Archivi tag: Governo

Provaci ancora Prof!

Quello che Rocky Balboa, le canzoni rap e la storia della Sinistra italiana hanno insegnato a molte generazioni di ragazzi è che, nella vita, l’importante non è tanto cadere quanto avere la forza di rialzarsi. Non si può negare che l’impatto di queste tre importanti variabili del mondo moderno abbia plasmato le menti e l’attitudine di molti adolescenti. Eppure, in un piccolo paesino in provincia di Foggia, molti anni fa, un piccolo bambino cresceva spensierato senza il supporto di Sylvester Stallone, né alcun personaggio della scena rap, né tantomeno la Sinistra italiana. Quel piccolo bambino di Volturara Appura, anche senza queste figure di riferimento, è riuscito a crescere professionalmente e caratterialmente, con in testa l’idea che quando si fallisce, l’unica cosa possibile è rimboccarsi le maniche e ritentare ancora, nella speranza di fare meglio. Quel piccolo bambino, oggi, è il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana, Giuseppi Conte. Continua a leggere

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Il Governo di Schrödinger

Il cinquantacinquesimo compleanno di Giuseppe Conte non è stato uno di quei giorni che passano inosservati e anonimi, destinati a finire nel dimenticatoio con tante altre feste noiose e prive di particolarità. Il compleanno del Presidente del Consiglio quest’anno tutto è stato fuorché privo di emozioni. Proprio l’8 agosto si è trovato costretto in conferenza stampa ad annunciare l’apertura della crisi di governo, dopo due lunghi colloqui con il vice-presidente Matteo Salvini, il quale ha dichiarato chiaro e tondo di non voler continuare l’esperienza di governo con il Movimento Cinque Stelle. L’intenzione del Ministro dell’Interno, dalle parole del premier, è quella di capitalizzare un consenso di cui la Lega gode al momento. Per tal motivo, l’idea del leghista sarebbe di far crollare il governo per andare ad elezioni il prima possibile e prendere le redini dell’esecutivo, scalzando fuori il Movimento, a tutt’ora in forte crisi interna con il proprio elettorato. Continua a leggere

Aluminij: un’agonia che dura da più di 20 anni

Il 9 luglio 2019 dopo 44 anni di attività ha chiuso la fabbrica Aluminij a Mostar. Il “gigante dell’Erzegovina”, nome che si era legittimamente affibbiato, è solo uno dei tanti esempi di fallimenti dopo la guerra degli anni ’90 nei paesi che un tempo componevano l’ex-Iugoslavia.

Ma cos’era l’Aluminij? Si trattava della più grossa industria di produzione dell’alluminio nella regione balcanica che dal 1975, anno della sua fondazione, è riuscita non solo a imporsi a livello locale creando un’enorme rete di cooperazione con diverse aziende, cooperative e fabbriche minori e non, come il cantiere navale di Ploče o come la storica compagnia Jedinstvo, ma anche a livello internazionale, siglando partnership ad esempio con la Chrysler tedesca, la Fiat italiana e l’Hydro ASA norvegese.
Un colosso del genere come ha fatto allora a fallire? La risposta è semplice ed è benissimo riassunta da un modo di dire Serbo-Croato: “Balkanska Posla” (tradotto significa “Business balcanico”). Questo “business” fa riferimento alla malagestione tipica dei governi post-socialisti e degli imprenditori che hanno acquisito le fabbriche. Nel caso specifico dell’Aluminij si riferisce alle polemiche che i governi croato e bosniaco hanno creato attorno alla fabbrica, accusandosi a vicenda di aver sabotato il suo corretto funzionamento. Prima di analizzare nello specifico quali sono queste accuse e quali sono i fatti dietro ad esse, bisogna precisare che l’azienda è detenuta per il 44% dal Governo bosniaco, per un altro 44% dai lavoratori ed ex-lavoratori e per un 12% dal Governo croato, secondo l’accordo siglato nel 2007 dai due paesi coinvolti.
Da una parte, quindi, abbiamo il Governo bosniaco che accusa quello croato di sfruttare il partito locale che rappresenta i croati, l’HDZ (Hrvatska Demokratska Zajednica, Unione Democratica Croata) per assumere solo lavoratori di etnia croata e in questo modo incrementare la percentuale reale di proprietà dell’azienda. Dall’altra parte abbiamo il Governo croato e i diversi partiti che rappresentano i croati in Bosnia che accusano il Governo bosniaco di sabotare volutamente l’azienda per forzare l’assunzione di ulteriori lavoratori di etnia “bosgnacca” (fede islamica) ma anche per costringere la Croazia ad accettare una revisione dell’accordo che permetta la completa cessione dell’azienda alla Bosnia.

