“L’assassinio va tentato, costi quel che costi. Anche se fallisse, dovremo entrare in azione a Berlino. Perché ora il fine pratico non ha più importanza; ciò che conta è che la resistenza tedesca giochi le sue carte di fronte al mondo e alla storia. Tutto il resto è secondario” (Henning Von Tresckow, 1900-1944) [1]
Molti sono i filmati che vedono un Adolf Hitler acclamato dalla folla, adorato dal suo popolo per averlo riscattato dalle umiliazioni subite, il suo nome urlato a gran voce nelle strade cittadine. Un intero paese ai suoi piedi, entusiasta. Tuttavia c’era chi al potere nazista si opponeva, silenziosamente. L’apparato repressivo metteva a tacere ogni tentativo di opposizione, ma non abbastanza da zittire tutti, e qualcuno riusciva a far sentire la sua voce. Un gruppo di cospiratori provenienti dalla classe aristocratica della più rispettabile tradizione prussiana scelse di opporsi con la violenza a un regime che sulla violenza si era costituito. Cosa spinse quegli ufficiali a cercare di uccidere Hitler, un’enormità per uomini la cui professione era sinonimo di ubbidienza e lealtà? A 75 anni dal più famoso attentato a Hitler, racconteremo la loro storia, e cercheremo di capirlo.

Claus Schenk von Stauffenberg, prima del 1944.
“In quanto aristocratici, pensavano di dover fare i conti con la colpa gravante sulla nazione che i loro avi avevano guidato”[2], così si diceva del gruppo di cospiratori, capeggiato dal colonnello Claus Von Stauffenberg. Egli non è facile da classificare sul piano politico, infatti come ricorda la sua vedova in un’intervista “i conservatori lo scambiavano per un nazista arrabbiato, i nazisti arrabbiati per un inguaribile conservatore. Non era né l’uno né l’altro”[3]. Tutto ciò che sappiamo senza alcun dubbio era la sua ferma volontà di togliere di mezzo il dittatore nazista. La sua delusione nei confronti di Hitler maturò più lentamente, ma fu particolarmente intensa.
Prima di analizzare le dinamiche dell’attentato del 20 luglio, le sue cause e le sue conseguenze, facciamo un breve sunto dei precedenti attentati a Hitler. Proposte concrete per assassinarlo furono suggerite per la prima volta durante il disastro di Stalingrado, nell’inverno del 1942. Sotto la guida del maresciallo Henning Von Tresckow fu messo in atto il primo tentativo, nel marzo 1943, quando una carica esplosiva fornita dall’ammiraglio Canaris fu collocata a bordo del quadrimotore di Hitler, tuttavia il detonatore, probabilmente a causa del freddo, non si azionò. Altri due attentati fallirono nello stesso anno, ma l’attività cospirativa ricevette nuovo impulso quando il colonnello Stauffenberg venne assegnato al quartier generale dell’Ersatzheer, l’esercito di riserva. Soltanto dalle file dell’esercito tedesco avrebbero potuto provenire eventuali cospiratori per rovesciare Hitler e il regime nazista. Solamente i suoi ufficiali potevano avvicinarsi così tanto a lui, ed essere in grado di controllare la sicurezza di un regime sostitutivo. I timidi piani per togliere di mezzo il dittatore erano tutti falliti a causa di incertezze o questioni di onore e obbedienza a quel punto ormai inappropriate. I cospiratori si trovavano tuttavia di fronte a numerosi ostacoli. I congiurati sapevano di rappresentare un’esigua minoranza che godeva di un trascurabile sostegno popolare. Il genere di governo che volevano istituire aveva peraltro più caratteristiche in comune con la Germania guglielmina che non con una moderna democrazia, sentivano tuttavia il dovere morale di contrapporsi alla criminalità del regime. Il problema più grosso era però di tipo pratico. Stauffenberg, divenuto capo effettivo del complotto, era l’unico in grado di piazzare la bomba, ma aveva perso una mano e un occhio in Tunisia, e ciò avrebbe costituito un notevole svantaggio al momento di innescare la carica esplosiva. L’attentato si intreccia anche con una questione di tempistiche, infatti il 6 giugno dello stesso anno, le forze alleate erano sbarcate in Normandia, e il piano dei cospiratori era trattare con gli Alleati prima che fosse troppo tardi, perché la loro idea, basata su presupposti che tuttavia non sarebbero mai stati accettati, era quella di firmare una pace separata a Ovest per continuare lo scontro ad Est contro l’Unione Sovietica. Poiché il tempo in Normandia stava per scadere, non avevano ormai che una sola, ultima chance, il 20 luglio.
