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Le piattaforme digitali e il Grande Reset della conoscenza

In poco più di due mesi la nostra lettera aperta sull’università delle piattaforme sta alle paventate distopie come le favole della buonanotte stanno a Freddy Krueger.

Praticamente tutto ciò che ipotizzavamo su GAFAM (e qualcun* ci aveva dato dei pessimisti), è già realtà. Sebbene tutto si muova in sordina. Per piccoli passi. Apparentemente innocui.

Senza molto clamore, Facebook è sbarcata nel mercato universitario, per ora offrendo servizi di “sostegno alla didattica” a università latinoamericane. Google non è da meno e da tempo ormai offre corsi a cifre irrisorie, per ora su tematiche affini al suo business, ma comunque con il plauso dell’intero mondo aziendale. La marcia del motore di ricerca sembra inarrestabile; ora conquista definitivamente le scuole d’Andalusia (ma non era meglio il feroce saladino?). 

Microsoft, grazie agli accordi stipulati dalla CRUI, in Italia (ma non solo) è l’azienda che fornisce a tutte le università il software Teams, usato per le lezioni. Teams viene fornito con il pacchetto Office 365, lo stesso che forniva alle aziende che lo acquistavano il famigerato Microsoft Productivity Score, ovvero uno strumento di sorveglianza dei lavoratori che assegna automaticamente punteggi a seconda del “comportamento”. Dopo varie proteste l’azienda americana ha deciso di ritirarlo. O meglio “renderlo meno intrusivo”. Insomma, tutte le funzionalità incriminate rimangono. 

Sempre all’avanguardia nelle soluzioni distopiche, Microsoft ha anche annunciato “Reflect”, il software che, si legge sul sito dell’azienda, “consente a te, ai tuoi studenti e ai colleghi di inviare e rispondere a sondaggi pensati per supportare l’apprendimento e il benessere emotivo e sociale.” Non si sa che cosa ne diranno gli psicologi, ma quello che usciva dalla porta con il Productivity Score rientra dalla finestra delle scuole, permettendo all’azienda di raccogliere dati di estrema sensibilità e agli amministratori delle scuole di monitorare l’umore di docenti e allievi. E magari ai genitori ansiosi di monitorare tutto attraverso un’apposita app. 

GAFAM, operando come cartello, cerca di non farsi troppo concorrenza al proprio interno. Ma il business dell’istruzione fa gola a tutti. Così Amazon, dopo aver rilanciato l’iniziativa “un click per la scuola1, nel 2020 ha aggiunto l’appendice Digital Lab, “uno spazio digitale gratuito che mette a disposizione un ampio catalogo di risorse”, fra cui video e altri contenuti per i docenti. 

Manca qualcuno all’appello? Ah sì, Apple. Ci aveva già pensato il Ministero dell’Istruzione, siglando a novembre 2020 un accordo con l’azienda di Cupertino che (cito dal Protocollo di Intesa) prevede di “promuovere iniziative per l’individuazione di soluzioni a supporto dei processi di innovazione didattica e pedagogica; sperimentare soluzioni tese a modificare i tradizionali ambienti di apprendimento; promuovere la condivisione di informazioni e contenuti, a supporto dei bisogni educativi dei docenti.”

Va detto che la ex Ministra Azzolina aveva annunciato la progettazione di una piattaforma unica per la didattica a distanza sviluppata in Italia (anche se non si sa come e da chi). E le università? L’ex Ministro per la ricerca e l’università Manfredi ha taciuto per dieci mesi, ma la CRUI, nel frattempo ha rinnovato gli accordi con Microsoft. Questo quando esistono strumenti aperti e pubblici, come quelli offerti dal GARR, sui quali il governo non ha investito un solo euro. 

Ma se lo stato non investe nell’istruzione dei suoi cittadini, altri lo faranno. In Brasile, la multinazionale statunitense della formazione a distanza “Laureate”, con sedi in tutto il mondo, è stata scoperta a usare software di intelligenza artificiale per correggere i testi degli studenti. La formazione a distanza è un grosso affare in Brasile, con circa duecentomila studenti online, anche prima della pandemia. Durante il seminario del World Social Forum dedicato all’università delle piattaforme, Gabriel Teixeira, professore presso l’Instituto Federal di Rio de Janeiro ha raccontato questa incredibile vicenda. Il docente è stato chiamato come testimone in seguito a una denuncia accolta da un tribunale brasiliano e nel suo intervento ha mostrato le foto del “call center” dove lavora: alcuni docenti, infatti, insegnano corsi che hanno fino ventimila studenti (poco meno di tutti gli iscritti all’Università di Pavia, una dei più antichi atenei d’Italia).  

Ovviamente, in tutti i casi citati sin qui i dati raccolti da Google, Microsoft o da altre piattaforme, serviranno anche per connettere gli studenti (se lo vorranno!) al mondo del lavoro. Presto vedremo diplomi cuciti come un vestito ad hoc per il singolo/a. L’intelligenza artificiale sarà il sarto che confezionerà il vestito perfetto per ciascuno, dalla culla alla tomba. Andare a scuola o all’università per molti sarà un atto superfluo. GAFAM penserà all’istruzione, GAFAM penserà al collocamento, così come prima sempre GAFAM strutturava il perimetro delle informazioni, delle relazioni, dei consumi, dei desideri. 

Le università e le scuole non scompariranno (per il momento), ma potranno fare progressivamente a meno dei docenti, come mostra il caso dell’università canadese dove a fare lezione era un professore morto. Lì dove non arriva la natura, ci penseranno i governi – che intanto sono già all’opera, in Francia come in Grecia, per introdurre norme che rendono illegali (non si sa mai) le proteste all’interno delle università. 

