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Lucha de pueblo: l’indipendentismo catalano con gli occhi dei filosofi

Le recenti elezioni regionali in Catalogna hanno rafforzato la rappresentanza indipendentista. Evoluzione del conflitto tra governo madrileno e (parte della) comunità catalana che nell’ottobre del 2019 sembrava esser diventato completamente incontrollato: qualcuno la chiamò una “lucha de pueblo”. 

Allora, come oggi, comprendere qual era il “pueblo” in lotta costituiva la chiava per comprendere il senso dello scontro, e figurarsi le sue possibili evoluzioni. Con gli occhi puntati su Barcellona, dove si gioca per il futuro. 

Dall’autonomìa alla independencia 

L’aggettivo più utilizzato dagli osservatori internazionali che hanno tentato di ricostruire la genesi del caos catalano dell’ottobre 2019 è stato “imprevisto”. Ben altra cosa da imprevedibile. Ciò che più stupiva della situazione venutasi a creare, infatti, era come essa fosse tracimata fuori dal controllo delle autorità istituzionali, oltre i confini della mediazione politica: l’uso spregiudicato della violenza concesso alla polizia e la liquidità della protesta- poi quasi diradata come un gas- ne erano i sintomi tangibili. Ma come sia stato possibile arrivare a tanto era già chiaro a tutti. 

All’origine sta la ricerca di una maggiore autonomia da parte delle regioni catalane, che indirizzò l’interpretazione del sibillino preambolo della Costituzione spagnola del ’78: lì dove si parla unitariamente, ma senza spiegazioni, di “nazione” spagnola e di “popoli di Spagna”. Lasciando aperto il dubbio se via sia una sola nazione per tante nazionalità. 

Un’ambiguità più o meno volontaria, che rende storicamente sospetta l’indecisione del governo spagnolo, tra una modifica costituzionale in senso federalista e una ricomposizione centralista dell’amministrazione, agli occhi dei catalani e ostili i movimenti delle varie rappresentanze di Catalogna agli occhi degli spagnoli: sulla reciproca diffidenza si impernia il dialogo. In cui ciascuna delle parti fa dei tentativi per mettere allo scoperto l’avversario. In tal senso, c’è chi legge il referendum del 1 ottobre 2017 come uno “strumento di pressione” attraverso il quale i leader catalani speravano di raccogliere una maggioranza di consensi a favore della secessione tale da mettere l’allora Presidente spagnolo Rajoy con le spalle al muro, costringendolo ad iniziare un processo di transizione legale verso una federazione reale o una confederazione di Stati legati alla Corona. 

E, in effetti, un risultato plebiscitario fu ottenuto, ma su una percentuale di aventi diritto al voto minoritaria. 

Da lì in poi, la strategia cedette il posto alla tattica, già mirata allo scontro: falliti i flebili e guardinghi tentativi di dialogo tra l’allora Presidente della Generalitat de Catalunya Puidgemont (che oggi vive l’ambigua condizione di leader “esiliato” de facto e europarlamentare di diritto) e Rajoy, la propaganda indipendentista che dal 2010, anno dell’espunsione di alcuni articoli dallo Statuto di autonomia catalano, guadagnava consensi a formazioni prima minoritarie divenne schiava delle idee da essa stessa gonfiate. Mentre il governo centrale preparava una repressione efficace. 

Quasi per inerzia, il 27 ottobre il Parlamento catalano sancì unilateralmente la nascita della Repubblica, dichiarando l’indipendenza e tentando disperatamente di internazionalizzare il caso. La risposta di Madrid, in virtù dell’art.155 della Costituzione, fu il commissariamento della regione. 

Su queste posizioni, apparentemente congelate dai pallidi tentativi di distensione pre- e post elettorali, si è mantenuto il rapporto tra le parti. 

E il prolungamento senza soluzioni in vista della tensione ha motivato non tanto la sentenza di condanna comminata nel 2019 ai leader fautori del referendum, miccia che fece esplodere le proteste, quanto l’asprezza delle pene inflitte e la spregiudicatezza della repressione poliziesca favorita o voluta. Così il Caos era servito. 

Sovranità e unanimità 

Tentare di dare un significato alle significanti vicende catalane è da sempre un’impresa ardua, per la compromissione dei punti di vista. Una prova può essere fatta sulla base del pensiero di 3 filosofi abbastanza “europei” da carpire la questione, pur senza coinvolgimenti interni alla vicenda nei secoli. 