L’assassinio di Hitler doveva coincidere con la mobilitazione dell’esercito di difesa nazionale contro SS e Partito Nazista, ai quali il delitto sarebbe stato imputato. Stauffenberg avrebbe dovuto recarsi a Berlino per la supervisione del colpo di stato. Peraltro, gli sarebbe occorsa la collaborazione di ufficiali di grado più elevato, in particolare del generale Fromm. In realtà, iniziato il putsch, Fromm si rifiutò di collaborare e consigliò a Stauffenberg di suicidarsi. Come Stauffenberg aveva supposto, gli ufficiali di grado più elevato erano quelli più inaffidabili, e molti erano contrari all’azione, ma come egli sosteneva “ancor peggio di fallire, sarebbe rassegnarsi senza lottare alla vergogna e alla schiavitù”. Costi quel che costi, la strada era segnata, e il tempo di agire era arrivato. Giunto in volo da Berlino alla Wolfsschanze, Stauffenberg prese parte alla riunione convocata da Hitler in una baracca di legno per fare il punto della situazione. Al momento opportuno, il colonnello sgusciò nel bagno con la sua borsa portadocumenti per armare le due bombe. Tornato nella stanza, spinse la borsa checonteneva una sola bomba – non riuscì per motivi di tempo, complice la sua unica mano, ad armare l’altra –innescata sotto il pesante tavolo a cui era seduto il dittatore. Mentre tutti coloro che si trovavano al tavolo si chinarono sulle carte, Stauffenberg uscì dal locale. Si stava allontanando in auto quando l’ordigno esplose. Convinto che Hitler fosse morto, Stauffenberg tornò in aereo a Berlino.
Hitler in realtà era vivo, un po’ malconcio, ma era sopravvissuto per molte cause fortuite. Infatti, inizialmente la riunione doveva essere tenuta in una stanza di cemento, che avrebbe concentrato l’esplosione in quei pochi metri quadrati, ma Hitler cambiò idea all’ultimo e la stanza in legno fu completamente distrutta, e l’esplosione si sfogò verso l’esterno. Ma non è tutto. Il pesante tavolo attutì la detonazione, la quale era, come già detto in precedenza, l’effetto di una sola bomba, a causa dei difetti fisici del colonnello della resistenza. Miracolosamente, Hitler scampò ad un altro attentato. In quel pomeriggio del 20 luglio, Mussolini arrivò alla Wolfsschanze per una visita programmata da tempo. Venne accolto da Hitler, il quale, esultate, insistette per mostrare al Duce la scena dell’attentato a cui era scampato, sottolineando che ciò non era altro che una dimostrazione della provvidenza divina che lo aveva salvato affinché continuasse la guerra.

Hitler e Mussolini nella stanza dove avvenne l’attentato il 20 luglio.
Nel discorso rivolto alla nazione quella sera stessa, il capo del nazismo paragonò l’attentato alla “pugnalata alle spalle” del 1918. Intanto a Berlino dopo un incompleto e infruttuoso tentativo di prendere il controllo dell’apparato statale, Fromm riuscì a riprendere in mano la situazione, e alla fine dell’atto fece fucilare Stauffenberg e altri tre cospiratori in un cortile alla luce incerta delle torce elettriche, forse anche perché il suo ruolo ambiguo nella cospirazione restasse nell’ombra. La Gestapo e le SS, pervase da una frenesia di vendetta nei confronti dell’esercito e in particolare del suo stato maggiore, procedettero all’arresto di tutte le persone coinvolte e dei loro familiari. Per i nazisti, ciò rappresentò in sé una vittoria sul fronte interno. La loro priorità ormai non era più ottimizzare lo sforzo bellico, ma cambiare la struttura di potere all’interno del Reich, a scapito delle elite tradizionali [4]. Il “tribunale popolare” che fu istituito in seguito all’attentato, orchestrato dal tristemente famoso giudice Roland Freisler, condannò seduta stante 200 persone. Alla fine dei deliri giudiziari che accompagnarono l’attentato del 20 luglio, 5000 persone rimasero vittime delle conseguenze dell’attentato. Tra questi spicca il nome di Erwin Rommel, che sebbene non fu mai implicato direttamente nel complotto, fu costretto a suicidarsi, salvo poi dedicargli un ipocrita funerale di stato. La storia di questi uomini è l’atto più famoso ed eclatante di una resistenza che nonostante fosse schiacciata dalla efficientissima macchina repressiva quale la Gestapo, è riuscita comunque a far sentire il proprio dissenso verso un regime criminale, colpevole agli occhi della Storia di aver trascinato il mondo del baratro del secondo conflitto mondiale.
Agli uomini, alle donne, ai giovani ragazzi e ragazze che hanno partecipato alla resistenza, in Germania come altrove, va riconosciuto il grande coraggio di dire no a qualcosa di molto più grande di loro. Molti di loro non hanno potuto vedere la libertà, ma sono morti per essa, e qualunque fossero poi le loro visioni politiche, dagli aristocratici conservatori prussiani ai ragazzi della Rosa Bianca, il loro gesto non sarà mai dimenticato, possa anzi essere fonte di ispirazione per tutti noi, pronti a reagire alle ingiustizie e alla tirannia in ogni momento della nostra vita.
Bibliografia
[1] Joachim Fest, Plotting Hitler’s death, p.236
[2] G, Van Roon, German resistance to Hitler, p.145
[3] Contessa Nina Von Stauffenberg, intervista a cura di D, von meding, Mit dem Mut des Herzens, p.291
[4] GSWW, vol. IX/I, p.829
Diversi passaggi sono presi da Michael Burlaigh, “Il Terzo Reich”, pp 769-781, e Antony Beevor, “La seconda
guerra mondiale. I sei anni che hanno cambiato la storia”, pp 762-766