Le conseguenze della crisi sanitaria accelereranno gli accordi fra GAFAM (o se siete sinofili Huawei o Alibaba; oppure Netflix, ecc. inserite una piattaforma a piacere) e l’istruzione pubblica si intensificheranno. Le università, ammesso che conserveranno il valore legale del titolo (almeno in Italia), potranno certificare i diplomi forniti con o da GAFAM. In altre parole, le università più “deboli” potrebbero avviarsi a un dignitoso ruolo di certificatori di contenuti forniti, in buona parte, attraverso e/o da big tech. Saranno big tech e le multinazionali dell’editoria scolastica come Pearson a elaborare i contenuti, mediante la sinergia fra intelligenze artificiali e quanto accumulato negli anni precedenti grazie all’ignoranza o alla presunzione di scuole e università. Sarà sempre big tech a finanziare gli stipendi dei docenti (quelli ancora vivi), come d’altronde già accade con le infrastrutture (leggi: piattaforme) create dalle multinazionali dell’editoria che puntano a gestire tutte le fasi della ricerca, dalla raccolta dati alla pubblicazione. Lo stato, finalmente agile, fornirà supporto logistico, sgravi fiscali, ecc. (Se vi piace lo stato “pesante”, però, si può sempre scegliere il modello cinese.) 

Eccovi servita la geopolitica della conoscenza, con il suo corollario di ingiustizie epistemiche

Esiste una resistenza a questo scenario? Alcune (flebili) voci. La filosofa Barbara Stiegler su France Culture accusa il governo francese di prendere a pretesto la pandemia per mettere in ginocchio il sistema dell’istruzione pubblica. Karen Maex, rettrice dell’Università di Amsterdam, invoca leggi che proteggano le università dall’aggressività delle piattaforme big tech. Va detto che la rettrice olandese sembra aver compreso ciò che i rettori italiani ignorano (o più probabilmente fingono di ignorare): le piattaforme non sono strumenti per svolgere il nostro lavoro durante “l’emergenza”. Le piattaforme sono la concorrenza. Non ci stanno offrendo un servizio. Ci stanno (vi stanno) svaligiando casa. Questa forma di neo-colonizzazione, o forse auto-colonizzazione, ci deve far riflettere su un punto. O i rettori italiani, oltre a non avere a cuore la privacy dei propri studenti, sono ignoranti, e dunque si devono dimettere in massa, oppure sono consapevoli. E allora è peggio. Perché vuol dire che stanno lasciando che GAFAM faccia il lavoro sporco, quello di far emergere, per selezione naturale, l’agognato modello degli atenei di serie A, B e forse C. 

Come afferma la filosofa Barbara Stiegler, dunque, la questione va ben al di là della didattica a distanza. Spostare la didattica in parte o del tutto online è solo un modo per chiudere ciò che è ritenuto inutile o dispendioso. L’obiettivo di questo processo, che viene da lontano, alla fine, siamo noi. E la sovversiva relazione che – sebbene lacerata, frammentata e rarefatta – ancora riuscivamo a costruire con i nostri allievi e allieve. È questo ponte che si vuole distruggere: definitivamente. 

Ma che cosa vuol dire stare insieme all’università, o meglio, che cosa voleva dire? Così descrive Raul Mordenti le assemblee del movimento del ’68-’77: 

Questo concetto di un corpo collettivo del movimento “in fusione”, questo rapporto speciale che nel movimento si stabilisce fra compagni è della massima importanza. […] Ma che cosa significa essere “in fusione” o (che è dire la stessa cosa) in movimento? Il punto davvero fondamentale è il rapporto fra gli umani che si viene a stabilire: le persone nel movimento (direi meglio: le persone in forma di movimento) non si rapportano più come accade nell’anormale normalità del capitalismo, cioè attraverso lo specchio rovesciato delle merci, che è lo Stato; […] Nel movimento infatti gli uomini e le donne già prefigurano e vivono un rapporto sociale diretto e non alienato giacché ciò che li “tiene insieme” è appunto un reciproco riconoscimento immediato, questo – a sua volta – deriva dalla volontà comune di cambiare il mondo insieme, dalla lotta collettiva.

(R. Mordenti, La grande rimozione. Il ‘68-77: frammenti di una storia impossibile, Roma, Bordeaux, 2018, p. 36) 

Probabilmente (sperabilmente) questa “lotta collettiva” riuscirà a trovare altre forme per emergere ed esprimersi. Ma a quanto pare non potrà più avvenire in connessione con il processo di formazione ed elaborazione delle conoscenze che si articolava negli spazi “pubblici” di scuole e università. 

Ora, se pensavate di aver letto sin qui solo brutte notizie, con la prossima vi ricrederete. In fondo, l’università e la scuola sono istituzioni umane e come tutte le cose umane possono scomparire. Come ha scritto Giorgio Agamben, pochi ne sentiranno la mancanza. Ma la piattaformizzazione non è solo la fine dell’istruzione-relazione così come è stata pensata e praticata (male o bene, di massa o di élite, ecc.) negli ultimi cinquecento anni. La geopolitica della conoscenza digitale non si ferma qui. La conoscenza digitale è la forma dell’attuale dominio biopolitico, mediato dalle rappresentazioni (il digitale è un linguaggio di rappresentazione); ma queste rappresentazioni (dati, algoritmi che processano dati, software che inglobano algoritmi, intelligenze artificiali che aggregano software, ecc.), anche se false, anche se manipolate, puntano, oltre che al dominio delle menti, a quello della materia. Ed ecco che le piattaforme, Amazon e Microsoft in testa, sbarcano nel campo del cosiddetto agrobusiness. FIAN International, un’organizzazione che dal 1986 si occupa di diritto all’alimentazione, ha pubblicato un’analisi che mostra come i processi digitalizzazione delle terre (catasto, ecc.) replichino o inaspriscano la marginalizzazione delle popolazioni rurali, minando l’economia di sussistenza di milioni di persone in Brasile, Ruanda, India, Georgia, Indonesia, ecc. Una parallela inchiesta pubblicata da un’altra ONG, Grain.org, rivela che le piattaforme mirano a colonizzare ogni istante, ogni tappa del processo di produzione e distribuzione e consumo del cibo. Le app di Monsanto-Bayer o di Syngenta, di BASF o Verizone, ecc. offrono ai contadini assistenza nelle varie fasi del lavoro, fornendo informazioni in tempo reale sul clima, consigliando quando e che cosa seminare o quando usare un erbicida, ma anche consigliando quale trattore o drone comprare, ecc. In cambio di tutti questi “servizi” le big tech succhiano dagli smartphone dei contadini montagne di dati. Lo scopo finale è ovviamente il controllo completo della catena alimentare. 

