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La rotta dei Balcani: un viaggio pericoloso che inizia da lontano

Il 23 dicembre scorso, a seguito di un incendio all’interno del campo migranti di Lipa, nella città di Bihać, una cittadina della Bosnia al confine con la Croazia, 900 persone sono rimaste sfollate, prive di acqua, elettricità e un tetto per ripararsi dal freddo. L’inverno in quelle zone è rigido e i boschi non  possono essere un adeguato rifugio per un essere umano. Eppure, da quel giorno, centinaia di uomini,  donne e bambini continuano a vivere in condizioni disumane. Il 3 gennaio la Commissione Europea  ha annunciato lo stanziamento di 3,5 milioni di euro di aiuti umanitari per i migranti rifugiati nel  territorio della Bosnia-Erzegovina.

Tuttavia, pensare di poter risolvere una crisi umanitaria di tale  portata senza coinvolgere i territori ai confini dell’Unione Europea è inverosimile e non tiene conto della complessa rete di attori presenti all’interno di questo scenario.  

Le storie dei migranti nel campo di Lipa sono diverse tra loro e allo stesso tempo unite da un unico  filo conduttore. Sono persone provenienti da paesi che a noi sembrano lontani, immaginabili solo osservando una cartina geografica; territori come l’Afghanistan, l’Iran, l’Iraq, la Tunisia, l’Etiopia,  l’Eritrea. Il loro viaggio non è unidirezionale e non prevede un’unica meta, ma tante discese e talvolta  fermate a lungo termine. È come ritrovarsi su un binario, senza sapere se giungerai al punto di  partenza, di arrivo o di stallo perenne. Molte di queste persone decidono di fuggire dal loro paese a  causa della guerra, della fame, della povertà o per andare alla ricerca di un futuro migliore. Si affidano a trafficanti di esseri umani per poter raggiungere i paesi dell’UE, visti come un’isola felice, dove i loro diritti verranno rispettati. Cercano di trovare delle rotte che possano portarli al sicuro e dove  invece, spesso, incontrano la morte. Le loro vite, spezzate via dalle onde del mare, dalle ruote dei  camion, dalle sevizie delle polizie di frontiera o dai governi dittatoriali, vengono raccontate in  continuazione, eppure nessuno sembra volersene occupare.

Per alcuni politici sono persone di serie  B che devono essere respinte a priori nei loro paesi di origine, per altri sono comuni mortali che  potrebbero essere aiutati, ma sempre con cautela, relegandoli, di fatto, in una categoria inferiore. È quello che è accaduto al campo di Lipa, nel momento in cui, nonostante le condizioni di difficoltà in  cui riversavano centinaia di migranti, le autorità locali e la popolazione di Bihac si sono opposte ad ospitarli nell’altro centro di accoglienza della città, vuoto e pronto per essere utilizzato. In un articolo  dell’Internazionale, di Annalisa Camilli, risalente a novembre del 2019, viene affrontata la questione  della migrazione in Bosnia e le sue parole sembrano annunciare la recente tragedia. “In Bosnia dal  2018 hanno transitato 40 mila persone e circa seimila sono bloccate nel cantone di Una-Sana,  intorno a Bihać, mentre aspettano di provare ad attraversare la frontiera con la Croazia, primo  avamposto dell’Europa. Ma al confine, nei boschi, è alta la probabilità che i profughi incontrino i  manganelli e la violenza dei poliziotti croati e che siano rimandati indietro in quello che è diventato  una specie di stato cuscinetto ai margini dell’Europa, la Bosnia Erzegovina.” Tale situazione di  emergenza umanitaria poteva dunque essere evitata se si fossero prese misure adeguate.

I Paesi  dell’UE non possono continuare a voltarsi dall’altra parte, né a chiudere le frontiere. Il rischio, infatti, è quello di incentivare il lavoro dei trafficanti e delle organizzazioni criminali che si occupano di  organizzare viaggi rischiosi e interminabili.

Nel libro “La frontiera”, scritto da Alessandro  Leogrande, scomparso nel 2017, viene analizzata la situazione del fenomeno migratorio attraverso  una pluralità di voci che narrano in prima persona l’agonia del “viaggio” sia via mare che via terra.  È il caso di Aamir, un ragazzo afghano che nel 2010, a soli 16 anni, ha scelto di partire insieme ad  altri suoi compagni. “Aamir è stato uno dei primi a percorrere la rotta dei Balcani. È andato dalla  Grecia in Turchia, senza passare dall’Italia”. Il giovane, infatti, dopo essere riuscito a raggiungere  la Grecia, aveva tentato più volte, senza ottenere successo, di saltare sui camion all’imbarco delle  navi che da Patrasso si dirigono verso l’Italia. Un “gioco” pericoloso che ogni anno causa la morte  di decine e decine di persone, asfissiate o schiacciate dalle ruote del mezzo pesante. Aamir ha deciso  così di studiare un percorso alternativo, ricorrendo all’aiuto di Google maps. Lui e altri ragazzi sono  riusciti a stampare la mappa che li avrebbe portati in territorio europeo. Hanno camminato centinaia  e centinaia di chilometri, attraversato Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria. Per notti non hanno  dormito, accampandosi tra i boschi dei Balcani, in alcune zone popolate dai lupi. Sono stati catturati dalla polizia serba e sbattuti in carcere per mesi; dopo aver raggiunto l’Ungheria, invece, sono stati inviati in centri per rifugiati. La polizia di confine non si è accertata che fossero minori, destinandoli  nel centro di accoglienza per adulti di Debrecen. Alcuni dei ragazzi con cui Aamir aveva iniziato il lungo viaggio durato 6 mesi, sono stati rispediti in Grecia in quanto le loro impronte digitali erano  finite nei database della polizia a Patrasso.

