La scelta di campo di Isao Takahata (1935-2018) all’interno dello studio Ghibli è stata precisa quanto quella del co-fondatore Miyazaki, di certo più ristretta ma non meno coerente.
È stato circa quarant’anni fa che il Giappone è diventato lo scenario definitivo per i suoi film ma solo dal 1988 questi sembrano darsi una disposizione da struttura modulare: infatti si può perfettamente parlare di “dittico slice-of-life” per Pioggia di ricordi (1991) e I miei vicini Yamada (1999) così come di “trilogia dei vinti” per Una tomba per le lucciole (1988), Pom Poko (1994) e La storia della principessa splendente (2013).
Nel confronto tra i due capisaldi del mondo Ghibli, appare evidente quanto Miyazaki abbia scelto, per sua predisposizione e desiderio di un incontro-scontro diretto, di assorbire spunti occidentali e mischiarli con il patrimonio perlopiù shintoista.
Il buddhismo, che ha avuto così larga parte nella vita giapponese e scandito la vita della campagna, ha fatto semmai incursione con le preghiere della nonna di Totoro (1988) durante la ricerca della protagonista Mei; anni dopo avrebbe fatto da sostrato archetipico e psicologico per il protagonisti del Castello errante di Howl (2004), come analizzato perfettamente da Dianne Hradsky nel suo blog (https://dhradsky.wordpress.com/).
Takahata non ha sottoposto questo culto a filtri altrettanto forti: il Giappone popolare a cui è così legato, perfino nella resa storica, lo ha portato a rendere quella religiosità con una fedeltà più serrata.
Per iniziare a trattare la trilogia dei vinti, si deve avere in mente questo sostrato religioso, così come il dolore che il mondo o la Storia vuole far subire ai protagonisti: li si vedrà subito risaltati per contrasto come statue di marmo con dietro il buio della nicchia.
In Una tomba per lucciole, la seconda guerra mondiale distrugge infanzie che non potranno affacciarsi all’età adulta; alla principessa splendente sono negati amore ed esperienza; agli animali guerrieri di Pom Poko non è dato di sopravvivere al progresso.
Tutti i Poteri delle loro storie potrebbero perfettamente sconfiggerli (riuscendoci) ma non fanno mai dir loro che la lotta sia inutile a priori, che tutto sia vanità. Vessati, loro non vogliono rinunciare alla vita: il mondo e gli affetti non sono un’illusione. Che la richieda il Buddha o la Storia, la rinuncia non è gradita.
Stavolta non si parlerà che di Pom Poko (1994), dei suoi tanuki goliardici e solari, abili nel trasformismo e dallo scroto estendibile. Queste creature del folklore giapponese, simili ai cani procioni, si ritrovano con le spalle al muro quando la Nuova Tokyo comincia a farsi spazio tra le montagne di Tama.
All’inizio dell’era Heisei (1989-2019), i tanuki decidono di fare resistenza agli umani unendosi nella lotta. Non bastano però la violenza di Gonta, gli insegnamenti di Oroku “palla di fuoco”, il raziocinio di Shoukichi o l’aiuto dei tre patriarchi chiamati in soccorso.
Non c’è scelta che accettare la sconfitta e vivere da umani se capaci di trasformismo. Gli altri rimarranno indietro o nell’ombra.
Questa storia eccentrica e briosa è a suo modo il racconto di una guerra con dei combattenti che non conoscono la crudeltà e nei cui confronti i personaggi de La gang del bosco (2006) sembrano avere parecchi debiti.
Se in Italia “sono sparite le lucciole” (Pasolini), Takahata afferma che in Giappone sono scomparsi i tanuki. Non è difficile vedere in loro i giapponesi provinciali prima dell’occidentalizzazione ma il filtro del regista smussa al punto giusto questa corrispondenza con l’umorismo dei tanuki, che fa più pensare ai romani di Luigi Magni in Nell’anno del signore (1969): la bontà è una disgrazia per chi vuole sopravvivere e loro concorderebbero perfettamente col Cornacchia di Nino Manfredi quando dice “Maledetto er core e chi ce l’ha”.
Non è tanto un appello ambientalista quello di Takahata ma piuttosto un desiderio di vita semplice, piaceri piccoli, di festa spontanea e canto pronto a scandire i momenti minimi della vita, come accadeva nelle poesie popolari perfino da noi, nel Mediterraneo antico.
Aiuta in questo senso il fraseggio fluido ed elegante che è dato ai tanuki in sceneggiatura, che sceglie le parole giuste nei botta e risposta amorosi, nella sentenziosità raffinata delle riunioni che li fa percepire immersi in un altro tempo, come se oltre il loro bosco ci fossero ancora gli shogun. L’adattamento in italiano di Cannarsi rende bene il flusso del giapponese originale.
Lo stile di Takahata, qui lo si vede bene, ha la concisione grafica e l’asciuttezza cromatica che fa subito pensare alla prosa della favola. Il lirismo è nelle pieghe del racconto, nell’attenzione al quotidiano dei protagonisti cui non resta che il sogno e la simulazione collettiva del loro bosco verso il finale.
Nota di pregio è la mutevolezza del disegno dei tanuki, che va da una resa realistica a due gradi di stilizzazione, per non contare l’esattezza delle loro rispettive versioni umane.
È bello pensare che il racconto Futago no hoshi di Kenji Miyazawa abbia stimolato a tal punto, per questo film, il brio e la vena elegiaca di Takahata.