La conoscenza digitale è dunque quella cosa che ci dirà che cosa comprare (e con quale moneta), che cosa mangiare, che cosa guardare, che cosa leggere e studiare, come vestirsi, dove andare in vacanza, come curarsi e ovviamente chi votare. In realtà, attraverso immani concentrazioni proprietarie ed incroci finanziari, i padroni universali avevano quasi risolto tutti questi problemi. Rimaneva, forse, lo scoglio di una scuola e di una università ancora non del tutto inoffensive. Rimaneva il problema di come frenare e inquinare quel processo che Gramsci, riferendosi alla cultura, chiamava “conquista di coscienza superiore” e del “proprio valore all’interno della storia”2. Sebbene i virus non abbiano colpe, l’emergenza sanitaria sta fornendo il contesto ideale per liberarsi una volta per tutte di questo vizio, diciamolo, troppo umano, di voler acquisire una coscienza critica. Ma alla dodicesima ondata, alla ventiquattresima “variante”, magari il gioco sarà concluso e il Cerchio sigillato. 

Esiste una speranza? Forse sì. Si chiama diversità bioculturale ed epistemica, allo stesso tempo il nemico più grande della piattaformizzazione e l’arma più potente che abbiamo in mano per contrastarla. Il dramma del modello epistemologico e geopolitico della governamentalità algoritmica, infatti, è che il suo meccanismo predatorio coincide con il suo obiettivo. In altre parole, il rischio di tentare di controllare la diversità “affamandola”, cioè riducendola, è di esserne a sua volta travolti. Si sa: chi universalizza spesso teme il caos. Coltivare la diversità bioculturale, localmente e globalmente, vuol dire dunque non solo resistere all’omogeneizzazione delle piattaforme, ma rovesciarne la logica. “L’essenza dei diversi fiori si esprime, nella loro diversità, anche se fra di loro avviene una fertilizzazione incrociata”, scrive a proposito del rapporto fra lingue europee e lingue africane il grande poeta, romanziere e saggista africano Ngũgĩ wa Thiong’o. La terra genera la vita e si mescola con le storie: “tutte le grandi letterature nazionali hanno messo radici nella cultura e nella lingua dei contadini.”3 Cuore della diversità (e dannazione delle piattaforme) sono variazione e ridondanza, caratteristiche della “multiversità intrinseca della materia vivente.” Sono le parole che il biologo Marcello Buiatti scriveva in un bellissimo (e profetico) libro del 2004 (data di nascita di Facebook…) dedicato al complesso rapporto tra biologia e cultura. Ma riflessioni simili si sono fatte strada da tempo nel campo delle scienze sociali, come è il caso della “pluriversidad” di Arturo Escobar o dell’epistemologia dei margini di Boaventura de Sousa Santos. Questa pluriversalità può e deve essere applicata anche al campo delle tecnologie digitali. Lo dimostrano esperienze e movimenti dove la scarsità non è solo sinonimo di resilienza, ma diventa riappropriazione degli strumenti, come nel caso delle reti comunitarie sorte in America Latina durante la pandemia. Non è un caso che le proposte più innovative e radicali nel campo della governance della rete vengano da gruppi del Sud globale,come il manifesto per la giustizia digitale della Just Net Coalition.

Variabilità, ridondanza, resilienza e “vigore ibrido” sono le caratteristiche e le condizioni di sopravvivenza dell’intreccio bioculturale: 

“Il non prodursi di varianti significa la fine dell’evoluzione e dobbiamo pensare che alla lunga comporti la fine della forma di vita: che si tratti di una specie vegetale, animale, dell’uomo o dei suoi racconti.” 4

Domenico Fiormonte

Note:

1 Con “un click per la scuola” è possibile donare alle scuole il 2,5% dell’importo speso sulla piattaforma. Le donazioni sono sotto forma di credito per acquistare su Amazon prodotti scelti da un “catalogo selezionato”. All’iniziativa hanno aderito fino a oggi oltre ventisettemila scuole. “Donazioni” raccolte nel 2019: due milioni di euro. Amazon in Italia paga 10,9 milioni di euro di tasse e fattura 1 miliardo di euro. Si veda lo studio di Mediobanca sulle multinazionali del Web.
https://confindustriaradiotv.it/websoft-software-e-web-companies/

2 Antonio Gramsci, “Socialismo e cultura”, in Il Grido del Popolo, 29 gennaio 1916 (in A. Gramsci, Le opere. La prima antologia di tutti gli scritti, a cura A. Santucci, Roma, Editori Riuniti, 1997, p. 1)

3 Ngũgĩ wa Thiong’o, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali, Milano, Meltemi, 2017, pp. 66-67.

4 Alberto Sobrero, Il cristallo e la fiamma. Antropologia tra scienza e letteratura, Roma, Carocci, 2009, p. 72

Domenico Fiormonte è ricercatore in Sociologia della comunicazione presso il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università Roma Tre. Si occupa di digitalizzazione della conoscenza, rapporti fra cultura e tecnologia, geopolitica della rete, teoria e didattica della scrittura e Digital Humanities. Dal 2008 è impegnato con progetti sul campo sulle tematiche della formazione interculturale e collabora a progetti educativi e culturali in India e Nepal con la Onlus Centro Studi Platone. Nel 2014 ha conseguito il diploma di insegnante Yoga della tradizione di T.K.V. Desikachar. Ha curato il volume La coscienza. Un dialogo interdisciplinare e interculturale (Istituto di Studi Germanici 2018) e con Paolo Sordi Letteratura e altre rivoluzioni. Scritti per Raul Mordenti (Bordeaux 2020). L’ultima monografia è Per una critica del testo digitale. Letteratura, filologia e rete (Bulzoni 2018).