Secondo l’accordo di Dublino, entrato in vigore per la  prima volta nel 1997, infatti, si può fare richiesta di asilo solo nel primo paese di arrivo. I nuovi scenari geopolitici, tuttavia, richiederebbero una revisione dell’accordo che non riesce più a gestire il  flusso di migranti provenienti da diversi paesi. La soluzione si può trovare solo in una cooperazione all’interno dell’Unione Europea per evitare un “lavaggio delle mani” generale. Ad esempio, in alcuni  casi, potrebbe essere fornita la concessione di “più visti di lavoro temporanei”, offrendo così per  coloro che sono dei “migranti economici” un’alternativa al diritto di asilo, andando a contribuire all’economia di paesi, come l’Italia, che tendono all’invecchiamento.

Ovviamente, occorre  distinguere chi fugge per mancanza di prospettive lavorative da chi invece è costretto a causa della  guerra. Ciò tuttavia, non significa che entrambe le situazioni non debbano essere trattate con la medesima cura, semmai con approcci differenti. I corridoi umanitari possono essere un buon metodo  per fare entrare in Italia, legalmente e in sicurezza persone in “condizioni di vulnerabilità” come  bambini, ammalati o vittime di persecuzioni. Lo ha capito subito la comunità valdese, memore di una  storia di fughe e persecuzioni che oggi aiuta i profughi provenienti da diverse parti del mondo. Infatti, “dal 2016 i corridori umanitari hanno aiutato circa duemila profughi siriani ad arrivare in Italia”.  I valdesi sono stati costretti a scappare per secoli, da quando Papa Leone III li aveva dichiarati eretici e sanno bene cosa significa essere rifiutati dal resto della popolazione.

A Bihac, dove si trovano attualmente i migranti sfollati, tra il 1991 e il 1995, durante il conflitto in Bosnia-Erzegovina , sono state uccise 4856 persone. Un territorio, quello bosniaco, che durante quegli anni ha visto la fuga di  più di un milione di persone. Come a voler confermare il meccanismo per cui nel corso della storia  alcuni tendono a dimenticare gli eventi traumatici, gli abitanti di questo tratto dei Balcani non  riescono ad empatizzare con i migranti nel campo di Lipa. Eppure basterebbe ricordarsi che siamo  tutti esseri umani con la voglia di scoprire nuovi mondi e con il diritto a vivere dignitosamente, aldilà  di ogni infondata pretesa di superiorità etnica o religiosa. L’orrore del mondo si insidia nel silenzio  di chi non vuole vedere la violenza, non la accetta o peggio la giustifica.

Nel capitolo finale del suo libro, Alessandro Leogrande analizza il dipinto di Caravaggio “Il Martirio di San Matteo”. Senza saperlo, ancora prima di arrivare alla fine del suo racconto, sono stata alla Chiesa di San Luigi dei  Francesi, dove se si lascia un’offerta in moneta, il quadro del Martirio si illumina in tutto il suo  splendore. Un uomo sta per uccidere il vecchio che non ha scampo di fronte alla morte certa, intorno  a lui i personaggi si dileguano dal centro della scena, impauriti o indifferenti; l’unico che guarda  impietosito la povera vittima è un uomo con la barba, che secondo gli esperti rappresenta Caravaggio stesso. “Dipingendo il proprio sguardo, Caravaggio definisce l’unico modo di poter guardare  all’orrore del mondo. Stabilisce geometricamente la giusta distanza a cui collocarsi per fissare la  bestia. Dentro la tela, manifestamente accanto alle cose, non fuori con il pennello in mano. Eppure  sa anche che tale sguardo è inefficace, non cambierà il corso delle cose”. Forse, in un mondo  costituito da una molteplicità di culture che si intrecciano le une alle altre, l’unico modo per vivere in armonia è quello di vedere la realtà accettandone i suoi lati oscuri. Punto di partenza per cercare di  collaborare senza erigere muri, ma porte comunicanti che consentano di conoscersi senza paure e chissà anche di amarsi.

