Sara (nome di fantasia) ha appena conseguito la laurea in infermieristica. Dopo anni di sacrifici e tirocini al Policlinico Gemelli è riuscita a coronare il suo sogno, quello di lavorare, aiutando coloro che hanno bisogno di assistenza. Persone che entrano in ospedale e non sanno se e quando ne usciranno. Ha scelto di dedicare la sua carriera professionale in un ambiente dove è costantemente presente un clima suddiviso tra vita e morte, in cui non è facile resistere per una ragazza di soli venti anni.
Eppure, nonostante lo stress che si avverte in quel luogo, nel quale il dolore non ti lascia mai, Sara non ha mai perso il sorriso, neanche ora che è stata inviata nel reparto di rianimazione Covid: 20 posti letto che si svuotano e si riempiono alla velocità della luce. Ogni mattina si alza alle 5 del mattino e percorre la galleria Giovanni XXIII. Un gesto che compie da tre anni, da quando ha iniziato a studiare all’Università Cattolica di Roma, ma che ora assume un significato ancora più profondo. Prima di entrare nel suo nuovo reparto deve compiere una procedura obbligatoria per tutelare la sua incolumità e quella degli altri, quella di vestirsi accuratamente di una tuta bianca che dopo un minuto le causa una sudorazione eccessiva, due maschere chirurgiche nel volto che le provocheranno nelle ore successive un lungo segno sul viso.
È il suo primo giorno di lavoro e l’ansia si unisce all’emozione di andare a svolgere quello per cui è nata, aiutare gli altri. Oggi rispetto a ieri però, i pazienti sono quasi tutti malati Covid e non affetti da semplici e curabili patologie. Le chiedo con disinvoltura, data l’amicizia che ci lega da anni, l’età di quei pazienti. La sua risposta mi sorprende, rivelandomi subito che è rimasta colpita dalla presenza di una donna di 40 anni. Lo ammetto, mi allarmo. Aveva malattie pregresse? No. Sana come un pesce, nessuna patologia, eppure si ritrova intubata da fili e macchine che le pompano ossigeno. Come se lo ha contratto? Che domanda inutile, è Covid, se lo è preso e basta. Mi sento immediatamente fragile.
Provo a cercare ad alta voce delle spiegazioni plausibili, ma non le trovo. Riesco solo a pronunciare un “capisco ma bisogna saper interpretare i dati, rispetto ai contagiati nel mondo il numero di morti non è così alto, considerando che siamo 7 miliardi di abitanti”.
Mi risponde cercando di rassicurarmi, ma non riesce a trattenersi dal rivelarmi la verità. “La situazione è grave, anche in molti ospedali del Lazio sono finiti i posti letto per le terapie intensive. Un intero piano del Gemelli, di 11 piani, presenta solo pazienti Covid e molti medici sono preoccupati più per questa ondata che per la prima dello scorso marzo. È vero che il virus attuale sembrerebbe essere meno aggressivo, ma risulta anche più contagioso; tra l’altro alcune risorse, come le mascherine destinate agli stessi infermieri, stanno terminando.” Penso che se una donna ancora giovane e sana si ritrova al reparto di rianimazione, tutti siamo a rischio.
Domando a Sara come è possibile trovare un vaccino sicuro, se ci sono ancora quesiti senza risposte. “Il virus è di tipo RNA, si trasforma in continuazione e questa è una delle motivazioni per cui è così difficile trovare l’antidoto e la cura.” A quanto pare però, l’azienda statunitense Pfizer insieme a BioNTech sembrerebbe esserci riuscita con un risultato efficace del 95%. Nel sito del colosso farmaceutico si tratta proprio la questione della mutazione del virus e si ritiene che “la tecnologia del vaccino RNA abbia la capacità di essere facilmente adattata e potenzialmente modificata in modo relativamente rapido per affrontare nuove mutazioni del virus. Poiché questa tecnologia non include tutto o una parte dell’agente patogeno reale, ma utilizza invece il codice genetico dell’agente patogeno, potremmo potenzialmente modificare il codice genetico del candidato vaccino per affrontare qualsiasi cambiamento del virus.”
Prima di cantare vittoria, però, sarebbe opportuno attendere il prossimo anno quando verranno somministrate le prime dosi del vaccino. L’unica certezza risiede in un solo imperativo categorico: non bisogna abbassare la guardia, soprattutto ora. Sara mi guarda e dice che tra dieci minuti deve scappare perché a breve le ricomincerà un altro turno. “Ti trattano bene almeno i tuoi colleghi?” La sua risposta mi rincuora “Si, la maggior parte sono giovani come me e mi chiedono sempre se ho bisogno di aiuto. La mia tutor mi ha affiancato a lei per questi primi quindici giorni e questo mi rende più tranquilla; è esperta in area critica e potrò imparare molto da lei”. Prima di andare via le chiedo se secondo lei la giovane donna ce la farà ad uscire dal reparto rianimazione. Mi guarda con il suo solito dolce sorriso, “lo spero”.
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