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Post-decadentismo e pensiero libero – Intervista a Orlando Donfrancesco

Lo scorso 20 maggio abbiamo pubblicato una recensione de Il sole a occidente, primo romanzo di Orlando Donfrancesco, edito da Historica Edizioni nel 2016. Ci siamo così messi a contatto con lo stesso autore che, molto gentilmente, si è messo a disposizione per parlare con noi dei suoi lavori e dei temi trattati in essi. Ne è nata una piacevole chiacchierata che vi rendiamo qui in forma scritta.

Siamo con Orlando Donfrancesco, che definire unicamente uno scrittore sarebbe riduttivo. Lasciamo quindi che sia tu a presentarti.

La scrittura è sempre stata un qualcosa che ho avuto dentro e ho coltivato: perché la scrittura questo è, un qualcosa che hai dentro, un talento, che però va coltivato e affinato per aggiungere la tecnica al talento e all’ispirazione. Ho cominciato scrivendo racconti brevi ma il mio sogno era scrivere un romanzo e devo dire che con questo tipo di narrazione mi sono trovato più a mio agio; ciò non toglie che la scuola dei racconti brevi è molto importante perché ti insegna a dare un peso a ogni parola che si utilizza. Ho anche studiato per scrivere: e studiare per scrivere significa leggere molto. In Italia si dice che abbiamo più scrittori che lettori: e questo è un male che abbiamo da sempre, fin dal Settecento. Sono un appassionato di storia fin da piccolo e ho sempre portato avanti questo studio per conto mio; sono laureato in Farmacia e ho anche esercitato, ma poi mi sono rivolto verso la specializzazione in medicina antroposofica e sono diventato docente di medicina antroposofica nel corso di formazione di medici e farmacisti, che si occupa della più chimica della sostanza. Oltre alla scrittura fino ai trentacinque anni mi sono occupato di musica elettronica, sia come composizione negli anni Novanta e poi come dj successivamente. Per me la scrittura e la musica sfruttano gli stessi sensi, non soltanto fisici ma anche interiori: siamo sempre nel campo del suono, la scrittura è suono. Penso che ognuno abbia non tanto una materia ma un’area che coltiva. La formazione scientifica mi è servita invece per essere più rigoroso, perché a volte nel campo letterario si rischia di perdere un po’ concretezza e di bruciare il talento, invece il metodo per la scrittura è molto importante.

Ci siamo conosciuti in maniera  particolare, ovvero dopo una nostra recensione al tuo romanzo Il Sole a Occidente; di questa recensione tu non sapevi nulla e l’hai scoperto tramite internet. Volevamo partire proprio da questo tuo romanzo che nella recensione di Danilo Iannelli abbiamo definito neo-decadente. In questo romanzo tu insisti abbastanza sul concetto di decadenza insito nella nostra società occidentale. In quali elementi e in quali dettagli vedi in particolar modo il decadere dell’Occidente?

Neo-decadente va bene come definizione anche se preferirei definirlo post-decadente, perché è neo-decadente come spirito, perché riporta lo spirito del decadentismo, ma questa società la definirei post-decadente. Il romanzo si ispira a Controcorrente di Huysmans e ne aggiorna la poetica e lo spirito; chiaramente altri modelli di riferimento sono D’Annunzio, Wilde e tutto quel filone lì. Il Decadentismo si accorge che la società occidentale e la sua Bellezza già alla fine dell’Ottocento con il Positivismo stavano morendo e quindi si rifugia in questa adorazione della Bellezza fine a se stessa. Il romanzo è diviso secondo le fasi di ascesa e caduta dell’Impero Romano, perché essendo la storia ciclica già vari autori del Basso Impero si accorsero della fine prossima della loro società; quando una società finisce inoltre dà il meglio di sé, anche in senso ellenistico. La nostra è una società post-decadente in cui chi ha questa sensibilità deve ovviamente rifugiarsi nel passato, mentre il decadente della fine dell’Ottocento ancora creava qualcosa che noi possiamo identificare come Decadentismo e tutti i filoni ad esso collegato. Questa società è post-decadente perché non ha più nemmeno il ricordo di cosa è stata: è una società veloce, tecnologica, che guarda o al presente o al futuro, rimuovendo velocemente il passato. Oggi la possibilità di ritornare al passato è unicamente spirituale che è anche il dramma di Tancredi, il protagonista del romanzo: tornare al passato tout court lascia dentro un circolo chiuso. Il romanzo ha una struttura circolare proprio per simboleggiare questo. Nel romanzo la metafora della lampadina a confronto con la candela simboleggia la direzione di una società che pensa soltanto all’utile, mentre la Bellezza è un bene accessorio.