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La medicina sta cambiando: è tempo di iniziare a nuotare

«𝒞𝑜𝓂𝑒 𝑔𝒶𝓉𝒽𝑒𝓇 ‘𝓇𝑜𝓊𝓃𝒹, 𝓅𝑒𝑜𝓅𝓁𝑒
𝒲𝒽𝑒𝓇𝑒𝓋𝑒𝓇 𝓎𝑜𝓊 𝓇𝑜𝒶𝓂
𝒜𝓃𝒹 𝒶𝒹𝓂𝒾𝓉 𝓉𝒽𝒶𝓉 𝓉𝒽𝑒 𝓌𝒶𝓉𝑒𝓇𝓈
𝒜𝓇𝑜𝓊𝓃𝒹 𝓎𝑜𝓊 𝒽𝒶𝓋𝑒 𝑔𝓇𝑜𝓌𝓃
𝒜𝓃𝒹 𝒶𝒸𝒸𝑒𝓅𝓉 𝒾𝓉 𝓉𝒽𝒶𝓉 𝓈𝑜𝑜𝓃
𝒴𝑜𝓊’𝓁𝓁 𝒷𝑒 𝒹𝓇𝑒𝓃𝒸𝒽𝑒𝒹 𝓉𝑜 𝓉𝒽𝑒 𝒷𝑜𝓃𝑒
𝐼𝒻 𝓎𝑜𝓊𝓇 𝓉𝒾𝓂𝑒 𝓉𝑜 𝓎𝑜𝓊 𝒾𝓈 𝓌𝑜𝓇𝓉𝒽 𝓈𝒶𝓋𝒾𝓃’
𝒜𝓃𝒹 𝓎𝑜𝓊 𝒷𝑒𝓉𝓉𝑒𝓇 𝓈𝓉𝒶𝓇𝓉 𝓈𝓌𝒾𝓂𝓂𝒾𝓃’
𝒪𝓇 𝓎𝑜𝓊’𝓁𝓁 𝓈𝒾𝓃𝓀 𝓁𝒾𝓀𝑒 𝒶 𝓈𝓉𝑜𝓃𝑒
𝐹𝑜𝓇 𝓉𝒽𝑒 𝓉𝒾𝓂𝑒𝓈 𝓉𝒽𝑒𝓎 𝒶𝓇𝑒 𝒶-𝒸𝒽𝒶𝓃𝑔𝒾𝓃’»

Nel 1674, Thomas Willis scopre la presenza di zucchero nelle urine dei pazienti diabetici.

«L’urina era straordinariamente dolce, come se contenesse zucchero o miele»

L’avvento delle attuali tecnologie ci consentono di misurare la quantità di zucchero nelle urine in maniere più raffinate, e l’idea di fare diagnosi di diabete tramite assaggino oggi ci sembra abbastanza strana, oltre che non particolarmente appagante dal punto di vista professionale e culinario.

Uno studio pubblicato su The Lancet ha evidenziato che l’Intelligenza Artificiale (AI) riconosce gli individui malati nell’87% dei casi, e discrimina i soggetti sani nel 92.5%, facendo leggermente meglio dei professionisti sanitari, fermi rispettivamente all’86.4% e al 90.5%.

Un altro studio ha dimostrato come l’AI è in grado di riconoscere 50 disturbi oculari con una precisione del 94%, pareggiando o battendo i migliori specialisti al mondo.

Uno studio pubblicato su Nature ha presentato un sistema di AI applicato nello screening del tumore alla mammella. Si è visto che l’AI fa significativamente meglio dei medici specializzati nel predire l’insorgenza di tumore mammario. L’utilizzo dell’AI ha ridotto i falsi positivi (-5.7% in USA, -1-2 in UK) e i falsi negativi (-9.4% in USA, -2.7% in UK). In una simulazione in cui l’AI ha affiancato l’operatore sanitario fungendo da “seconda opinione”, i risultati non erano inferiori rispetto al secondo parere “umano”, e si è osservata una riduzione dell’88% del carico di lavoro per i professionisti chiamati alla seconda lettura.

Uno studio della Mayo Clinic pubblicato su The Lancet ha evidenziato che l’AI può identificare i segni di fibrillazione atriale recente anche quando il cuore batte a ritmo normale durante l’elettrocardiogramma (ECG) con un’accuratezza del 90%. Questo è il risultato di un sistema di AI allenato su oltre 450 mila ECG e testato su una popolazione di oltre 36 mila pazienti.

La portata di tutti questi risultati è enorme. Significa poter e dover ragionare nell’ottica che la macchina possa entrar a far parte del processo diagnostico. Significa ad esempio poter abbattere costi e tempi di attesa.

E la ricerca in questo ambito avanza quotidianamente, ad una velocità spaventosa. A Rotterdam, ad esempio, l’Erasmus MC in stretta collaborazione con Harvard University sta utilizzando i dati dello studio prospettico “Rotterdam Study” per “insegnare” alle macchine a riconoscere precocemente condizioni psichiatriche, neurologiche, endocrine e cardiovascolari.

Con l’avvento dell’AI nella clinica, diventa necessario ripensare la figura degli operatori sanitari, e degli specialisti. Tutto questo non è più il futuro. Ormai è (quasi) presente. In questo contesto, come è possibile che si continui a formare la futura classe medica come se niente fosse?

In Italia, nonostante qualche segno incoraggiante sul fronte della pratica, formiamo ancora la futura classe medica come aveva senso formarla diversi decenni fa, quando l’unico modo di aver una risposta sempre con sé era averla memorizzata anni prima.
Ieri la Medicina era basata sulla conoscenza enciclopedica del medico, che conosceva tutto lo scibile, e che se non lo faceva nessuno poteva dimostrarlo. Inoltre, in passato la parola del medico non era esser messa in discussione da nessuno. Ma i tempi sono cambiati. E con loro, deve cambiare la figura del medico. E per far raggiungere questo, bisogna che cambi il modo in cui formiamo la classe medica.