Irene Pulcianese

BIBLIOGRAFIA: 

  • “La frontiera”, di Alessandro Leogrande
  • Internazionale, 5 Novembre 2019 
  • Internazionale, n 1377, 25 settembre 2020
  • Internazionale, n 1391, 8 gennaio 2021

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Morire migrando: la banalità dell’esclusione come male morale

Mediterraneo. Un piccolo mare, percorribile dalla sponda Sud alla sponda Nord a bordo di un
gommone alla deriva. Un mare grande abbastanza da nascondere i suoi naufraghi e da separare
due diverse rive, due mondi distinti.
L’Africa, il Terzo Mondo piagato dalle guerre e dai soprusi, dalla miseria e dall’assenza di
prospettive, dall’Europa, il Vecchio Continente, il continente dei vecchi che vegliano sulle
bandiere dei diritti dell’individuo, sulla giustizia sociale e sul benessere diffuso.
Tra questi mondi, delle figure tentano la traversata da una spiaggia opposta all’altra: da Sud
verso il Nord, da Est verso l’Ovest. Vedendosi il passaggio ostruito il più delle volte.
Individui che intraprendono rotte “illegali”, andando incontro alla morte tra le onde o alla fortuna
di una accoglienza “esclusiva”, o ancora al trattenimento sul suolo d’approdo in attesa del
respingimento. Strategia applicata in Libia, in Africa, ma anche a Lesbo, in Europa, dove i centri di
identificazione trattengono in condizioni disumane migliaia di persone, riducendo drasticamente
il numero degli arrivi sul continente.
Una soluzione “eliminatrice” che scopriremo, attraverso Arendt e Kant, essere il prodotto della
deresponsabilizzazione dello “spettatore” che guarda dalle rive del Vecchio Mondo alle mani
che chiedono aiuto, sommerse dal mare, e che coincide con il punto (forse) di non ritorno della
banalizzazione del male morale dietro cui prende forma l’inumano.

Rotte, accoglienza esclusiva, internamento
La prima ad essere chiusa è stata la cosiddetta rotta occidentale: quella che dal Marocco,
attraverso Ceuta e Melilla, portava alla Spagna, cioè all’Europa. Quella stessa Europa che,
attraverso l’agenzia Frontex, ha sottoscritto lo sbarramento delle frontiere.
Seguì la rotta balcanica, circondata di filo spinato dalla Macedonia all’Ungheria, alla Serbia, alla
Slovenia, alla Croazia: la rotta orientale sarà serrata nel marzo 2016 tramite un accordo tra
Turchia e UE che impedisce il filtraggio dei migranti in Grecia.
Salvo alcune “isole di sosta”, tra cui Lesbo, destinate a centri di riconoscimento temporanei, e
divenute invece un limbo infernale di baracche e tende, che il recente incendio, a Moira, ha solo
reso più visibile.
Per quanto riguarda la rotta centrale, l’assenza di un interlocutore statuale affidabile in Libia ha
portato in molti, provenienti dall’Africa subsahariana, dal Sudan, dall’Eitrea e anche dal Medio
Oriente siriano e afghano, ad affidarsi alle maglie dell’economia dei traffici di esseri umani,
stretta nelle mani di cartelli criminali d’accordo con le milizie locali.
Dopo la breve parentesi di (apparente) solidarietà europea, seguita alla decisione della Germania
merkeliana di aprire le porte ai profughi siriani, rifugiati soprattutto in Ungheria, e che ha portato
alla firma, nel settembre 2015, di un accordo di equa ripartizione dei migranti trattenuti in Italia e
in Grecia tra tutti i Paesi dell’Unione, l’Europa ha optato per la politica del respingimento. Anche
detta strategia del “contenimento dei flussi”.
In Italia, Paese d’approdo d’Europa, una simile strategia viene incarnata, nel giugno 2017,
dall’allora Ministro dell’Interno Minniti: il numero degli arrivi crolla vertiginosamente, da un giorno
all’altro, nel luglio della stessa estate.
Si era verificato, infatti, un cambio di paradigma politico, e al respingimento in Europa era stato
preferito il contenimento in Libia dei flussi: non è difficile immaginare un accordo, patrocinato
e finanziato dall’Italia, tra le milizie del non-Stato nordafricano, con obiettivo l’adozione di una
comune linea di contrasto dei traffici. O, meglio, di riconversione dell’economia basata sul
traffico dei migranti in una basata sul doppio sfruttamento di questi, giunti in Libia pagando e qui
rinchiusi in vere e proprie prigioni, in condizioni disumane.
Occasione, questa, per acquisire una immagine di affidabilità agli occhi delle potenze europee e, magari, un’investitura di legittimità politica nella costruzione del Paese lacerato.
Veniva inaugurata la strategia dell’internamento. Ne seguì un’ancora più netta riduzione delle
partenze, ed un riassorbimento della conclamata emergenza migratoria, cui, in tempi successivi,
hanno fatto eco le politiche di criminalizzazione delle ONG e di smantellamento degli Sprar,
operate dal Ministro Salvini sotto la Presidenza Conte, e già preannunciate nelle campagne
elettorali di altri partiti e movimenti.
Così ci avviamo a festeggiare, il 27 settembre prossimo, la Giornata mondiale del Migrante e del
Rifugiato.