Hobbes è il primo. Per lui non ci sarebbero stati dubbi: quella del popolo catalano è stata (ed è tutt’ora) una “ribellione” contro il sovrano. 

Alla chiarezza del giudizio, però, si aggiungono elementi che rendono complesso il sistema delle sue implicazioni: innanzitutto, il popolo catalano non solo è “autore” che ha trasferito il proprio potere indiscriminato all'”attore” governativo, ma è esso stesso “sovrano”; il che significa, in termini democratici, detentore originario del potere decisionale. Teoricamente, quindi, potrebbe disconoscere chi ha autorizzato, se fosse parte almeno maggioritaria di un popolo unico che univocamente ha legittimato il Governo. 

In secondo luogo, è lo stesso Hobbes a dire che lo Stato è dotato di potere di diritto fin tanto che ha il potere di fatto di farsi obbedire: questo spiegherebbe la violenza della repressione contro l’intensificarsi delle proteste che volevano dimostrare l’inconsistenza dello Stato di Madrid a Barcellona. 

Una sfida, quella tra governo centrale e comunità catalana, per la “sovranità”. Cioè per il potere. Di cui è detentore il “popolo”: così in una demo-crazia. 

Ma cos’è il “demos”, con cosa si identifica? Interverrebbe, a questo punto, Habermas: “demos”, nella logica nazionalista di cui tutti siamo, con la modernità, portatori, è identico a “etnos”. Il popolo è la nazione, la comunità dei “nati” in un luogo. 

Qui si apre un ulteriore quesito, relativo al caos catalano (e non solo): è possibile, per un “popolo”, esercitare il potere su un territorio, cioè la “sovranità”, senza una unanimità della popolazione presente su quel territorio stesso? È un esercizio di realismo dire che il più forte decide cosa fare all’interno dello spazio che riesce a controllare, ma quando la forza è un equilibrio intestino, relativo e descritto dalla maggioranza, allo scontro diretto devono essere preferite altre soluzioni. Quali siano può dirlo Gramsci: la lotta, oggi, non può servirsi della violenza per produrre conquiste durature. 

Nella società di massa, politicamente retta sul consenso, domina chi detiene l’egemonia, culturale quindi politica. Principio che presuppone un dialogo tra le parti, possibile solo lì dove via sia una traducibilità dei discorsi, ossia comprensibilità degli intenti. Un discorso pronunciato per se stessi è un monologo, che, se a teatro può commuovere, in una politica di attori interrompe ogni interlocuzione. Anche la più teatrale. 

Microcosmo Barcellona 

La sintesi più entusiasmante del caos catalano la raccolse, in quei giorni, un cronista intervistando i manifestanti in corteo verso Barcellona. Quella in atto, dicevano, era “una lucha de pueblo”. 

Il politologo avrebbe dovuto chiedersi se essa fosse, non fosse e quanto fosse pilotata da forze politiche. Il filosofo, attenendosi alla risposta, avrebbe dovuto chiedersi chi decide quale sia “el pueblo” in lotta. 

Un’ipotesi, allora come oggi, si può accennare osservando il fenomeno della principale città catalana. Barcellona ha una popolazione di circa 1,6 milioni di abitanti, di cui il 16,3% stranieri.

Questa percentuale, cresciuta soprattutto nel periodo dell’ultimo franchismo, è andata concentrandosi prevalentemente nelle periferie edificate senza precisi criteri urbanistici e nell’area industriale già popolata dalle classi lavoratrici provenienti per la maggior parte dall’hinterland catalano. In queste zone, anche i nipoti dei primi immigrati oggi parlano il castigliano. 

A livello di consensi, le periferie barcellonesi, storico baluardo delle sinistre, hanno da sempre offerto un terreno poco fertile al nazionalismo catalano. Così pure i quartieri meno ricchi di Barcellona città, dove l’indipendentismo si attestava, al tempo del referendum, intorno al 30%, contro il 50% del centro. 

Con le Olimpiadi del ’92, e le trasformazioni nel segno di un miglioramento della mobilità pedonale, che si applicavano ad un impianto urbano già disponibile a tali modifiche, dunque di un miglioramento della qualità della vita, Barcellona attrasse milioni di turisti e divenne, agli occhi di molti, “meno catalana”. 