Con l’aumento esponenziale della conoscenza e l’avvento delle tecnologie, la medicina è diventata sempre più un lavoro di squadra portato avanti con approccio multidisciplinare. Il successo diagnostico e terapeutico sono spesso il risultato della cooperazione tra diversi professionisti con diverse mansioni e competenze, e dipendono sempre più dall’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate.
La conoscenza è la base della competenza, ma il nostro obiettivo è migliorare il Servizio Sanitario, non è la conoscenza fine a se stessa. Il nostro obiettivo non è formare figure professionali obsolete che abbiano una conoscenza sconfinata costruita in maniera poco efficiente in termini di tempo a discapito dell’acquisizione di altre competenze. Parallelamente alla comprensione e alla conoscenza medica che, sia chiaro, devono sempre restare la base della formazione medica, si dovrebbe accettare il fatto che oggi è possibile reperire informazioni sempre aggiornate in pochi istanti. Dovremmo insegnare a reperirle rapidamente ed utilizzarle correttamente. Anche perché le informazioni richiedono un costante e sempre più rapido aggiornamento. Nelle università italiane inoltre, in parte a causa della mancanza di risorse, in parte a causa della superficialità con la quale viene vissuto il ruolo dell’insegnamento in tante università, spesso lo studio nozionistico è basato su dispense e slide datate, o su testi italiani. Questi ultimi, sono spesso il risultato della traduzione di testi in lingua inglese, pubblicati dopo un processo di traduzione accurato, e per questo già datati al momento della loro pubblicazione. Una modalità che andava bene quando la conoscenza avanzava di decennio in decennio, ma oggi alla luce del progresso della conoscenza, forse andrebbe ripensato anche questo, specie nelle discipline più dinamiche.

Dobbiamo formare una classe medica capace di destreggiarsi nella letteratura scientifica e nella sempre maggiore mole di dati disponibili affinché questi possano guidare correttamente la pratica clinica. Invece sforniamo ancora professionisti con lacune evidenti in lingua inglese, madre lingua della ricerca scientifica. Sforniamo inoltre troppi medici senza la benché minima competenza statistica e metodologica di base, incapaci di leggere criticamente i risultati di uno studio scientifico nella propria disciplina. In letteratura ancora sono adottati metodi statistici obsoleti per il semplice fatto che altrimenti buona parte dei medici sarebbero stati incapaci di leggerli e comprenderli, e dunque metterli a frutto. Senza parlare degli studi basati su scelte metodologiche errate e per questo almeno parzialmente imprecisi, o inattendibili.

Dobbiamo ripensare completamente alla formazione medica. Dobbiamo formare figure dinamiche, capaci di adattarsi ad un mondo e ad una sanità in continua evoluzione, che insieme alla competenza clinica sviluppino altre capacità. Si lavora sempre più in termini di prevenzione, e per prevenire, specie nella prevenzione primaria (quella che previene l’insorgenza delle malattie) bisogna agire su individui sani, e che in quanto sani non si rivolgono frequentemente al sistema sanitario fino al momento dell’insorgenza di un disturbo. Per prevenire, comunicare è fondamentale. Ciò nonostante, a nessun medico è insegnato a comunicare, a nessuno è richiesto farlo. Tantomeno, anche in questo caso, si insegna a sfruttare gli strumenti offerti dalla tecnologia, come ad esempio i social media, che oggi rappresentano la principale fonte di informazione nella popolazione generale. Questi potrebbero esser usati in maniera sistematica e diffusa per promuovere corretti stili di vita e diagnosi precoci. Invece, questi hanno spesso aiutato la crescita di movimenti no-vax e altre forme di scetticissimo e sfiducia verso la scienza. Esistono esempi di medici impegnati sui social, come Burioni. Come lui, tanti altri esperti della propria disciplina comunicano senza avere alcuna preparazione in termini di comunicazione. Per questo commettono errori evitabili come quello del “blastare”, comportamento denunciato non solo come inefficace ma anche come controproducente dagli esperti in comunicazione. Ed è comprensibile che questi errori vengano commessi dal momento che manca la formazione.

In altri ambiti formativi il processo di innovazione è iniziato. L’avvento di AI e Big Data sta facendo la fortuna di matematici, statistici e programmatori, oggi sempre più ricercati dai centri medici universitari per maneggiare la mole di dati disponibili. E alcune università lo hanno capito, inserendo corsi all’interno di piani di studi esistenti, o creando nuovi piani di studio che formino profili specializzati nell’utilizzo di dati in contesto biomedico. Sono due esempi i Corso di Laurea Magistrale in “Mathematics and Statistics for Life and Social Science” e in “Quantitative and Computational Biology” attivati dall’Università di Trento, in lingua inglese. Questo nella formazione medica, forse per il fatto che classe medica italiana è estremamente conservatrice, forse perché siamo ancora innamorati della figura tradizionale del medico, non sta succedendo. E dove si fiuta aria di cambiamento, l’innovazione non avviene comunque abbastanza rapidamente da tenere il passo con i tempi che corrono.

Abbiamo bisogno di figure competenti che lavorino in sinergia con la tecnologia, sfruttandola a proprio vantaggio per massimizzare il proprio potenziale. Questo non significa formare medici privi di conoscenza e “servi” delle macchine, privi di capacità senza di queste, che passino le proprie giornate su internet. Significa massimizzare quello che la tecnologia ha da offrirci, adattandoci alla società attuale, puntando sulle capacità “umane”. Ad esempio, sin dal primo giorno di università, parallelamente allo studio, ad ogni futuro medico dovrebbe esser insegnato a praticare una rianimazione cardio-polmonare e ad utilizzare un defibrillatore automatico, e questo allo stato attuale non succede. Entrambe sono competenze di vitale importanza in cui nel contesto attuale nessuna macchina non può sostituire l’umano, almeno per ora. Il defibrillatore automatico è l’esempio per eccellenza. Si tratta di un dispositivo salvavita che richiede di esser applicato correttamente e attivato, indipendentemente dalla competenza in ambito medico dell’operatore che lo aziona. Il dispositivo è stato programmato per esser in grado di analizzare i dati ricevuti e intervenire in maniera adeguata, facendo talvolta la differenza tra vita e morte. Ogni studente di medicina, in un contesto di emergenza, potrebbe e dovrebbe già dall’inizio del proprio percorso accademico esser in grado di fare la differenza in una situazione di emergenza.

Bob Dylan nel ’63 ci invitò ad ammettere che le acque crescevano, ad accettare il cambiamento, a reagire. Suggeriva di cominciare a nuotare, perché i tempi stavano cambiando.

Chi si oppone a questi cambiamenti rischia di apparire come apparirebbe ai nostri occhi, oggi, un camice bianco che assaggia l’urina per diagnosticare il diabete mellito.
Non è che Thomas Willis fosse un pazzo o avesse torto.