Lo spettatore senza responsabilità
Eliminare. Tener fuori, espellere da un limes: un’azione unilaterale, per definizione non condivisa,
che marca una separazione ontologica sulla base di una distinta collocazione geografica. Chi è
eliminato, dunque, è esterno al novero di chi vediamo con familiarità, di chi sappiamo che esiste
e di cui ci curiamo.
Eliminare significa anzitutto cancellare dall’ambito della nostra responsabilità, che segna il primo
confine umano, quello della persona. Sottrarre al giudizio.
Conviene recuperare un’opera postuma lasciata incompleta dall’autrice, Hannah Arendt, e
leggerne in particolare la parte conclusiva, appena abbozzata, dedicata all’atto di “giudicare”.
Punto intermedio che lega il “pensare” e l'”agire”, cioè il riflettete estraniandosi del filosofo e
l’occuparsi politico di chi si immerge nell’attualità: è l’assunzione di una prospettiva d’insieme,
che consente di definire l’ambiente entro il quale inscrivere la propria attività. Ma due caratteri
connotano questa operazione: la temporalità e la condivisione.
La prima da leggere in senso esistenziale, come tratto del modo d’essere dell’essere umano che
ne permette l’esistenza, e non la rifiuta o la rimanda. La seconda da intendere in senso kantiano,
come università presupposta nella razionalità della formulazione del giudizio.
Lo spettatore, anzi, gli spettatori sono testimoni di ciò che accade, ne colgono il destino e
s’impegnano affinché la loro azione possa essere efficace in direzione di un ampliamento
sempre maggiore del senso del giudizio che motiva le loro scelte: potremmo dire, al di qua di
ogni metafisica, che essi si protendono al miglioramento dell’umanità dell’uomo. Humus di ogni
azione veramente politica, secondo una posizione aristotelica.
Dall’altro lato, invece, sta l’opzione del disconoscimento. È sempre Arendt a parlarcene:
la “banalizzazione” della rinuncia volontaria al giudizio, la “banalità del male” che è già
deresponsabilizzazione, fa da chiave di volta dello scritto su Eichmann e delle riflessioni sui
campi nazisti (e non solo nazisti).
L’idea del campo, che secondo Primo Levi non abbisogna di altro che di “un terreno e un filo
spinato”, è il prodotto eminente della deresponsabilizzazione: elimina infatti alla vista, perciò
da qualsiasi riferimento e connessione, i suoi detenuti, della cui esistenza sospesa, invisibile e
silenziosa non si sa più niente. È una concezione che ha diversi gradi di applicazione (Arendt
riconosce tre diversi tipi di campo) ma che si fonda su un’immagine che attraversa le tipologie in
un crescendo di gravità nel trattamento dei detenuti, muovendosi nel solco di una unica strategia
politico-esistenziale: l’eliminazione, appunto, solo declinata in diversa maniera.
È ciò che fa del campo un istituto moderno, connaturato con il mondo degli Stati nazione, perciò
tanto con l’era delle democrazie quanto con quella dei totalitarismi. Perché finché v’è un limes,
v’è necessariamente un’eliminazione.

La banalità del male morale
Banale è il male. Lo compie Eichmann, un uomo del tutto normale, noioso, morbosamente
comune.

Lo compiono gli impegati del Reich tedesco che firmano le carte per il viaggio verso i campi
tanto quanto i soldati che si occupano dello svuotamento dei vagoni e le squadre speciali
deputate a prelevare i corpi dalle camere a gas e bruciarli nei forni. Non è un fatto straordinario,
non è un’epifania del demonio: è l’occupazione del padre di famiglia, un lavoro come un altro.
Ripetitivo, addirittura poco entusiasmante.
Ma la banalità non assolve il carattere malvagio del colpevole: il male, anche così, è una scelta.
Direbbe Kant un cedimento alla propensione naturale umana alla disobbedienza alla legge
morale, nella voluta ignoranza del suo contenuto universale, in nome di interessi particolari,
contingenti, ipotetici.
Disconoscere la legge universale della ragione, l’imperativo categorico, significa rinunciare
all’unico sentimento che Kant ammette nel novero della morale in senso stretto: il rispetto, che si
dà nell’attribuzione all’altro della nostra stessa moralità, dunque la nostra stessa libertà, essenza
dell’umano. Significa, perciò, negare in noi l’essere umani, perché la legge è morale se si applica
all’umanità, e non ad una parte di essa; così il rispetto non è riferito ad un uomo, ma all’uomo in
generale.
Nessuna benevolenza, dunque, è dovuta a chi chiede che gli venga riconosciuta eguaglianza
in diritti, libertà ed opportunità, ma il rispetto: non un gesto super-erogatorio, ma un atto
eminentemente legale, formalmente necessario.
Non farlo, è cedere al male. Cioè essere inumani, conservando un’apparenza di ciò che non siamo
nella banalità smunta della nostra dedizione quotidiana al nulla.