Sul piano politico, il Presidente della Generalitat catalana Pujol, preoccupato dalla crescente affermazione dei governatori di Barcellona sulla regione circostante, rafforzata dalla proiezione internazionale quasi connaturata alla città (almeno dal tempo degli Aragonesi), ridusse la portata politica dell’amministrazione cittadina dall'”area metropolitana” alla “municipalità”: così, l’influenza della città si ridusse sul piano del mediocosmo catalano, costretta a un microcosmo stringente anche dall’allora nuova legge elettorale che privilegiava il voto delle aree rurali. Più spiccatamente nazionaliste. 

Le crisi che venne, scoppiata in Spagna nel 2010, è economica e politica, e favorisce il movimento di Barcelò en Comu alle elezioni comunali del 2015: Ada Colau, neosindaca, inaugura una strategia di decrescita economica della città che unisce programmi utili ad arginare la “gentrification” di spazi sempre più ampi del centro, comportando una espulsione delle famiglie a reddito medio-basso, a politiche volte a mantenere i livelli del turismo alti. Ma è specialmente il paradigma neomunicipalista a conquistare alla Barcellona di Colau l’interesse delle città europee e non solo, e a riportare il suo microcosmo sul piano del megacosmo internazionale, scavalcando il macrocosmo catalano retto dalla Generalitat. Una Barcellona internazionale, trasversale, proiettata verso la creazione di una interconnessione globale di megalopoli contrasta con i progetti nazionalisti dell’indipendentismo che, a ragione o a torto, propugna la creazione di un nuovo Stato nel panorama europeo. E che, per riuscire nei suoi intenti, può contare sul sostegno della popolazione dell’hinterland catalano, senza il controllo del vero motore della regione. 

Le vicende dell’ottobre 2019, tuttavia, già preannunciavano un avvicinamento di fette più ampie di barcellonesi alla causa indipendentista, avvicinamento che potrebbe spiegare il lieve aumento dei rappresentanti di partiti indipendentisti: percentuali allora difficilmente rilevabili, come mostrò la non immediata esposizione della sindaca nella vicenda. A conferma che la scena, in assenza di una mediazione inaugurata da un attore credibile sul piano locale e internazionale, segue il canovaccio impostato da secoli di banali nazionalismi.

Lorenzo Ianiro

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Come non cadere nella retropia

Retrotopia è l’ultimo libro scritto dal celebre sociologo Zygmunt Bauman, che coniò questo neologismo per indicare come la società mondiale stesse ponendo le proprie speranze di un futuro migliore non più guardando in avanti al futuro, bensì al passato. Con l’avvento di una delle più terribili e catastrofiche pandemie degli ultimi secoli, questo “mood” sembra essere ancora più vicino alla realtà odierna di quanto non fosse in precedenza. Il futuro, da habitat naturale di speranze e aspettative legittime, si è trasformato in sede di incubi: dal terrore di perdere i propri familiari, il lavoro e lo status sociale a quello di rimanere impotenti a guardare la crisi ambientale che avanza incontrastata o a ritrovarsi con abilità che, sebbene faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di mercato.

Nel primo capitolo del libro Bauman si interroga su un possibile ritorno allo stato di natura di Hobbes, in quanto il suo Leviatano sembrerebbe non essere più in grado di assolvere la missione attribuitagli di domare la crudeltà innata degli esseri umani. “Nel corso del processo di civilizzazione, gli atti di violenza dell’uomo sono stati celati alla vista, non eliminati dalla natura umana; oppure sono stati esternalizzati, appaltati a professionisti (simili a sarti che confezionano la violenza come abito su misura), ponendo fine al supplizio, alla gogna o all’impiccagione su pubblica piazza. (…) A queste funzioni della civilizzazione Erving Goffman aggiunge l’«inattenzione civile», ossia l’arte di distogliere lo sguardo dagli estranei, sul marciapiede, sui mezzi di trasporto o in sala d’attesa dal dentista: comportamento che segnala l’intenzione di non farsi coinvolgere in un rapporto, per timore che un’interazione tra individui che non si conoscono porti alla perdita di controllo sugli istinti sgradevoli, e quindi alla scoperta imbarazzante dell’animale uomo, che va tenuto in gabbia, sotto chiave e al riparo da sguardi indiscreti.” Il sociologo polacco afferma che il neoliberismo ha iniettato violenza nella politica e paura nelle nostre vite, con la globalizzazione e le innovazioni tecnologiche che hanno avuto il risultato di emancipare il potere dal territorio, scardinando l’idea di Stato che aveva Max Weber, ovvero colui che possiede il monopolio della violenza legittima entro determinati confini. 

