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Cosa vedi?

Abbiamo parlato con tre ragazzi che soffrono o hanno sofferto di Disturbi del Comportamento Alimentare e abbiamo provato ad immergerci anche noi nella malattia ponendo loro delle domande molto intime e precise. Tutti i ragazzi si sono messi a nudo davanti a noi, raccontandosi apertamente e senza paura e rispondendo alle nostre domande con molta profondità. Chiara, Sebastiano e Francesca lottano ogni giorno per migliorare la loro vita e oggi vogliono raccontarsi un po’.

Chiara, come ti senti quando ti guardi allo specchio? Come si fa a vivere in un corpo che non vuoi?

Partendo dalla considerazione che il corpo è la “bestia nera”, il fulcro, il punto nevralgico attorno al quale nasce e si sviluppa la malattia, io non direi che non voglio il mio corpo… Non lo voglio così com’è… Ma non adesso, in qualsiasi condizione mi trovassi, che fossero 5 o 10 chili in più o in meno degli attuali 27, io l’ho sempre detestato, violentandomi, massacrandomi quotidianamente con digiuni forzati o abbuffate, in una ricerca spasmodica affinché possa aderire all’immagine interna di una perfezione che di fatto non esiste. Ma il corpo è anche l’unica fonte di vera soddisfazione, perché quando mi guardo allo specchio, più mi vedo scavata, emaciata, magra e sofferente e più mi sento gratificata. Elemento fondamentale nella dispercezione corporea da cui siamo affette è anche il peso, quel numero sulla bilancia che tenta invano di restituirti una realtà che rifiutiamo. 

Io sono una bulimica con compenso da ormai venti anni e questa definizione mi corrisponde, la sento profondamente radicata nella mia essenza più di quanto non faccia il mio stesso nome. 

Mi capita quasi quotidianamente di venire fissata in modo insistente, a volte con disgusto, altre con commiserazione, in particolare da bambini che si rivolgono alle mamme: “Perché è così magra?” e di assistere al disagio delle genitrici che liquidano con poche fredde parole la curiosità dei loro pargoli: “è malata amore”… In un’occasione addirittura una bimba di circa tre anni mi si avvicinò e mi toccò la pancia e le cosce, non riuscendo a farsi capace di quell’immagine così inconcepibile per lei. Vorrei permettermi di suggerire a quelle mamme che si trovano in imbarazzo di fronte alla mia figura, che i vostri figli, in particolare quelli piccoli e sensibili, lo percepiscono e invece che “preservarli” da una realtà di sofferenza, li incuriosite ancora di più e paradossalmente potrebbero rimanere affascinati da un qualcosa che per loro rimane misterioso. Quindi spendete due parole per spiegare loro che la nostra è una malattia terribile, purtroppo sempre più diffusa, ma non siamo esseri alieni o mostruosi… Esattamente come fareste di fronte ad una ragazza in carrozzina perché diversamente abile… 

Noi siamo al contempo vittime e carnefici di noi stesse, ma non l’abbiamo scelto, non ci crogioliamo nella nostra disperazione senza porci quotidianamente domande e tentativi di limitare la forza di un disagio che ci rovina la vita. Per fortuna oggi esistono tanti validi terapeuti e anche qualche struttura funzionale in grado di aiutarci e tante/i guariscono, una speranza che mi accompagna e, nonostante tutte le ricadute e i fallimenti, mi sprona ad andare avanti giorno dopo giorno.

Sebastiano, cosa significa essere invisibile nella malattia? Quanto ti sei sentito solo?

La solitudine ti sbrana più della stessa malattia. Invisibile credo che significhi innanzitutto sentirsi soli, separati, distanti dal mondo che ti circonda. Invisibile è una sensazione che va oltre lo sguardo, la superficie delle cose, il piano della materia. Invisibile è una sensazione che ha a che fare con le connessioni, le intimità, la comprensione, il riconoscimento. Invisibile è stare tra gli altri e avvertire e manifestare un dolore e non riuscire a comunicarlo, o forse, anche di più, comunicarlo e non avvertire un riscontro. Avvertire. Una questione di sensazioni, spesso di fatti: sei tra i tuoi simili, ma ti senti altro. “Ho sperato che il cielo si lacerasse”, scrivevano (forse il mio incipit preferito). Ed è così: nella malattia l’ho sperato a lungo. Che il cielo si lacerasse, che le persone intuissero, che qualcuno o qualcosa potesse essermi abbastanza accanto da capire fino quasi a sovrapporsi. Ammetto. Ho sperato a lungo gli altri potessero infettarsi, lacerarsi, anche soltanto per un secondo. Boccheggiare nel mio dolore e poi tornare a galla, senza fiato, ma con più consapevolezza. Solitudine è quando ti osservano colare a picco e tutto e tutti intorno urlano di farcela e di tornare in superficie soltanto battendo i piedi e le mani. Come uno show. Ma intanto l’acqua ristagna nelle orecchie e tu non senti niente. Solo, invisibile. Eppure questa solitudine può essere spezzata, il mare tornare il cielo, la spiaggia la mano calda che rincorre la schiena – come una formica – fino a farti sorridere prima di dormire.