Lorenzo Ianiro

Portare il dramma degli invisibili agli Stati generali: intervista ad Aboubakar Soumahoro

Aboubakar Soumahoro, sindacalista da anni in prima linea nella lotta per dar voce agli ultimi, è da questa mattina incatenato a Villa Pamphili. Ha iniziato lo sciopero della fame per avere ascolto, e nel pomeriggio è stato ricevuto da Giuseppe Conte.

Buongiorno Aboubakar Soumahoro, lei si trova oggi a Villa Pamphili, luogo degli Stati generali, per protestare su una non azione da parte del governo che aveva prima promesso di regolarizzare i lavoratori immigrati, sia africani ma anche sikh e italiani sfruttati dal caporalato. Il governo ha proceduto a una regolarizzazione parziale soltanto temporanea di circa duecentomila persone. Che cosa chiede oggi?

Quello che chiediamo è che il governo metta in campo delle risposte concrete per dare ascolto alle grida di milioni di persone, italiane e non italiane, che si sentono soffocare per via della miseria che vivono, della condizione di invisibilità, di esclusione. Quindi per questo motivo abbiamo iniziato questo sciopero della fame e della sete chiedendo tre cose al governo: la prima è una riforma della filiera agricola, che consenta e garantisca alle cittadine e ai cittadini di avere un cibo eticamente sano, liberando gli agricoltori, i braccianti e i contadini dalle catene dello sfruttamento generato dalle imposizioni dei giganti del cibo. Poi c’è il tema della necessità di un piano nazionale per l’emergenza lavoro, e l’ultima riguarda la questione della regolarizzazione di tutti gli invisibili, quindi cancellazione dei Decreti sicurezza, rilascio di un permesso agli invisibili che sia convertibile per attività lavorative e concessione della cittadinanza ai bambini nati o cresciuti in Italia.

Alla luce delle proteste che ci sono state negli Stati Uniti contro il razzismo, c’è stata una contro-protesta da parte dei suprematisti bianchi e ci sono state varie proteste anche in Europa. Lei crede che sarebbe il caso di adattare il movimento del Black Lives Matter anche ai temi italiani, per esempio tutte le persone che vengono sfruttate e tutti gli episodi di razzismo che purtroppo portano anche alla morte di diversi contadini e diversi invisibili, come per esempio è successo a Terracina qualche settimana fa.

C’è il tema del lavoro interessa a tutti, abbiamo il tema della razzializzazione che interessa a parte della nostra popolazione e i fenomeni di razzializzazione vale a dire i processi di razzializazione in Italia vanno avanti da quasi una trentina d’anni a livello di legislazione, però se vogliamo declinare la razzializzazione nel nostro contesto, sono del parere che bisogna stigmatizzare quelle politiche razzializzanti per il colore della pelle, razzializzanti per la classe sociale, razzializzanti per la diversa provenienza geografica o la diversa appartenenza religiosa. La sfida è quella capacità di tenere insieme la razzializzazione, quella senza razza, vale a dire anche la razzializzazione per la classe di appartenenza, quindi sui temi delle disuguaglianze sociali, l’invisibilità che non è soltanto un’invisibilità di colore della pelle ma un’invisibilità rispetto al dramma dell’occupazione per i giovani, la mancanza di una prospettiva, di una visione, il tema delle donne: è questo quello che chiamo una razzializzazione senza razze. Ricordiamolo che molti Italiani furono razzializzati in altri Paesi non per il colore della pelle, ma per la loro classe d appartenenza. Non dimentichiamolo mai. Questo ci dovrebbe consentire di ricomporre unendo varie persone che sono state colpite da queste politiche ma soprattutto andando oltre lo spirito razzializzante.

Cosa potrebbe fare il cittadino medio italiano per intervenire attivamente a supporto di questa campagna?

Bisogna informarsi. Bisogna leggere. La cultura serve, la cultura è vita, ma che sia una cultura capace di svegliare le coscienze. Bisogna studiare, studiare, studiare, soprattutto i giovani.

