per molte comunità è una risorsa idrica essenziale. La qualità dell’aria viene compromessa dalla polvere prodotta dalle miniere, senza contare l’impatto sul suolo, la South African Policy on Food and Nutrition, in uno studio dal 1994 al 2009, ha constatato che l’aumento del numero di miniere è inversamente proporzionale alla percentuale di terreni utilizzabili per la produzione di cibo, un declino del 30%. Tutto ciò senza considerare l’impatto sui lavoratori, in cui viene riscontrata una crescita di malattie come la silicosi o la tubercolosi o il suo impatto sociale dato che molte famiglie devono allontanarsi dalle proprie case in cerca di nuovi terreni arabili e l’aumento di casi di HIV.

Nel secolo precedente il governo aveva varato una legge per tutelare le comunità autoctone locali e le loro proprietà terriere. Nel 1996 venne firmata “Interim Protection of Informal Land Rights Act” una legge con la quale veniva stabilito l’obbligo della maggioranza di una comunità situata in un determinato territorio per consentire ad eventuali aziende minerarie il diritto di proprietà. Nel 2002 un’altra legge, il “Mineral and Petroleum Resources Development Act”, permise al governo di rilasciare concessioni edili senza alcun bisogno di una maggioranza comunitaria. Questa convivenza di leggi contraddittorie creò disordine e confusione. La Corte Nazionale in due occasioni ha specificato come per alcuni territori la prima legge prevalga sulla seconda. Sfortunatamente per colpa dell’esagerata corruzione e per la mancanza di trasparenza, i leader di alcune comunità hanno acconsentito alla costruzione di miniere senza la consultazione della propria comunità di appartenenza.

In questo caos legislativo e sociale, i protestanti subiscono violenze, minacce di morte e perdono la vita per salvaguardare il loro diritto di espressione, il diritto di assemblea e il diritto a manifestare. I leader di queste organizzazioni di protesta sono costretti a scappare dalle loro comunità o a dormire ogni giorno in una casa diversa per non essere arrestati. Gli attivisti vengono picchiati a sangue, incarcerati, ridicolizzati davanti la loro stessa comunità. Il governo è completamente assente e la giustizia non ha nessun effetto in un sistema tanto marcio. Questo clima di paura pian piano sta avvilendo coloro che credono in un paese che può e deve lottare per i propri diritti. Nell’Agosto del 2016 in quello che viene ricordato come il massacro di Marikana, 17 lavoratori furono uccisi da colpi da arma da fuoco, a distanza di 3 anni nessun poliziotto fu indagato per quell’atto brutale. Vite sono state bruciate, ma con loro non morirà il loro canto di protesta.

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In una giornata di sole in Sud Africa, un lavoratore maltrattato e sottopagato marcia con i propri compagni in nome dei propri diritti. All’improvviso appare un gruppo di uomini armati, poliziotti venuti per disperdere la manifestazione. Ma con quale diritto? Una folata di vento e quella sensazione di paura che ti paralizza, il corteo si fa improvvisamente silenzioso. Gli occhi dei suoi compagni si cercano a vicenda. Poi una frase: “Sparate a questi cani”. Corre, corre cercando di essere più veloce dei proiettili di gomma, davanti a lui vede un uomo a terra colpito alla testa dal un proiettile di gomma. Il sangue circonda il capo. Non può fermarsi, non ora, non oggi, non senza aver visto il suo paese e i suoi lavoratori liberi dalle vecchie oppressioni di una storia già vista.

Oscar Raimondi


foto con poliziotti ap/lapresse, foto con protestanti reuters