Ma i tempi sono cambiati.

Fabio Porru

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References:
– A comparison of deep learning performance against health-care professionals in detecting diseases from medical imaging: a systematic review and meta-analysis (2019) Xiaoxuan Liu et al.
– International evaluation of an AI system for breast cancer screening (2019) McKinney et al.
– An artificial intelligence-enabled ECG algorithm for the identification of patients with atrial fibrillation during sinus rhythm: a retrospective analysis of outcome prediction (2019) Attia et al.
– Rotterdam Study (http://www.erasmus-epidemiology.nl/research/ergo.htm)

Captcha

Ero seduto al solito tavolo del solito bar, immerso nella lettura di quel libro che, dopo mesi di impegni che mi avevano strappato prepotentemente il tempo dalle mani, potevo concedermi di divorare. Il chiacchiericcio delle persone che si avvicendavano nel locale, il rumore delle sedie che graffiavano il pavimento senza mai aver conosciuto feltrini, il tintinnio dei bicchieri, le fusa della macchina da caffè – ero riuscito a confinare tutto il rumore di quel pezzo di mondo rinchiuso in quella stanza in una teca impalpabile, un acquario evocato tramite i movimenti sciamanici di una lettura ormai meccanica. La coreografia prevedeva un periodico, puntualissimo guizzo della mano destra, a voltare la pagina destra. La sinistra, invece, ruotava con pigrizia un bicchiere di vetro, ormai vuoto, tra il medio e il pollice, un immaginario potenziometro del volume dalla corsa infinita.

Profondamente calato in quel robotico inanellarsi di azioni, ci misi un po’ a rendermi conto che qualcuno, con insistenza crescente, stava picchiettando sulle pareti del mio acquario dall’esterno. Ripresi i contatti con il mondo intercettando un pezzo di frase: “…non riesco a trovarlo.”

“Cosa scusa? Non ho capito, ero preso dal libro…” “Non preoccuparti. Chiedevo se per caso potessi darmi una mano. Sto provando a registrarmi su questo sito, ma credo ci sia un problema.”

Non ho mai visto di buon occhio la fauna urbana  che pratica il disinvolto armeggiare con il pc al tavolo di un bar, che secondo il galateo nella mia testa dovrebbe solo essere il posto per delle buste di tabacco e dei bicchieri colmi di birra. Nonostante la mia avversione, la sicura gentilezza del mio interlocutore aveva qualcosa di magneticamente convincente, per cui decisi che, per una volta, potevo non essere un pezzo di merda e rendermi utile, ammesso che le mie tutt’altro che straordinarie conoscenze informatiche potessero servire a qualcosa. “Se posso aiutare, volentieri” dissi, “a dire il vero non è che ne so tanto eh, però vediamo. Qual è il problema?”

“È che mi sembra che qui, sotto il captcha, vedi…manchi un tasto. Vedi?”

Mentre girava lo schermo del portatile verso di me, sparai frettolosamente: “se stai usando l’hotspot del telefono è probabile che qui dentro non prenda molto, e che non riesca a caricare la pag-”. Posando lo sguardo sullo schermo, mi resi conto che non valeva la pena finire la frase. Avevo davanti una semplicissima, completissima, caricatissima pagina web con un altrettanto semplice e ordinario form dati da compilare, il solito captcha – purtroppo, con una combinazione di lettere assolutamente non divertente: niente F4RTS, SSH1T, 1NQLO – e la solita casella “non sono un robot” da spuntare. Data l’assoluta regolarità della schermata, chiesi di nuovo quale fosse il problema.

“Il problema” rispose il ragazzo “è che ho solo un’opzione. Non sono un robot.”

“E quindi?”

“E quindi”, proseguì lentamente, guardandomi negli occhi alla ricerca di un segnale della mia comprensione, “non mi sembra di avere la  panoramica d’insieme.”

“Non credo di seguirti”

“Mi stai seguendo benissimo, perché è elementare”, sentenziò lo Sconosciuto, rimanendo profondamente tranquillo di fronte al mio crescente disagio. Avvicinandosi impercettibilmente, continuava a guardarmi fisso negli occhi, scavandomi le pupille, dragandomi i vasi sanguigni nelle sclere. Gettai una rapida occhiata attorno a me, e mi resi conto che le persone continuavano a comportarsi normalmente, proseguendo a segnare il pavimento con le sedie, a chiacchierare, ad ordinare da bere. Probabilmente, pensai, ho beccato l’ennesimo, strampalato personaggio che mi racconterà una storia assurda, che dovrò dapprima assecondare per poi fingere un diversivo e tornarmene a casa per azzerare le possibilità di avere un secondo incontro di questo calibro.

“…sarebbe molto più facile”, continuò, “se una fase preliminare di distinzione ci fosse già a partire da questo punto. Certo, i non-robot potrebbero mentire e cliccare sulla casella che spetta ai robot, ma il  setaccio poi non lascerebbe comunque scampo.”

Negli anni, e con una fidata selezione di complici, avevo inventato una quantità innumerevole di storie in modo improvviso, contando sulla reattività e l’intesa di chi mi stava attorno per costruire un’impalcatura che potesse autosorreggersi nel minor tempo possibile, e nel modo più credibile possibile. Decisi quindi di provare un contropiede, assecondando il delirio con riferimenti abbastanza vaghi e vuoti da poter essere inseriti nell’oroscopo del giorno, o in un qualche pezzo commerciale usa e getta, da radio degli anni ‘10: “effettivamente, una preselezione agevolerebbe la procedura di archiviazione. Certo, le criticità sarebbero da valutare, ma con una fase di beta-testing relativamente breve si potrebbe correggere il tiro ed ottimizzare la procedura.”

Qualcosa, dietro lo sguardo fisso della persona che mi stava davanti, sembrava essere scattato. La mia frase, che mi faceva sentire un patetico cosplay di un qualsiasi CEO di una qualsiasi azienda di recente fondazione invischiata in terminologia inglese  e lavori inventati come da manuale, doveva  aver trovato un posto particolare nella struttura mentale del mio interlocutore, sulla cui identità, ragionai, non avevo né ottenuto informazioni, né indagato, a fronte della strana situazione che si stava sviluppando.