Darsin Vigevani

 

Corridoi umanitari

Durante la settimana dei Dialoghi sull’Europa al dipartimento di Scienze Politiche Sapienza, in un incontro tenutosi lunedì 19 Marzo 2018, il professore D’Angelo e il giudice Cottatellucci hanno approfondito e analizzato un nuovo progetto nato in Italia nel 2015, un progetto che ha attirato molte attenzioni in tutta Europa per la sua funzionalità: i corridoi umanitari, una nuova via d’accesso legale per l’Europa. Grazie anche alla testimonianza diretta di Dawood Yousefi e del suo viaggio odisseico per arrivare in Italia dall’Afghanistan è stata sottolineata la necessità di progetti nuovi e concreti come questo. Ma cosa sono concretamente i corridoi umanitari? Chi riguardano? E soprattutto: come funzionano?

I corridoi umanitari sono un progetto realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese in accordo con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e quello dell’Interno. Il primo protocollo d’intesa è stato firmato il 15 dicembre 2015. Il protocollo consente l’entrata legale e sicura a tutte le persone  in “condizioni di vulnerabilità” (ad es. vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, donne sole, anziani, malati, persone con disabilità) nel territorio italiano attraverso il rilascio di un visto umanitario e successiva presentazione della domanda d’asilo.

La possibilità di ottenere un visto prima ancora di essere in territorio italiano abbatte le barriere territoriali, grande limite delle norme vigenti a livello internazionale. L’art. 33 della Convenzione di Ginevra, così come le direttive europee, vietano fermamente l’espulsione o il rinvio al confine di un rifugiato, a meno che non sia un pericolo per la società. Questa norma, senza ombra di dubbio razionale, comprende dentro di se una grande contraddizione. I rifugiati a cui non viene garantito un visto d’ingresso, procedura regolamentata dal decreto legislativo 286 del 1998, possono decidere comunque di tentare di raggiungere le coste italiane consapevoli del fatto di non poter essere riportati a confine o essere dichiarati automaticamente illegali. Per questo motivo molti rifugiati utilizzano tutti i loro risparmi per intraprendere viaggi pericolosi e sfidare le acque del Mediterraneo, allo stesso modo una soluzione come questa automaticamente porterebbe avanti una lotta contro il business degli scafisti e dei trafficanti di uomini.

Dawood, quando 15 anni fa partì dall’Afghanistan insanguinato dalla guerra per arrivare a Bari, aveva solamente 17 anni. Il viaggio durò 11 mesi e lungo il percorso un suo amico perse la vita. Dawood, ancora minorenne, scappò dal suo paese nativo per raggiungerne un altro dove non gli si negasse il diritto alla vita. La sua testimonianza fa capire quanto occorra un sistema che tuteli delle fasce civili, come i minorenni, in maniera tale che possano trovare rifugio in un paese straniero senza correre il rischio di perdere la vita.

Nella prima fase del progetto i paesi coinvolti sono Libano e Marocco, nella seconda l’Etiopia. Tra i paesi con il più alto numero di rifugiati nel proprio territorio, il Libano conta 1 milione e mezzo di rifugiati, una buona parte siriani.

L’ex Primo Ministro italiano, Paolo Gentiloni, ha espresso apprezzamento per il rinnovo del protocollo d’intesa che permetterà l’arrivo di 1000 rifugiati anche nel biennio 2018/19. Successivamente ha sottolineato la “proficua sinergia tra società civile e istituzioni”. Il meccanismo del rilascio del visto è azionato da una collaborazione tra le due parti, gli esperti e i volontari dalle società aderenti al progetto contattano le associazioni territoriali che operano nei paesi interessati (ONG, Chiese e organismi ecumenici) per compilare una lista di coloro che possono aderire all’opportunità di ottenere il visto. In un secondo momento la lista, esaminata e controllata, verrà trasmessa alle autorità consolari e al Ministero dell’Interno. Quest’ultimo, secondo il decreto legislativo del 25 Luglio 1998, n. 286 sulle “disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, hanno diritto all’ultima parola.

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Il progetto ha una sua struttura ben precisa, ma la domanda sorge spontanea: ma i finanziamenti? E soprattutto una volta arrivati in Italia quale destino attende i rifugiati? In risposta alla prima domanda il progetto è completamente autofinanziato. I finanziamenti vengono raccolti in larga parte dall’otto per mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdesi, ma anche da altre raccolte e donazioni, come la Campagna lanciata dalla Comunità di Sant’Egidio. Analogamente l’accoglienza e l’integrazione sono a carico delle organizzazioni promotrici. Così come i finanziamenti anche l’accoglienza e l’integrazione sono a carico delle organizzazioni promotrici. L’integrazione nel tessuto sociale territoriale e culturale italiano non può che passare dall’apprendimento della lingua italiana e la scolarizzazione dei minori e, ovviamente, altre iniziative.