Alla fine, le accuse di entrambi sono veritiere, perché l’HDZ sfrutta realmente i suoi agganci politici per far assumere solo croati nell’Aluminij, tanto che anche l’Amnesty International in un suo report ha confermato la presenza di soli lavoratori croati, accusando lo stesso partito e l’azienda di compiere di fatto una “pulizia etnica”. Il Governo bosniaco, invece, aumenta in modo spropositato i costi dell’elettricità all’Aluminij quando la Bosnia è un paese che ha un elevato export di energia elettrica. L’azienda diventa un mezzo tramite il quale i due governi regolano i conti tra di loro per accordi che ritengono insoddisfacenti ma che sono stati siglati in presenza di supervisori internazionali.
Tutto ciò si ripercuote sui lavoratori, dove in questo caso 900 di loro si trova di punto in bianco senza lavoro. Se aggiungiamo a questo tipo di “gestione” anche gli accordi loschi che i governi siglano con figure ancora più losche, la gestione clientelare di certe aziende da parte dei partiti, il nepotismo che si instaura non solo in aziende private ma anche in quelle pubbliche, la vendita a prezzi bassissimi di interi assetti pubblici a profittatori di guerra nel pieno “dell’isteria di privatizzazione”, manovre segrete per falsificare i bilanci o debiti privati coperti dai conti pubblici e la mancanza di una reale volontà politica nel sostenere una rilancio effettivo dell’economia, ecco che si ha il quadro tragico di questi paesi.

Per 20 anni queste scelte hanno portato a un accumularsi di problemi che ora lentamente stanno uscendo allo scoperto, non facendo altro che rendere più lunga l’agonia per i cittadini. Per citare alcuni esempi: il fallimento dell’Agrokor, che costituiva un gigantesco impero economico al quale però il Governo croato falsificava il bilancio e nascondeva i debiti esponenziali che aveva accumulato il proprietario Todorić; il fallimento della catena “Kerum” dell’omonimo proprietario ed ex-sindaco di Spalato, dopo i debiti che lui stesso aveva accumulato giocando ad azzardo; la chiusura della storica azienda “Zastava” in Serbia per l’incapacità del Governo serbo di impedire alla Fiat di delocalizzare; la chiusura di interi cantieri navali come quello di Fiume o di Pola perché il Governo croato non aveva voluto pagare gli stipendi ai lavoratori preferendo invece aumentare il bilancio positivo dei conti pubblici; la chiusura della fabbrica di tabacco in Bosnia dopo che il Governo l’aveva venduta a un magnate bulgaro…

La cosa più tragica del caso Aluminij resta però il fatto che da questa azienda dipendessero migliaia di altre aziende minori o cooperative e che ora, con il fallimento, i 900 lavoratori rischiano di diventare decine di migliaia e che rischia di ripercuotersi anche al di fuori del confine della Bosnia, andando a colpire ad esempio, il cantiere navale di Ploće in Croazia che già rischia un calo del 50% di attività. Una tragedia causata da polemiche nazionaliste tra governi miopi e sordi che continuano a sostenersi tramite una rete clientelare.

Una tragedia che rischia soltanto di aggravarsi col tempo, perché anche davanti a questi disastri i governi preferiscono continuare a polemizzare, anziché riflettere su piani per una ripresa economica effettiva.

Andrea Zamboni Radić

Sanità for Dummies: Cosa ci dice Pizzuti?

