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Parasite

L’ultimo film di Bong Joon-ho è una commedia tragica giocata totalmente su un virtuosismo senza sbavature, un’attenzione (ovvero un amore) quasi autistica per le simmetrie, segno definitivo della sua matrice orientale (sudcoreana), che fa da contenitore senza soffocare la storia. 

Ci si dimentica presto di essere in Asia, una volta che il ritmo di Parasite prende il volo con un piccolo pretesto che scatena un’autentica infiltrazione ed infezione nei piani alti. Si potrebbe perfettamente essere in Brasile o una qualsiasi città europea dove i villini degli altolocati stridano violentemente con le bidonville appena dietro l’angolo.

Min-hyuk chiede all’amico Ki-woo di sostituirlo come professore privato di inglese della figlia dei ricchi Park: il ragazzo sfrutta l’occasione per trovare un posto a tutta la famiglia, con cui condivide uno scantinato fatiscente e conduce una vita da ratto.

I quattro “parassiti” (padre, madre e i due figli, fratello e sorella) spodestano i predecessori assumendo rispettivamente i ruoli di autista, governante, insegnante di inglese e infine di “terapista artistica” per l’ultimogenito dei datori di lavoro, la cui ingenuità fa al caso loro.

Fortuna vuole che Parasite non spinga fino in fondo la contrapposizione tra i ceti perdendo la lucidità analitica: non ci sono lati da prendere in questa lotta che non è nemmeno tra classi ma tra poveri che cercano un Padrone, senza volere ucciderlo.

La prima parte del film ci fa entrare nella villa dei Park con un ritmo da commedia anni ‘40 inarrestabile ma proprio questa si rivela poco dopo una copertura per un thriller sociologico, in cui l’esattezza delle intuizioni si affina con l’aiuto del sadismo e (verso il finale), della comprensione senza pietismo.

In questo film premiato col Golden Globe e in odore di Oscar, tutto è giocato sull’opposizione e basterebbero già gli interni moderni di villa Park in contrasto con il bunker dalle luci livide (idea fissa del cinema coreano diffusa grazie ad Oldboy) per rendere l’assetto filosofico del film.

La lotta dei protagonisti è, per la maggior parte, solo “in orizzontale”: non c’è mai una rivendicazione violenta in senso politico verso i ceti superiori, semmai nel senso della dignità. Le caste sono protette: possono cambiare i volti che le rappresentano ma non possono essere di per sé abolite.

Tutto è logorato dal consumo in questo film, perfino l’immagine ed il ricordo dei nativi americani che tanto entusiasmano il piccolo di casa Park. Non ci può essere riferimento più profondo e sottile al concetto del Progresso che schiaccia le culture, figurarsi poi una famiglia sudcoreana che vive in uno scantinato e lascia le finestre aperte al tanfo dell’insetticida per avere una disinfestazione gratis.

Film pessimista? Al massimo, un film lucido che non sceglie l’impostura del lieto fine e rifiuta i manicheismi del film politico a tesi, che noi europei abbiamo logorato nell’arco degli anni ‘70.

Non c’è nulla di improvvisato in Parasite, nessuna pedanteria in sceneggiatura come quelle che avevano rovinato anni fa l’adattamento del fumetto Snowpiercer, diretto dallo stesso regista. La scioltezza del tono evita la gravità gratuita dell’intellettualismo e lo rende godibile in massimo grado.

 

Antonio Canzoniere

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