Francesca, come ti senti quando ti guardi dentro? Cosa provi per te stessa?

Non mi piace guardarmi dentro, soffro molto quando lo faccio. Eppure, a volte, arriva il momento in cui bisogna guardarsi dentro e fare i conti con se stessi. Quando arriva questo momento ho sempre molta paura perché neppure io so chi sono, ancora devo scoprire la mia identità. Scoprire se stessi è un percorso lungo e pieno di ostacoli: si inciampa, si cade e ci si rialza, ma non è affatto semplice. Quando mi guardo dentro provo molta tristezza per me stessa, una grande sensazione di vuoto mi accompagna sempre ed è quasi impossibile colmare questo vuoto. 

Mi guardo dentro e mi sento a pezzi. Sento che la mia identità è divisa in pezzetti minuscoli di me che non riescono a ricongiungersi tra loro. Alcuni pezzi di me sono sani, sono la parte sana di me, quella che vuole lottare e quella che mi urla che posso farcela ad andare avanti; altri pezzi, invece, sono la parte malata di me e mi sussurrano con una voce bassa e decisa, che non ce la farò mai, che sono una fallita, che non devo mangiare, che sono senza speranza, che merito di stare così male. Questa voce maledetta fa da colonna sonora alla mia vita, è un tormento, non mi dà pace, non mi lascia un attimo di tregua. 

Ricomporre tutti questi pezzi di me è molto difficile e spesso non riesco a ricomporre il mio puzzle, oppure perdo i pezzetti sani di me e in mano mi restano solo i pezzetti malati. Che si fa in questi casi? Do ragione alla malattia. Sì, le do ragione. E così, oltre ad una voce malata che mi rimbomba nelle orecchie, c’è anche il mio animo che impazzisce e si colora di nero, e così anche tutta la mia vita. Il nero diventa lo sfondo del quadro della mia vita. Questo colore mi intrappola, mi stringe forte a sé, non mi fa vedere la luce, che invece da qualche parte c’è. Avete presente quando è sera e piano piano si spengono tutte le luci, una alla volta? Ecco, dentro di me succede la stessa cosa. Lentamente tutto diventa nero e in questi momenti sono io che devo trovare la forza per riaccendere una luce o trovarla da qualche parte. Con il tempo ho imparato che posso illuminarmi solamente da sola, non c’è nessuno che possa farlo al posto mio. So che devo concretamente aumentare la luminosità della mia vita e si può fare davvero, serve molta forza di volontà. Quando è tutto nero, mi focalizzo su un ricordo bello che ho e alzo al massimo la luminosità del mio ricordo, fino a farlo brillare. E così, piano piano, la luce torna. In questi casi è inutile stare a rimuginare sui pensieri perché in questo modo aumentano solamente le paranoie e ci si perde nei nostri stessi pensieri.

Tornando alla domanda iniziale, quando mi guardo dentro provo tante emozioni differenti, forse anche troppe, così tante che non so nemmeno distinguerle. Ancora non so bene cosa provo di preciso, sto imparando a conoscermi piano piano e con il tempo imparerò a guardarmi dentro e a decifrare ogni pezzetto di me. Per adesso, mi accontento di guardarmi e basta, mi guardo a distanza, mi guardo da lontano, senza andare troppo a fondo perché ho ancora molta paura del dolore e di scoprire chi sono.

Francesca Motta

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La Ciudad Mald-ITA

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Anche se in fase due, la quarantena sta continuando. Probabilmente conoscete il mio amore per l’America Latina e infatti oggi vi porto proprio lì, precisamente a Envigado, città a sudest di Medellín, e vi presento i sei componenti di un gruppo rap, La Ciudad Maldita, Pablo Medina (23), Zabaz (23), Asir (23), Nieve Leao (24), Tapias Tamayo (24) e Trein (25).