In conclusione, il progetto illustrato propone un’alternativa valida alle politiche sull’immigrazione europee ed internazionali. Oltre ad aver ottenuto elogi dalle cariche istituzionali italiane più alte, il progetto ha attirato le attenzioni dell’Unione Europea. La Francia e il Belgio hanno adottato lo stesso metodo per accogliere rifugiati nel loro territorio nazionale. I corridoi umanitari rappresentano una proposta alternativa, le organizzazioni realizzatrici del progetto permettono di avere una struttura ben oliata e funzionale. I rifugiati arrivano nel territorio nazionale in sicurezza e legalità, e soprattutto ricevono un’accoglienza adeguata. Infine i corsi di integrazione assicurano loro la possibilità di avere un futuro nel paese ospitante.

Oscar Raimondi

Oltre la bandiera del buonismo

Ogni tanto apro un giornale (rigorosamente online perché tanto sono una millennial) o guardo un tg in cerca di qualche traccia di una sinistra che si incontra per discutere della propria identità e del proprio linguaggio in maniera onesta e critica. Puntualmente vengo delusa da notizie che raccontano di dichiarazioni sulla necessità di fare, cambiare, resistere a cui segue il nulla o di risposte ad attacchi dalle destre che nella maggior parte dei casi fanno semplicemente il loro gioco.

Considerato che di élite in grado di mettere le mani sul ripensamento dei modelli e dei paradigmi della sinistra non sembra vedersene all’orizzonte, sento la necessità per ii tanti disillusi come noi di farlo in maniera sempre più seria.

Così ho deciso che era il momento di mettere mano su un’etichetta che è diventata una delle maggiori bandiere della nostra sinistra e su cui un po’ di analisi lontana da banalizzazioni e semplificazioni mi sembra per questo particolarmente rilevante: il buonismo.

Il motivo non è perché voglia difendere o attaccare i buonisti, tra i quali mi sono tra l’altro riconosciuta a fasi alterne in un dibattito politico sempre estremamente dialettico, che tende a lasciare spazio solo per gli aut aut. Tanto più che da quando le destre sono al potere, sentono sempre meno la necessità di attaccare e manipolare una sinistra che tende già al suicidio e agli autogol definendola in tal senso.

Il motivo è legato al bisogno profondo di analizzare e ridefinire il contenuto e il linguaggio della sinistra, se non per motivi di affinità ideologica, quanto meno come modo per difendere la sostanza della democrazia che necessita di forze plurali per poter rimanere tale.

Esiste un legame imprescindibile tra pensiero-linguaggio-azione. Nell’essere umano ognuno di questi concetti plasma l’altro e questo potere creatore non dovrebbe mai essere sottovalutato.

L’utilizzo del termine buonista deriva in parte dall’esistenza di azioni “buoniste” ma ha anche avuto l’effetto di generare parole e atteggiamenti cosiddetti buonisti, portando la sinistra ad approcciarsi all’altro paternalisticamente e pietisticamente, e aumentando così la distanza tra base ed élite.

Nel dizionario Treccani il buonismo viene definito come:

buonismo s. m. [der. di buono]. – Ostentazione di buoni sentimenti, di tolleranza e benevolenza verso gli avversari, o nei riguardi di un avversario, spec. da parte di un uomo politico; è termine di recente introduzione ma di larga diffusione nel linguaggio giornalistico, per lo più con riferimento a determinati personaggi della vita politica.

La reazione di molta sinistra italiana è stata quella di accettare un’etichetta che, a mio parere, non avrebbe mai dovuto essere accettata nel contesto del nostro dibattito politico ma che lo è stata nella circostanza di una crisi di identità che ha portato la sinistra a definirsi sempre di più in alternativa alle destre pur andando a somigliargli ogni giorno un po’ di più.

La parola buonismo compare per la prima volta nel 1995 ma trova la sua radice etimologica nel concetto di pietas, che nel significato classico così come in quello religioso, si riferisce al rispetto dei valori tradizionali in quanto giusti e sacri. Soprattutto nella concezione cristiana, il termine pietas, e di conseguenza il termine buonismo, hanno a che fare con la dimensione sociale dell’uomo e dell’incontro con l’altro ma riporta il sistema valoriale della sinistra ad una dimensione di altruismo.

Se pur l’altruismo rimane un concetto sacrosanto che può portare a grandi azioni e sacrifici, la politica e la società non possono fondarsi sull’esistenza di tante Giovanne d’Arco. Non si crede nell’eguaglianza, nella solidarietà e nella collaborazione perché si è buoni ma perché si è consapevoli dell’enormità dei limiti dell’essere umano, la quale trova nell’unione una strategia di sopravvivenza iscritta nei geni e nell’istinto dell’uomo.

Il sociologo Richard Sennet ha analizzato il rapporto con l’altro in termini di competitività e collaborazione, descrivendo il comportamento umano legato all’incontro e allo scambio come un continuum divisibile in cinque segmenti: scambio altruistico, scambio simmetrico, scambio differenziante, scambio a somma zero, scambio “asso piglia tutto”.