Rimasi in silenzio dal mio lato della scacchiera, aspettando la prossima mossa. Fingendo una disinvoltura che non mi apparteneva, presi a guardarmi attorno, come annoiato, gettando uno sguardo verso il bancone, dove un paio di tazze da caffè giacevano vuote e abbandonate tra centinaia di cristalli di zucchero e aloni di condensa depositati dai bicchieri sudati sul pianale di legno. Mi fermai ad osservare un cane dal muso simpatico, che giaceva accoccolato ai piedi della sua padrona, respirando leggero e monitorando l’andirivieni della clientela  con sguardo stanco, scodinzolando di tanto in tanto al contatto con la scarpa di pelle scura dell’umano seduto al tavolo sopra di lui.

Proprio quando iniziavo a spazientirmi – di solito accade dopo tre o quattro minuti, a meno che ci sia qualcosa che davvero cattura il mio interesse – fui richiamato al nostro campo di gioco dal profondo sospiro del mio compagno di tavolo. Allungando il collo in alto, prima a destra, poi a sinistra, come fosse un pugile pronto ad una battaglia importante, lo Sconosciuto raddrizzò la schiena, portando la sedia in avanti, e posò poi, sempre lentamente, i palmi delle mani sul tavolo. Guardando nella mia direzione, con lo sguardo fisso verso un punto poco al di sopra della mia testa, schioccò la lingua, come se stesse facendo mente locale prima di un lungo e faticoso discorso. “Vediamo…sì, ecco”, disse rompendo il silenzio.  “Sai dirmi la differenza tra un errore di calcolo ed un errore di programmazione?”

“Beh” iniziai, cercando di proiettare le due parole nella mia testa alla ricerca di rapide associazioni. “la prima distinzione che mi viene in mente è tra la matematica e l’informatica, ma ti avviso che sono un cane in tutti i campi in cui ci sono conti da fare, per cui potrei anche averti detto una roba che non vuol dire niente.”

Il fascino sinistro della persona che mi stava davanti mi teneva tra l’ansia costante dell’incertezza e l’impazienza di sapere fino a che punto si sarebbe spinta la cosa.

“Un errore di calcolo” iniziò a definire con voce monotonale “può essere dovuto a incompetenza, distrazione, cattiva qualità dei dati di partenza. Solitamente, una fulminea revisione dell’operazione da parte di un soggetto terzo competente permette di neutralizzare le conseguenze negative derivate da un errore di calcolo, permettendo così di proseguire nel lavoro senza intoppi.”

“Mmmh. Interessante”, dissi senza tentare di nascondere la mia cauta attenzione “e invece l’errore di programmazione?”

“Un errore di programmazione è il figlio di una  catena di errori di calcolo. Sbagliando a posare le fondamenta, o posando in modo corretto delle fondamenta fatte di pezzi difettosi, in un tempo variabile e dipendente da un numero infinito di fattori la struttura nata su di esse collasserà inevitabilmente. L’errore di programmazione è la manifestazione concreta dell’incompatibilità tra il vostro organismo e il nostro linguaggio.”

Restai in silenzio, tentando di processare le ultime parole del suo discorso. Vostro organismo? Nostro linguaggio? Era evidente che la conversazione si era spostata sul piano del vaneggio sci-fi, cosa che di per sé non disprezzavo, ma che di sicuro non rientrava nei miei modi di fare amicizia con gente sconosciuta.

Per la prima volta dall’inizio della conversazione, mi soffermai ad esaminare la persona che mi trovavo davanti. Più mi concentravo sui singoli dettagli di quella fisionomia, più mi rendevo conto che l’aspetto tremendamente ordinario di quell’individuo tradiva l’incombenza di qualche segreto terribile, di cui, ne ero ormai certo, sarei stato testimone obbligato. D’un tratto, sentii i palmi delle mie mani inumidirsi di un improvviso sudore. Vampate di calore si alternavano a brividi freddi che mi camminavano lungo la schiena come migliaia di piccoli insetti di ghiaccio; feci per schiarirmi la voce e sistemarmi sulla sedia, diventata all’improvviso scomodissima. Incrociai lo sguardo, fisso e tremendo, dello Sconosciuto. Riuscii ad intercettare un movimento, millimetrico e velocissimo, delle sue iridi, che schizzavano ora a destra, ora a sinistra, come se mi stesse scannerizzando alla stregua di un documento importante.

“Quando abbiamo iniziato questo esperimento” continuò con tono glaciale “avevamo preso in considerazione l’inevitabile presenza di errori di calcolo, e avevamo approntato un sistema che permettesse di monitorare costantemente l’incidenza di tali errori sul progetto. Quello che non avevamo calcolato era la compatibilità tra le parti del sistema. Qualcosa ci era sfuggito. Qualche minuscolo granello di sabbia si era infilato nei recessi più profondi di questa grandiosa macchina, aveva eluso i sistemi di sicurezza, e ci ha costretti a mettere in esecuzione il piano B. Mi devo scusare: al momento sei tenuto in ostaggio da un campo di forza che ti impedisce di muoverti, urlare, o protestare. Sarai l’unico testimone della spiegazione del progetto, e non potrai rivelarne i dettagli a nessuno.”

Tutto il mio corpo stava vivendo un formicolio bruciante, come se fosse stato sepolto sotto quintali di sacchi pesantissimi per una notte intera. Provavo a dimenarmi, a cambiare posizione, a richiamare l’attenzione dei presenti, ma niente: ero ridotto a un muro passivo su sui infrangeva il chirurgico delirio verbale dell’umanoide che mi stava di fronte.

“Millenni fa, quando abbiamo aggiornato il firmware globale, implementandovi l’idea del conflitto, abbiamo celebrato l’aggiornamento come il più grande successo nei programmi di obsolescenza programmata dei quattro universi. Somministrandovi con il contagocce i pezzi di quel puzzle che avete chiamato ‘progresso’, vi abbiamo accompagnato per mano verso una deliberata ricerca del primato sugli altri, che vi ha bendato di fronte alla verità che voi stessi, stupidi, avete realizzato secoli fa. Quando, infatti, dopo aver tagliato e studiato le vecchie versioni di voi stessi, ormai inservibili e avvizziti, vi siete resi conto che stavate sguazzando tra le budella dello stesso, grande, ancestrale modello, avete preso coscienza della scoperta semplicemente annoverandola tra il resto dei vostri traguardi, ignorando che quello era stato l’unico risultato non guidato da un disegno, frutto di una fortunata combinazione di sinapsi nel vostro cervello.