“È ancora austerità!” Così tuona Felice Roberto Pizzuti, professore ordinario e direttore del master in Economia Pubblica alla Sapienza, davanti a diverse e importanti figure istituzionali come il Presidente della Camera Roberto Fico, il Presidente dell’INPS Raffaele Tridico e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Ma a cosa si riferisce Pizzuti? Beh, il titolo dell’articolo già risponde a questa domanda: alla sanità. Pizzuti nella presentazione annuale sullo Stato Sociale porta un rapporto di 500 pagine in cui affronta diversi argomenti, dal Reddito di Cittadinanza alla Quota 100, ma anche lo stato del nostro Sistema Sanitario Nazionale e su quest’ultimo si focalizza sul danno provocato dal welfare aziendale.

Prima di analizzare la critica del rapporto bisogna capire cos’è il welfare aziendale in generale e cos’è nello specifico per la sanità. Con welfare aziendale intendiamo l’insieme di piani e iniziative messi in atto dal datore di lavoro con l’obiettivo di migliorare il sentiment (opinione) del lavoratore. In termini teorici intendiamo il riconoscimento del valore del lavoratore (definito come capitale umano) nell’azienda, in termini pratici intendiamo una serie di servizi che migliorino la qualità lavorativa e di vita del lavoratore. Questi servizi possono essere sia per il singolo come sconti e promozioni, ma anche buoni per palestra, shopping ecc., oppure per la famiglia come buoni per l’istruzione, per l’asilo e anche per la sanità privata. Nel caso specifico della sanità parliamo di “buoni premio” che si aggiungono sul contratto dei lavoratori, ma che possono essere utilizzati solo in strutture sanitarie private e che sono generalmente detassati (ad esempio ipotizziamo che lo Stato prenda il 30% di tasse dalla paga del lavoratore, su questi buoni si ha una detassazione al 10% che ovviamente rende molto più appetibile il “buono” al lavoratore, guadagnando un 20% in più).

Proprio su quest’ultimo punto si imbastisce la critica di Pizzuti, il quale afferma nel rapporto che questo tipo di welfare aziendale toglie ogni anno ingenti risorse (stimate attorno ai 2 miliardi di euro) che potrebbero andare al Sistema Sanitario Nazionale, aggiungendo che questa scelta rientra in un piano più ampo in cui si cerca di orientare il lavoratore, incentivandolo, verso la sanità privata. A questa critica si oppongono in prima linea Confindustria e una parte dei sindacati confederali, dove entrambi affermano che è impossibile abolire questo contributo ai lavoratori senza incorrere nella loro ira, siccome proprio il lavoratore se dovesse scegliere 100 euro detassati al 10% da sfruttare nella sanità privata e 100 euro tassati al 30% sceglierebbe a occhi chiusi la prima condizione (n.d.r. dati citati come esempio da Confindustria). Il motivo per cui Confindustria si oppone ovviamente è dovuto proprio a una questione di “sentiment”, in quanto, come citato sopra, ottiene la fidelizzazione dei lavoratori, mentre una parte dei sindacati si oppone per il semplice motivo che se accettasse di abolire questi buoni sanitari rischierebbe di incontrare la dura opposizione dei lavoratori, molto spesso iscritti agli stessi sindacati. (Va sottolineato che queste posizioni non sono per niente oscure o nascoste, sono sempre esplicitate da entrambi i gruppi).

Ora qui arriva la questione centrale: chi ha ragione? Pizzuti o l’opposizione? Pizzuti ha innanzitutto ragione quando afferma tramite il rapporto che questo sistema contribuisca al definanziamento del Sistema Sanitario Nazionale e che rafforzi quello privato, ma bisogna comunque tener conto che le esigenze dei lavoratori si pongono come un ostacolo non indifferente. Il problema reale, comunque, è da ricercarsi su una particolare affermazione del rapporto, ovvero quella per cui questo farebbe parte di un piano sostenuto dai Governi a favore della sanità privata ed è qui che bisognerebbe affrontare la questione, se ci fosse una forza realmente interessata a cambiare questo, si riuscirebbe anche a intavolare una discussione in cui i lavoratori non si sentirebbero in perdita, ovviamente ad oggi, al di fuori delle associazioni, questo interesse non esiste.
Infine va segnalato che associazioni come “Dico32” e “Forum per il diritto alla Salute” hanno già proposto, prima ancora di questo rapporto, un’iniziativa di legge per affrontare il problema del welfare aziendale che magari affronteremo in un successivo articolo di “Sanità for Dummies”.