Già in “Il Sole a Occidente” un’ampia fetta della narrazione si svolge in India, contraltare alla globalizzazione che sembra uniformare e far decadere l’Occidente. Tu hai dedicato il saggio Cambogia, il Gioiello ritrovato al Paese che hai visitato:  quali sono le sensazioni che hai ritrovato in questo Paese e che ti ha spinto a dedicargli un libro?

Quel libro fa parte di una collana di brevi taccuini di viaggio, a metà tra una guida letteraria e impressione di viaggio, senza pretesa di essere esaustiva ma con l’intenzione di dare delle suggestioni. L’Oriente è visto come l’elemento che porta la spiritualità al passato; l’estremo Occidente, inteso come Stati Uniti e Gran Bretagna, portano il materialismo totale come valore. Noi siamo l’Europa e teoricamente dovremmo essere un punto di incontro tra le due tendenze, o almeno lo siamo stati fino alla Seconda Guerra Mondiale. La presenza dell’Oriente è metaforica, come l’oppio rappresenta un rifugiarsi in dei mondi non più accessibili, un paradiso privato. Quello dell’India è un capitolo molto onirico, il più simbolista che abbia scritto. L’Oriente per me è un luogo che resiste agli insulti del tempo: la velocità che abbiamo qui è lentezza e la ciclicità lì. Questo libro ha in sé questa opposizione e credo che anziché occidentalizzare l’Oriente si debba trovare un punto d’incontro tra queste due sensibilità che permangono; perché l’Oriente occidentalizzato tende a far diventare degli automi le persone, perché non hanno compiuto lo stesso nostro percorso evolutivo sotto il profilo tecnologico: inserire forzatamente la tecnologia ha portato all’automazione delle persone. Non sono un anti-evolutivo come Tancredi, ma bisogno mantenere le differenze e combattere l’omologazione: perché se evolvere significa imporre una stessa cultura per tutti, che deve necessariamente livellata verso il basso per adattarsi a tutti, non la chiamerei più evoluzione ma involuzione.

Il tuo ultimo lavoro, Sulla cima del mondo tratta una questione abbastanza spinosa della nostra storia, quella fiumana. Spesso questo evento storico viene visto unicamente come una palestra del fascismo. Dopo un’accurata ricerca storica e documentaria, accompagnata anche da una parallela ricerca stilistica, hai deciso di dedicare a questa fase della nostra storia il tuo ultimo romanzo. Che cosa significa per te l’impresa fiumana e perché l’hai scelta?

Erano anni che avevo in mente il progetto di scrivere un romanzo sull’impresa di Fiume proprio perché è stata o messa sotto il tappeto o incasellata in qualcosa che non le apparteneva. La responsabilità di ciò è innanzitutto del Fascismo, che se ne è voluto appropriare, prendendone le musiche, l’estetica e i modi di dire, limitandosi quindi all’aspetto scenografico, volendola far sembrare la prima impresa fascista; purtroppo dopo la Seconda Guerra Mondiale molti storici di sinistra non l’hanno considerata per quello che è stata ma hanno ripiegato sulla narrativa fascista, incasellandola lì senza appello. Questo è stato un grave errore storico; il primo è stato De Felice, sicuramente non uno storico di destra, che ha voluto riprendere gli studi su Fiume; poi soprattutto nei primi anni Duemila, si è iniziato a fare una rilettura dell’impresa fiumana. Inserendomi in questo filone, che può essere riassunto nel Disobbedisco di Guerri, uscito in contemporanea con Sulla cima del mondo, mi sono risolto nello scrivere questo romanzo in occasione del centenario. Più mi addentravo nello studio della storia fiumana e più scopriva fatti incredibili. Il Fascimo nel ’19 era agli albori, a marzo del ’19 a piazza San Sepolcro Mussolini enunciava i principi del fascismo, ma il fascismo sansepolcrista era profondamente differente dal fascismo reazionario della dittatura. Mussolini ha avuto ben poco a che fare con l’impresa di Fiume, anzi D’Annunzio è sempre stato una spina nel fianco per il Fascismo. Fiume fu un coacervo, un magma di tante tendenze, dai bolscevichi, ai socialisti, agli anarchici soprattutto, fascisti, veramente di tutto. Come ho scritto nella premessa è avvenuto prima dei totalitarismi degli anni Venti e Trenta. Giudicare retrospettivamente l’impresa di Fiume per quello che è avvenuto dopo è un errore enorme. Alcuni legionari infatti confluirono nel fascismo, ma tanti altri nell’antifascismo: il capitano Magri, che guidava gli uscocchi, è stato giustiziato ad esempio nelle Fosse Ardeatine. È inutile incasellarla forzatamente ma leggiamola per quella che è; scripta manent, basta leggere la Carta del Carnaro, scritta da De Ambris, che fu sindacalista rivoluzionario perseguitato dal Fascismo e morto in esilio in Francia: è avanti anni luce. Prima di scrivere il romanzo ho fatto due anni di studi su Fiume: ho letto diari, documenti e sono entrato dentro l’impresa di Fiume, cercando di condensarli in forma narrativa. Ho scelto questo evento perché fa parte della nostra storia e ha anticipato, per alcuni versi, il Sessantotto, sempre contestualizzando e cercando di capire che questi erano reduci di guerra, ragazzi tornati dal fronte e si manteneva una certa estetica guerresca. Il ventennio successivo poi si è appropriato e ha codificato tutti i simboli di questa fase: da Eja, Eja, Alalà! a Giovinezza, diventata da inno degli Arditi una canzone fascista. A Fiume tutto era fluido e io ho cercato di rendere questa fluidità. Il bello di questa impresa è che era sin dall’inizio votata alla sconfitta ed è proprio lì che si vivono momenti di estrema licenziosità; a Fiume si è discusso di amore libero e omosessualità, che era tollerata e permessa. Fiume fu un coacervo di intellettuali, artisti, puttane, spacciatori. A Fiume ci fu di tutto. Sono felice che molti lettori mi scrivano che anche grazie al mio romanzo hanno scoperto di più su Fiume, perché molto spesso nei libri di storia o è un trafiletto o non viene nemmeno citata. Tutto ciò che viene riportato nel romanzo è realmente accaduto: ovviamente è stato romanzato ma gli eventi sono fedeli alla data e all’orario.