Per scambio altruistico si intende quello scambio che ha a che fare con il dono e che deriva da un colloquio con il sé interiore, il quale gioca il ruolo di giudice. Lo scambio altruistico tipico dell’essere umano è la manifestazione di un’interiorizzazione di principi che diventano più importanti della propria personale sopravvivenza. L’esempio di una madre che si sacrifica per difendere la vita dei suoi cuccioli descrive questo tipo di scambio.

Parlando di scambio simmetrico, invece, ci si riferisce al modello del win-win game, dove le parti si incontrano e, attraverso il comportamento programmato e la mediazione ambigua favorita dall’informalità, arrivano a negoziare una soluzione che impegna tutti e contemporaneamente permette a tutti di portarsi a casa qualcosa. In natura, la costruzione del nido in gruppo è un esempio di questo scambio, da cui tutti coloro che partecipano guadagnano.

In mezzo al continuum troviamo lo scambio differenziale, il cui principale strumento è la conversazione dialogica, basata sul principio che ognuno ha qualcosa di diverso da offrire all’altro. L’esperienza diretta distingue questo scambio da quelli precedenti trasformando i punti di vista e favorendo la flessibilità. La definizione dei confini tra diverse specie animali descrive questo tipo di scambio, soprattutto perché in natura i confini cambiano costantemente a seconda delle esigenze.

Lo scambio a somma zero, poi, descrive la situazione in cui uno vince e l’altro perde. È un tipo di comportamento programmato che stabilisce le regole dello scambio e che prevede di non assorbire completamente le risorse dell’altro per poter ripetere il gioco competitivo in momenti successivi. La caccia (che non stermina mai l’intera popolazione delle vittime) ne è un esempio.

Infine, lo scambio “asso piglia tutto” presuppone lo scontro e la distruzione totale dell’altro, come nel caso dei genocidi o delle guerre totali. In natura, solo gli animali ai vertici della catena alimentare possono permettersi di adottare questo tipo di scambio, così come nelle società umane, soltanto pochissimi detengono un potere e una forza tali da potersi sentire al sicuro mettendo in atto questo tipo di pratiche.

Tornando al concetto di buonismo, quando i politici di sinistra hanno iniziato ad accettare di essere semplicemente buonisti e di contrapporsi al “muso duro” delle destre, hanno cominciato a leggere e raccontare la realtà come uno scambio altruistico, elevandolo a unica forma di incontro possibile e meritevole.

Ma la realtà dei sistemi delle società umane è molto più complessa di così e presuppone incontri di tutti i tipi. Il momento delle elezioni politiche, per esempio, che rappresenta uno dei momenti più importanti nel concetto di democrazia rappresentativa (almeno formalmente), è uno scambio a somma zero.

In più, gli incontri più interessanti e di maggior equilibrio sono proprio quelli che si trovano a metà del continuum collaborazione-competitività. Chiunque abbia esperienze di lavoro sa bene che un ambiente sano è quello dove ogni lavoratore è spinto dalla competitività a fare del proprio meglio per raggiungere assieme un obbiettivo comune. Ma questo tipo di etica deve essere perennemente sostenuta perché quello tra competitività e collaborazione è un equilibrio sempre molto fragile.

Ecco perché è necessaria molta cautela quando si descrive la realtà utilizzando questa o quella griglia di lettura.

Le retoriche sull’integrazione che da una parte vedono una parte della società approcciarsi all’incontro con lo straniero come uno scambio “asso piglia tutto”, e un’altra come se l’accoglienza fosse uno scambio altruistico dei buoni verso dei “poveracci”, perdono di vista la complessità di questi incontri. Questa semplificazione non permette alla contaminazione di fluire e a nuovi scenari di essere generati attraverso lo scambio dialogico.

Definirsi apertamente e continuamente “buonisti” appiattisce questa complessità e lascia un sapore di ambiguità in bocca rispetto all’intenzione dell’interlocutore perché gli esseri umani possiedono la consapevolezza intuitiva sul fatto che nessun sistema è sostenibile soltanto sulla base del dono e dell’altruismo.

L’altra faccia della medaglia è che nessun sistema è sostenibile neppure in un’ottica hobbesiana, specialmente in situazioni di “coperta corta”, quando l’essere umano attraversa momenti di profondi cambiamenti e instabilità.

Per questo motivo, quello che la politica, e in particolare la sinistra per ruolo ideologico e storico, dovrebbe fare è spingere la convivenza verso il centro del continuum ed impegnarsi in un lavoro di analisi di ogni situazione e di riconoscimento dei vari equilibri.

Allora sì che si potrà cominciare a definirsi buonisti quando questo sarà il caso dello scambio. E non solo a definirsi ma anche ad agire da buonisti. Altrimenti rimarrà soltanto una parola vuota e un’azione di sacrifico a cui la retorica delle destre potrà sempre e facilmente contrapporre la propria retorica e azione di somma zero.

Francesca di Biase

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