Andrea Zamboni Radić

Oligarchia, alleanze improvvise e tentativo di colpo di stato… cosa sta accadendo in Moldavia?

La Repubblica di Moldova in questi giorni sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia. Da anni questo paese è rappresentato dalla stampa internazionale come uno stato tra i più poveri d’Europa e alla mercé del leader del partito democratico (PDM) Vlad Plahotniuc. Questo personaggio detiene il potere (Corte Costituzionale, Procura, Polizia, Mass Media) grazie a una tecnica ad hoc: assicurarsi il potere tramite la minaccia esplicita di far muovere dossier compromettenti da parte degli organi di Giustizia, da lui stesso controllati, nei confronti di funzionari pubblici che detengono i posti chiave nell’amministrazione dello stato. Quindi gli stessi funzionari pubblici – e non – sono obbligati a subordinarsi ai suoi ordini, per non perdere il posto di lavoro e fare i conti con la giustizia.

Con questo metodo ha controllato il governo e la maggioranza del parlamento fino alle elezioni parlamentari del 24 Febbraio 2019, anche se fino a quel momento “ufficialmente” conosciuto come una persona esterna al processo politico. Così facendo ha esteso la sua influenza con la nomina di parenti stretti o persone fidate persino nella Corte Costituzionale (2018), nel Parlamento e in altre istituzioni di spicco tra cui i servizi segreti e l’organo abilitato all’anti-corruzione. Di fatto ha spianato la strada verso la conquista “legale” del potere, come leader del suo partito, tramite le elezioni parlamentari di febbraio di quest’anno.

Con le elezioni parlamentari del 24 febbraio si aggiudica un seggio al parlamento e il suo partito risulta essere al secondo posto con 30 seggi, dopo il Partito dei Socialisti della Moldova (PSRM) con 35 Seggi e la coalizione pro-europeista ACUM con 26 Seggi.  Dopo circa tre mesi da queste elezioni non si è giunti ad un accordo e quindi non si è creata la maggioranza parlamentare necessaria in grado di formare un governo. Fino all’8 giugno, quando è successo un fatto che ha sorpreso tutti.

Il partito socialista di Igor Dodon (che è anche il Presidente della Repubblica), insieme alla coalizione ACUM tra partiti di centrodestra europeisti e anticorruzione, guidati da Maia Sandu, sono riusciti a trovare un accordo per formare il governo. Questo è stato uno sviluppo inaspettato, perché sono due partiti di orientamenti completamente opposti, senza contare che tra i due leader c’è stata un’aspra competizione nel 2016, dopo che si sono sfidati alle presidenziali dove è risultato vincente Dodon di appena 80.000 voti, accusato dalla stessa Maia Sandu di aver diffuso notizie false e diffamanti sul suo conto e di aver usato i media filorussi nella campagna elettorale.
Hanno accettato di allearsi con l’unico scopo di escludere dal governo il partito di Vlad Plahotniuc, riuscendo ad ottenere così la maggioranza con 61 deputati su 101, la nomina di un nuovo Presidente del Parlamento e delle Commissioni Permanenti, la nomina di Maia Sandu come Primo Ministro e quindi di un nuovo esecutivo, come anche la nomina di nuovi funzionari per il Centro anti Corruzione ed altri. Questo incontro si è svolto in un modo molto spartano, poiché il segretario del Parlamento non si è presentato al lavoro. È stata tolta la luce intenzionalmente all’intera rete del Parlamento, senza contare che c’è stato anche un allarme bomba in precedenza dato dalle forze dell’ordine. Tutto questo solo per rallentare i lavori o fermarli completamente. A questo incontro anche i rappresentanti diplomatici hanno avuto difficoltà ad accedere alla struttura, come nel caso dell’ambasciatore Ue a Chisinau, Peter Michalko.

Russia, Unione Europea e Stati Uniti si sono espressi a favore della nuova coalizione già dall’incontro avvenuto a Chisinau lo scorso 3 giugno tra i principali rappresentati esteri, quando forse per la prima volta nella storia sono riusciti a trovare un’intesa sull’argomento.