Per concludere, tornando un po’ alla domanda iniziale, ha ancora senso secondo te, in questa fase di decadenza culturale e di massificazione, il ruolo dell’intellettuale e che cosa può definire un intellettuale?

Secondo me ha ancora senso; purtroppo però alcuni termini si caricano di significati negativi. Per esempio se fermassimo qualcuno per strada e gli chiedessimo di pensare a un intellettuale probabilmente penserebbe a quelle tendenze che oggi prendono il nome di radical chic. Se noi depuriamo la parola da tutte le valenze che ci si sono attaccate sopra, allora sì, è qualcuno che usa l’intelletto per prendere posizione davanti a quello che accade nel mondo. Secondo me quindi ha senso e ce n’è bisogno. Quello che intendo io per intellettuale è una persona dotata di pensiero libero, indipendente, fornito ovviamente di una certa cultura, anche quella libera e che quindi non lo costringe su determinate posizioni, non solo politiche ma anche ideologiche. C’è bisogno oggi dell’intellettuale libero; non c’è bisogno degli intellettuali di parte, che difendono le loro posizioni e di cui purtroppo abbiamo avuto molti esempi negli ultimi mesi con la pandemia. Il pensiero libero e il prendere posizione liberamente rispetto a quello che succede nel mondo sono fondamentali: il titolo di intellettuale non è un diploma che si prende, ma un’attitudine verso il sapere e il mondo e per quel poco che vi conosco anche voi de La disillusione siete intellettuali.

 

Danilo Iannelli
Paolo Palladino

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Il sole a occidente o la decadenza della modernità

È ancora possibile, nel tempo della società di massa e del consumismo, fare della propria vita un’opera d’arte, perseguendo piaceri sempre più raffinati e difficilmente raggiungibili, distinguendosi ad ogni costo, adottando come proprio unico credo quello della bellezza? Sembra essere questo il dilemma di Tancredi, il protagonista di Il sole a occidente di Orlando Donfrancesco, edito da Historica Edizioni nel 2016.

Tancredi è un giovane artista, un dandy contemporaneo, che decide ritirarsi a Venezia per perseguire il suo ideale di vita: quello di elevare la bellezza e il piacere, come vuole la tradizione dell’estetismo, come unici valori etici.

Il treno rallentò, quasi a passo d’uomo, iniziando a percorrere il cosiddetto Ponte della Libertà – ma libertà da cosa, poi? Tremilaottocentocinquanta metri di terra artificiale che hanno impedito a Venezia di rimanere un’isola. E adesso, ogni giorno, migliaia di persone possono attraversare frettolosamente l’acqua che divide Venezia dal resto del mondo, senza avere il tempo di rendersi conto di dove arriveranno. Perché Venezia deve essere difficile da raggiungere e difficile da abbandonare. Bisogna piegarsi al suo elemento – l’acqua – a quella posizione d’immensità che la circonda – il mare – e raggiungerla adagio su una gondola, bagagli e rimpianti al seguito. Un percorso iniziatico per entrare in sintonia con lei, lentamente, e quando si parte da lei, lentamente, arriva quella sensazione indefinibile di abbandono, quell’arrivederci a Venezia che somiglia sempre a un addio.
Con il ponte no.
Con il ponte Venezia non è più un’isola, è un promontorio, una banale propaggine della terraferma, costretta dall’uomo a tenersi attaccata al resto del mondo per essere studiata in un’amniocentesi permanente.