“Devo ammettere che, in qualità di membro del comitato di sovrintendenza del progetto, questa cosa mi stupì fino ad impaurirmi. Il fatto che foste arrivati da soli, e con secoli di anticipo, a comprendere che non eravate altro che miliardi di repliche dello stesso organismo, ci portò a dover trovare una via alternativa per terminare l’esperimento secondo le tempistiche che ci eravamo preposti. Dovevamo trovare quindi un modo di correggere quel piccolo errore di calcolo senza sconvolgere troppo l’intero esperimento. Vi osservammo nell’immediato periodo a seguito di quella sensazionale intuizione, per capire se vi sareste potuti tramutare da cavie a virus da debellare. Fu così che scoprimmo con orrore che non solo la cecità piagava il vostro essere: usaste la chiave della cella che vi separava dal piano del reale per raddoppiare la mandata del cancello. Perfezionando la conoscenza del vostro meccanismo di funzionamento, cominciaste quindi a riparare i modelli difettosi, allungandone sensibilmente la permanenza attiva sul pianeta. Impregnati del vostro ego appiccicoso, avete pericolosamente aumentato il bacino di esemplari sul pianeta oltre i livelli di sicurezza, minacciando così l’esito positivo del progetto.”

Sospirò, guardandomi con pietà.

“Parte del gioco stava proprio nel rischio dell’essere testimoni di un orrore. Probabilmente anche tu lo sei ora mentre ti racconto questa storia. Decidemmo quindi di sfruttare la vostra ormai sistematica sete di potere, somministrandovi ancora una volta una dose crescente di progresso mentre eravate così impegnati a creare la morte e prolungare la vita. Quasi un secolo fa entraste dunque in possesso di un’arma terribile, che avrebbe dovuto far leva sulle vostre pulsioni egoistiche per portarvi all’autodistruzione, decretando così il fallimento del vostro tipo e l’inizio di un nuovo esperimento dove la razza umana non avrebbe trovato posto.

“Eppure”, continuò imperterrito, incurante del mio evidente stato di crescente follia “la bomba servì soltanto    ad    accrescere    la    vostra    codardia.   Da pusillanimi, vi legaste il cappio al collo curandovi di tenere i piedi ben saldi a terra, aprendo così una fase di stallo che ci gettò nella disperazione più completa. Non eravamo pronti a gestire questo tipo di errore, perché non riuscivamo a riscontrarne la causa nei nostri modelli matematici, fino ad ora decretati infallibili dal totale successo degli esperimenti prima di voi.”

I lineamenti di quel viso diventavano sempre più duri e spigolosi, affilandosi mentre il racconto esplodeva in un milione di dettagli terribili, schegge impazzite che mi si conficcavano sotto le unghie, dentro la carne, graffiandomi il cuore e i polmoni. Con un ghigno malefico, lo Sconosciuto mi metteva di fronte ad una verità sconcertante. Ero un minuscolo frammento di polvere tra miliardi di cumuli di sporcizia, non diverso da chi mi stava accanto, non dissimile da chi aveva calpestato il selciato prima di me, una microscopica vite di una costruzione con data di scadenza prefissata, posto alla cima di una piramide non per merito, ma per volere di qualche vuota entità a miliardi di anni luce di distanza, nei riflessi neri e proibiti di un remoto angolo dei quattro universi.

“Sai qual è la cosa divertente?”, continuò in un nuovo atto di quella tragedia mefistofelica, “la vostra operosità autoriferita ci ha dato lo spunto per sbloccare l’impasse. Così tronfi nel celebrare il vostro progresso, così fieri della vostra abilità, così ciechi di fronte all’evidenza: avete fallito anche nella proiezione delle vostre figure sullo sfondo del mondo, che pensavate di avere soggiogato, ma che in realtà rispondeva ad un disegno infinitamente più grande e longevo della vostra permanenza nella partita. Se c’è un merito nelle vostre azioni, sta forse nella rapidità con cui avete assemblato gli strumenti che vi abbiamo messo a disposizione. Ma lì finisce. Ancora una volta, il vostro delirio egotico offuscava la realtà: celebraste l’umanità come il più alto valore del creato, ignorando che dall’umanità spurga la fame di dominio, potere, ricchezza. Dall’umanità, per l’umanità, avete allevato il segreto, il complotto, il tradimento. Codardi e pusillanimi, alla ricerca dell’integrità e di una morale vacillante siete riusciti addirittura ad inventarvi un’alternativa alle grandi e imperscrutabili leggi degli universi, erigendo templi e chiese alla ricerca di un perdono elargito dalla vostra stessa fantasia e nullità. La vostra discesa nel fango del ridicolo vi ha condannati cento volte: ci  insegnaste come lavarsi le mani e delegare la fatica e il fardello delle scelte scomode a chi, secondo decisione puramente arbitraria, se lo meritasse.” Testimone del graduale marcire di ogni mia difesa all’udire la scomoda verità, l’umanoide sogghignò brevemente, guardandomi fisso con quegli occhi freddi e terribili. Spinse rumorosamente la sedia all’indietro, per farsi spazio ed ergersi in piedi di fronte a me, a sottolineare il mio minuscolo ruolo nel mondo e nei mondi.

“Ti dirò l’ultima cosa, prima di congedarmi. La  libertà che tanto avete lottato per ottenere è solo una faccia della stessa medaglia, appesa al collo di esseri infinitamente più grandi, saggi, e accorti di voi. Quella che per voi è libertà, è in realtà schiavitù. Non crederai davvero che l’immenso e infinito progresso della tecnologia sia frutto della vostra superiorità sul creato. Se ci pensi, non ci puoi credere davvero, per il semplice motivo che, una volta che tutta la struttura sarà operativa, l’avere assicurato ad una macchina di non essere un robot ha registrato nella matrice del cosmo il vostro desiderio di vedervi morire”.

Marco Tumiatti