Vlad Plahotniuc attualmente detiene il controllo della Corte Costituzionale e degli organi giuridici del paese, come il controllo della polizia e dei Mass Media, soprattutto tv. Tutti questi mezzi sono risultati vincenti per una mobilitazione di persone esortate a uscire e protestare, poiché le stesse persone mobilitate escono sotto la minaccia della perdita del lavoro o degli alloggi per gli studenti. Già da sabato sera le mobilitazioni erano effettive, poiché si vedevano già le prime tende installate davanti alle diverse istituzioni, dove il nuovo governo avrebbe dovuto cominciare il suo lavoro lunedì 10 Giugno. Da notare che la polizia (diversamente dal solito), non ha fatto resistenza rispetto ad altre proteste come quella di Petrenco di qualche anno fa davanti alla Procura Generale, o quella del 26 agosto 2018 dove ha immediatamente evacuato e arrestato i manifestanti, perfino gli stessi Maia Sandu e Andrei Nastase, leader della coalizione pro-europeista ACUM. Si evidenzia come i vari funzionari pubblici non si siano ancora subordinati agli ordini del nuovo governo, ma eseguono gli ordini del vecchio governo di Plahotniuc. Lo stesso Igor Dodon e Maia Sandu chiedono che ci sia una transizione pacifica dei poteri dello stato al nuovo governo.

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Il 9 giugno la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la plenaria del primo Parlamento e la formazione del governo di Maia Sandu del giorno precedente, una sentenza che è stata decretata in un modo sorprendentemente veloce. La stessa Corte ha investito l’ex Primo Ministro del governo di Plahotniuc, Pavel Filip, come Presidente della Repubblica, che a sua volta ha firmato il decreto per lo scioglimento immediato del Parlamento, stabilendo inoltre la data delle prossime elezioni anticipate per il 6 settembre, che è un venerdì e non una domenica come da prassi in Moldavia. Il nuovo governo di Maia Sandu e il Presidente della Repubblica Dodon hanno dichiarato a loro volta l’invalidità dell’investitura del Presidente Filip dalla Corte Costituzionale, poiché la stessa Corte è sotto l’influenza diretta di Vlad Plahotniuc, e quindi ogni decisione da essa presa sarebbe invalida. Su questa posizione è d’accordo l’intera comunità internazionale, tra cui fino ad oggi Unione Europea, Russia, Stati Uniti, Romania, che riconoscono il governo di Maia Sandu come quello legittimo, come lo stesso Presidente della Repubblica Igor Dodon e il Parlamento eletto il 24 febbraio 2019.

In questo giorno Vlad Plahotniuc ha mobilitato molte persone dall’intera Moldavia, sempre con le stesse minacce, ad una grande protesta nel centro della capitale partecipando egli stesso alla manifestazione (mai accaduto) e atteggiandosi da salvatore della patria e inneggiando ad una condanna ai traditori che hanno fatto la coalizione. Per la prima volta sono stati “lanciati” dei tacchini (alcuni vivi, alcuni morti) come atti intimidatori oltre la recinzione della sede del Palazzo del Presidente della Repubblica, soprattutto nei confronti del Presidente della Repubblica che è stato costretto a far ospitare la sua famiglia nell’ambasciata russa per precauzione. Il gesto è stato condannato da un’associazione animalista, ma che comunque pone molti interrogativi su un metodo che è usato principalmente da cosche e Mafia, non da rappresentanti di un partito.

I 61 Deputati che adesso detengono la maggioranza in Parlamento vengono minacciati continuamente già dalla formazione del nuovo governo, principalmente con dossier compromettenti nei loro confronti e dei loro familiari. Per il momento nessun atto intimidatorio così forte è stato fatto nei loro confronti o ai loro parenti, ma si attendono vicissitudini importanti nelle giornate a venire.

In questo momento storico la Moldavia chiede il sostegno di tutta la comunità internazionale, contro questo abuso verso i diritti umani e il tentativo di una minoranza di accaparrarsi il potere e attentare direttamente al sistema delle democrazie liberali.

Dan Munteanu


SITOGRAFIA