Le vicende del romanzo si svolgono tra Roma, Parigi, l’India e Venezia, appunto, ma solo quest’ultima può essere considerata alla stregua di un personaggio del romanzo di Donfrancesco. Il richiamo alla Venezia di Thomas Mann è scontato ma irrinunciabile: la Serenissima, con la sua atmosfera tediosa e oppressiva, è per eccellenza la città decadente. Da un lato l’opulenza delle sue architetture e delle sue chiese, il suo lussurioso e sfavillante carnevale, le tradizioni dei suoi abitanti; dall’altro la rombante potenza distruttiva della modernità, della società consumistica di massa, che con il turismo la trasforma in un cimelio da museo, privandola di tutta la sua raffinata e fatale bellezza. Venezia nel romanzo di Donfrancesco diventa il simbolo della decadenza della civiltà occidentale o, più precisamente, di quella dell’Europa preindustriale: essa rappresenta la bellezza martirizzata dal progresso tecnologico ed economico che, per far largo al benessere, ha relegato la bellezza a bene commerciale.

Ma non lo vedi ciò che ti circonda? Non vedi la marea di uniformità che sta rapidamente sommergendo tutto? Non ci sono più  popoli, più tradizioni, più alcuna diversità nel vivere e nel pensare, e quello in cui bisogna credere, quello che bisogna pensare, viene imposto dall’esterno, da quei pochi che hanno l’interesse ad avere una massa informe e omologata da poter governare con facilità… e dove puoi trovare la Bellezza in tutto ciò? In nulla, più in nulla! È meglio morire, allora! Noi non vogliamo lottare contro tutto ciò, non ci interessa, non ci appartiene, e nemmeno ci sarebbero possibilità di vittoria, anche se fosse… L’unico gesto eroico che ci rimane da fare è dunque morire e ridere insieme…

La ricerca continua di piaceri nuovi e di una vita all’insegna della bellezza trova compimento grazie all’incontro con Enrico, uno scrittore, e Liliane, il prototipo perfetto e diafano della femme fatale. A loro si aggiungerà Flaminia, una giovane ribelle, conquista di Tancredi: loro quattro, i tetrarchi, daranno vita nella Venezia addobbata a festa per il carnevale, a un vero impero di piacere, fatto di party esclusivi, promiscuità sessuale, vini d’annata, abiti sartoriali e droghe di ogni tipo. Attraverso questo stile di vita bohémien i quattro danno vita alle loro concezioni artistiche ed estetiche, inanellando piaceri come perle su una collana fino ad arrivare a chiedersi, poi, il senso di tutto ciò.

Era un esempio che facevi sempre, paragonando la vita a una collana di perle: il valore di una collana sono le perle, non il filo che le unisce. E lo stesso è per la vita, perché le perle sono i momenti di piacere vissuti, mentre il filo è la vita piatta che si svolge tra un momento di piacere e l’altro.
[…]
– Ma forse mi sono sbagliato. Quel filo non è la vita che si svolge tra un momento di piacere e l’altro; quel filo è
il senso della vita stessa. Forse è proprio quel filo a dare un significato alle perle, che altrimenti sarebbero solo un mucchietto di momenti di piacere senza un motivo che li leghi.

Così, ognuno alla ricerca del proprio filo della vita, Enrico, Liliane e Flaminia abbandonano Tancredi al suo destino, quello di vivere da solo questa ricerca spasmodica di piacere e di bellezza senza mai fine. Come Dorian Gray, Tancredi mantiene intatta la sua piacevolezza esteriore, la sua eleganza, il suo savoir faire da dongiovanni e da artista, mentre la sua anima, sola, annega in un mare di disperazione che nessun piacere può colmare. Solo un amore di giovinezza, che nell’intreccio del romanzo è prologo ed epilogo e che incornicia tutta la vicenda di Tancredi, sembra dare speranza per colmare questo vuoto nella vita del protagonista. Come il Gatsby di Fitzgerald, Tancredi si ritrova così continuamente spinto verso il suo passato, impossibilitato a vivere il presente in un mondo non suo, diretto verso l’unico futuro possibile, comune a tutti gli uomini, l’annullamento della morte.

Il Sole a occidente è un romanzo provocatorio, che cerca di riportare la figura del dandy tipica dell’estetismo nel mondo di oggi, avvertendo come retroterra comune la decadenza insita nella nostra società. Lo stile di Donfrancesco è ironico: accosta momenti poetici a momenti di crudo realismo, riuscendo a bilanciare questi due estremi in uno stile molto moderno, prevalentemente dialogico, senza rinunciare a sobrie descrizioni che caratterizzano l’ambiente in cui avvengono le vicende.

Danilo Iannelli