Nel Cimitero di Praga, per bocca del protagonista del libro, Umberto Eco scrive: “ho sempre conosciuto persone che temevano il complotto di un qualche nemico occulto, gli ebrei per il nonno, i massoni per i gesuiti, i gesuiti per mio padre garibaldino (…) chissà quanta altra gente c’è ancora a questo mondo che pensa di essere minacciata da una cospirazione. Ecco qua una forma da riempire a piacere, a ciascuno il suo complotto.” Il falso è stato il motore di alcuni eventi storici, avere una causa per cui lottare amplia la propria dimensione e il terrorismo suicida, la più estrema forma di emulazione della violenza, viene visto da Bauman non come una forma di fanatismo, ma come una condizione “favorita e istigata dalle politiche di esclusione e dalla progressiva esternalizzazione delle credenziali degli Organi di Stato elettivi agli umori volubili dei mercati, attori fuori portata rispetto ai mezzi di cui dispone l’individuo, costretto ad affrontare l’esistenza con le sue sole risorse personali.” Il nostro mondo come campo minato di cui non sappiamo la mappa e il ritorno al mondo di Hobbes non è secondo Bauman dovuto alla mancanza del Leviatano ma alla compresenza di tanti Leviatani difettosi e incapaci di assolvere tutte le funzioni di cui l’individuo ha bisogno.

Un altro dei modi di guardare al passato è il ritorno alle tribù. La globalizzazione ha trasformato gli Stati in estesi vicinati, le differenze tra gruppi sono diventate rapporti di superiorità/inferiorità, le ideologie neoconservatrici hanno così spinto per un ritorno al tribalismo. Lo scopo degli antagonisti nelle tribù non è riconciliarsi ma ricavare una dimostrazione dell’impossibilità di ciò. Parole come futuro e progresso sono temute: la nostra generazione, già da prima del Covid19, è la prima che pensa che non starà meglio dei genitori nel futuro, e se in teoria il futuro dovrebbe essere duttile e il passato stabile, nella pratica il futuro sembra inesorabile e il passato plasmabile a proprio piacimento. Bauman cita Michel Agier, il principale studioso delle origini e delle conseguenze delle migrazioni di massa, il quale avverte che sulla base delle stime attuali, nei prossimi 40 anni si prevede che ci saranno un miliardo di sfollati: “Gli sfollati sono persone che non hanno un loro posto, né possono legittimamente rivendicarlo, ciò li colloca in un “non luogo”, anziché nel mondo che accomuna tutti gli altri. Ma i loro non luoghi (per esempio le stazioni ferroviarie di Milano e Roma) fanno parte dei nostri quartieri, quelli dei fortunati <<nativi>> liberi di viaggiare per scelta. Trovarsi al cospetto di questi non luoghi, anziché limitarsi a guardarli a debita distanza sugli schermi televisivi, è un’esperienza scioccante perché ci mostra con chiarezza la turbolenza mondiale nel suo aspetto peggiore.” “Problemi globali richiedono soluzioni globali – afferma il sociologo – lasciar marcire il problema, purché non sia nel cortile di casa nostra, non funzionerà. La cura definitiva non è alla portata di un singolo paese e nemmeno di un insieme di paesi come l’Unione Europea: e questo è vero a prescindere che confiniamo <<i migranti>> in campi appositamente costruiti in Europa, Africa o Asia oppure li lasciamo scomparire nelle acque del Mediterraneo o del Pacifico”

Nell’epilogo del saggio, Bauman si interroga su quale sia il modo per guardare avanti e cambiare in un mondo in crisi, un’età di crisi anche degli strumenti per risolvere i problemi. Il dilemma più arduo è come “riconciliare la globalizzazione della finanza, dell’industria, dei commerci, del sapere e della comunicazione- e la dimensione politicamente globale che l’umanità ha davanti a sé, con il carattere tipicamente locale e autoreferenziale degli strumenti politici, che in base al principio proclamato da Wilson, dovrebbero gestire tutti quei cruciali aspetti della condizione umana.” Citando il sociologo Ulrich Beck scrive che a differenza di tutte le precedenti, vittoriose battaglie, l’innalzamento dell’integrazione umana “non può servirsi né dell’arma di designazione di un nemico condiviso, né del meccanismo del <<noi contro di loro>>. Perciò la sfida del momento consiste nientemeno che nel progettare, per la prima volta nella storia umana, un’integrazione che non sia più fondata sulla separazione.” Serve costruire una cultura del dialogo, citando un discorso di Papa Francesco nel 2016, “una ricerca di modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società.”

Marco Biondi
Assistente civico