Benvenuti ragazzi, come state?

Ciao, stiamo bene, davvero bene! A bomba!

Come sta andando questa quarantena in Colombia?

Ci stiamo abituando pian piano, ci siamo resi conto di come le persone si guardino in cagnesco, con paura.

Già siete un po’ meno latini, allora! Direi di iniziare, vi conoscete da tanto?

Envigado, la città dove viviamo, è una città piccola, infatti ci conosciamo tutti almeno di vista. In più frequentavamo lo stesso istituto e sapevamo che eravamo tutti appassionati di musica e cantavamo.

Peraltro, siete molto giovani, da quant’è che fate rap?

Uff, da un sacco! Tutti noi facevamo parte di altre crew e abbiamo deciso di formare un gruppo nel 2015, e quello stesso anno siamo usciti con i primi due brani Noche Negra e Cólera.

Da cosa è nata la volontà di iniziare un progetto comune?

È stata una decisione davvero naturale, avevamo avuto modo di vedere che avevamo idee molto simili, quindi ci è sembrato giusto iniziare qualcosa insieme.

Che tipo di influenze latinoamericane ci sono nel vostro modo di fare musica?

Sicuramente questa parte del mondo è conosciuta maggiormente grazie allo stile reggaeton da voi, vero? Noi non ci identifichiamo sicuramente in questo genere, anzi! Noi cerchiamo un messaggio più profondo nella musica. Gli artisti latinoamericani con cui ci identifichiamo sono Randy Acosta, Lil Supa, Portavoz e Los Aldeanos.

Ora, una curiosità che ho dalla prima volta che vi ho visti: perché avete scelto La Ciudad Maldita come nome? Cosa avete di maledetto?

Hahaha, guarda in realtà di tratta di un maledetto da vedere in chiave positiva! Abbiamo scelto questo aggettivo perché in qualche modo rappresenta e descrive la nostra città e tutte le sue particolarità che, magari, non ci fanno impazzire ma le permettono di essere diversa dalle altre. In fin dei conti l’amiamo!

Com’è vivere a Envigado? Quanto influenza nelle vostre scelte musicali?

Influenza molto, chiaramente. Considera che siamo cresciuti qui e tutte le idee che ci vengono partono da spunti di vita quotidiana. È una città tranquilla, si sta bene.

Nell’immaginario collettivo il genere rap è associato ai concetti di quartiere e rabbia. Vale anche per voi?

Ricorda sempre che il rap nasce per strada, dalla necessità di comunicare qualcosa. Noi parliamo di ciò che abbiamo vissuto e visto, trattiamo di tematiche sociali ed è normale che la quotidianità influenzi il nostro modo di parlare al mondo attraverso la musica.

Voi siete in sei… è difficile far coincidere tutte e sei i punti di vista?

Mamma mia, non puoi capire! All’inizio litigavamo. Ora però siamo su una stessa lunghezza d’onda!

Le idee per scrivere nuove canzoni da dove vi vengono?

Come abbiamo accennato prima, le nostre fonti principali sono il nostro vissuto e la vita di tutti i giorni, ma anche da una necessità di ascoltare, informare e visualizzare ciò che uno vuole essere. Può capitare che la scelta di una tematica sia dovuta al fatto che non ne abbiamo mai sentito parlare o, ad esempio, ci è capitato di sentirne ma non in maniera soddisfacente. 

Il processo creativo come si elabora?

Adottiamo tre modi di scrivere: sinergia, per tematica o per suono. Quando lavoriamo in sinergia, uno di noi fa vedere agli altri dei versi che ha buttato giù e qualcun altro mostra qualcosa che vi si potrebbe avvicinare, per tematica significa che prima di iniziare ne scegliamo una e si mettono insieme tutte le idee e punti di vista o, come ultimo, per suono, in questo caso lasciamo che sia il beat a far muovere le nostre idee ed emozioni.

Ditemi un po’ chi è che si occupa dei beat?

Sono curati di Zabaz e Tapias Tamayo.

Nella canzone Catarsis c’è un verso che fa “hay que sacar lo malo que fluye por las venas” – bisogna levare il male che scorre nelle vene – voi come lo buttate fuori?

Con la musica, sempre.

Com’è nata la collaborazione con gli artisti di Deúniti?

