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Primo comandamento: non rimanere incinta

Prima che l’attenzione mediatica fosse totalmente fagocitata dal covid due notizie avevano particolarmente attirato la mia attenzione: la prima riguarda le dichiarazioni di Matteo Salvini sulle donne richiedenti aborto che, a suo dire, intasavano i pronto soccorsi, la seconda riguarda un breve articolo di Milena Gabbanelli per il Corriere della Sera che sparava dati a tutto spiano sull’incredibile aumento di richiesta di pillola del giorno dopo, farmaco richiesto sopratutto dalle giovanissime. In entrambi i casi nella notizia non c’era nessuna contestualizzazione, nessuna analisi sociale, solo dati. Da entrambi i lati con stili e modi diversi si punta il dito su chi una gravidanza non la vuole e ricorre a metodi dell’ ultimo momento per evitarlo, si punta il dito con la supponenza dell’adulto che dall’alto dell’età sa che non si dovrebbe arrivare a tanto e che la contraccezione è una cosa seria. Nessuna riflessione sul perché questo accada? I diversi media stimolano solo una colpevolizzazione strisciante o palese per la ragazza X (noi la chiameremo Maria) che è andata a comprare la pillola.

È facile sparare a zero su Maria, più difficile è interrogarsi seriamente sul perché di tutto ciò.

La risposta è semplice ed è da ricercare in ciò che viene inculcato a Maria fin dalla più tenera età: non restare incinta prima dei 30 anni o la tua vita sarà rovinata, non troverai lavoro, non ti laureerai, avrai difficoltà relazionali… Allora la ragazza di 16/18/22 anni che fa? Fa di tutto per non restare incinta pensando che quello possa essere l’unico problema serio che possa incidere sulla sua vita. Ma è più un problema avere un figlio o l’HIV? Ed ecco qua la domanda con cui non ci si confronta mai.

Se il problema della ragazza è avere un figlio non si preoccuperà più di tanto se deve ricorrere alla pillola del giorno dopo. La pillola risolve il problema, la butti giù e via, hai risolto, tua mamma non si incazza e non diventi lo zimbello del paese. Il primo comandamento trasmesso alle giovani italiane non dovrebbe essere: “non procreare!” ma “sii sana!”.

Delle malattie sessualmente trasmissibili invece in Italia non si parla mai: in famiglia è un tabù, la scuola non si assume questa responsabilità e la comunicazione istituzionale è prossima allo zero. Per quanto tempo vogliamo rimanere così ipocriti? Cosa ci si aspetta dalla diciottenne/ventenne in questione? Che non abbia rapporti sessuali? Che scelga un uomo anch’esso illibato e ci rimanga legata a vita? Magari la nonna di Maria a vent’anni aveva già due figli, ma non era certo tacciata di essere una poco di buono. Avere una vita sessuale è normale come dovrebbe essere normale essere pienamente informati su rischi che si corrono… e invece no: buona parte dei ragazzini non sa nulla. Poche informazioni ovattavate fintate per caso da film, libri, conversazioni a mezza bocca dai più grandi. Io stessa ho sentito un ragazzo di ventiquattr’anni, figlio di medici, chiedere con candore: “Ah ma con l’AIDS non si nasce?”  

In molti licei si fanno iniziative su qualunque cosa: la mafia, i tumori al seno, i tibetani, i minatori del Kosovo… ma raramente qualche professore si prende la briga di sfiorare lo spinoso argomento delle malattie sessualmente trasmissibili. Eppure queste esistono, sono in crescita e nella buona parte dei casi la trasmissione è eterosessuale.

Se si riuscisse ad educare correttamente i più giovani su quale è il vero rischio di un rapporto non protetto di certo si ridurrebbero anche le gravidanze non desiderate, ma non solo. L’informazione sulle modalità di contagio, la diagnosi, le manifestazioni delle diverse malattie garantirebbe una prevenzione diffusa ed eviterebbe anche di stigmatizzare il malati come ancora troppo spesso avviene.

Il malato, infatti, potresti essere tu, il tuo vicino di casa o Maria, la quale pensando che due giorni prima del ciclo non sarebbe mai potuta rimanere incinta o non sapendo che si poteva ammalare poiché convinta che HIV fosse una malattia congenita, africana o scomparsa da decenni adesso sarà per sempre malata. Sulla Maria di turno sarà sempre facile puntare il dito, perché è giovane, perché è rimasta incinta, perché è malata. Eppure la colpa non è sua, ma della società che l’ha lasciata ignorante, di quella società che però continuerà a darle della poco di buono.

Eleonora Ciocca

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Lontano dagli occhi, vicino al cuore: essere genitori e figli nella Roma di Paolo Di Paolo

“Un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente. Nessuno gli cede il posto, nessuno gli fa largo, nessuno suppone di doverlo proteggere, o compatire. Può uscire con una ragazza, bere con lei, fare il brillante: nulla, della sua attesa, sarà svelato. Può lui stesso, per qualche ora, dimenticare, e non sarà certo il corpo a ricordarglielo. Affamato, eccitato, stanco, però come sempre.
Se infine non si troverà lì – nei pochi lunghissimi istanti in cui, dal corpo della madre, verrà alla luce il figlio – niente potrà avvertirlo: non un presagio, un campanello, un dolore, un acquazzone, niente. Non resteranno segni addosso. Dovrà, per qualche via, essere raggiunto dalla notizia: svegliandosi nell’albergo lontano in cui è fuggito; o sentendo di perdere un battito, prigioniero di un mezzo di trasporto ormai in ritardo.”

Inizia così “Lontano dagli occhi”, il romanzo che Paolo Di Paolo ha presentato il 16 Novembre alla Libreria Nuova Europa – I Granai a Roma. La prosa brillante dello scrittore romano è letta da Francesca Gatto, mentre a dialogare con l’autore c’è Sabina Minardi, vicecaporedattore del settimanale L’Espresso. Continua a leggere