Li conoscevamo già da un po’ grazie agli eventi di arte che fanno, li rispettiamo e ci troviamo davvero bene con loro. Ci hanno dato l’opportunità di scrivere Hablalo un pezzo per accompagnare un’opera che hanno creato a Medellín.

Avete un bel seguito… Cosa rappresentano per voi i vostri fan?

Motivazione! Ci fa venire la pelle d’oca vedere che ci seguono, ci supportano e non solo nella nostra città. Siamo stati in altre parti a cantare ed è stato davvero incredibile… quando cantano le nostre canzoni, ci ringraziano per la musica, le emozioni… ‘na figata!

Parlatemi dei vostri progetti futuri.

Oltre il progetto di La Ciudad Maldita, ognuno di noi si sta impegnando per crescere sia da un punto di vista personale che professionale, stanno uscendo collaborazioni anche con altri artisti. Abbiamo in cantiere tante altre canzoni e non vediamo l’ora che tutto torni alla normalità per poter tornare a esibirci. Vorremmo tanto andare in altri paesi, conoscere più persone. Si crea una bella energia!

Siamo giunti alla fine. Ragazzi, io davvero vi ringrazio! Sono felicissima di questa chiacchierata, è stato un onore per me!

Pazzesco! Grazie a te!

 

Riflessione dell’autrice:

Prima che iniziassimo la videochiamata mi sentivo nervosa come poche volte mi è successo. Un po’ perché è la prima intervista che faccio in spagnolo, un po’ perché sono innamorata dell’America Latina – unica America che esiste, per me – infatti tutti hanno il famoso American Dream, io il Latinamerican Dream… fatto sta che, abituata a metterci sempre il massimo in quel che faccio, avevo paura di non essere all’altezza. Questo timore si è annullato appena abbiamo iniziato a parlare, mi sono sentita a casa, come se ci conoscessimo da una vita! Sono ragazzi veri ed è palpabile questa cosa. Più parlavamo e più sentivo questa energia positiva e forte. Tutti e sette crediamo nella forza del linguaggio e dell’energia che ci circonda. Servirebbero più persone del genere, quel tipo di persone che ti sprona a riflettere e fare del tuo meglio.
Sono grata all’universo.

Martina Grujić

Le imprese eccezionali – Tibibbo

L’impresa eccezionale è essere normale” cantava Lucio Dalla; oggi questa affermazione si rispecchia nel mondo del lavoro, dove le piccole e medie imprese per sopperire alle tante difficoltà e per sopravvivere in una condizione di normalità sono costrette ad essere eccezionali.
La disillusione vi propone una serie di interviste a piccoli imprenditori: persone normali che riescono nell’impresa eccezionale di portare avanti la propria attività.
Oggi vi portiamo a conoscere la storia dell’enoteca e vineria Tibibbo – Calici e amici in via Via Poggio Ameno, 52 a Roma.

Buongiorno e benvenuto su La disillusione. Per chi non ti conoscesse lasciamo che sia tu presentare te stesso e la tua attività.
Buongiorno, sono Fabrizio e questa attività nasce da un sogno, un piccolo sogno che porto avanti da tanti anni. Fino a due anni fa ho fatto un lavoro completamente diverso, l’impiegato; poi per varie vicissitudini si è pian piano realizzato questo sogno. Nasce così Tibibbo, con questo nome che ricorda un vitigno, lo zibibbo, ma in realtà è l’unione dei nomi Tiziana e Bibbo. Tiziana è l’altra metà di questo sogno e Bibbo sono io, perché da piccolo quando chiedevano il mio nome dicevo loro ‘Bibbo’. E così è nato Tibibbo: poi si sono aggiunti i figli e siamo diventi i Tibibbos e giochiamo su questo nome. Abbiamo avuto l’elfa Tibibba che faceva l’altro giorno i pacchi di Natale…
Il Tibibbo Natale anche…
Sì, quando lavoravo in ufficio, visto che negli ultimi anni ero il più anziano, facevo il Bibbo Natale.

Che cosa ti ha spinto a scegliere questo percorso professionale? Da dove viene questo tuo sogno?
Perché mi piace l’alcol sembra brutto? Sarebbe anche un po’ riduttivo… Allora il sogno è sempre stato una piccola realtà di questo tipo, un locale non di grandi dimensioni e non con tanti coperti, bensì un posto raccolto e poi con Tiziana e i figli è nata questa idea di creare il posto che fosse il muretto degli amici di un tempo e l’abbiamo anche scritto sul nostro sito. Quando ero giovane non c’erano i social e quindi si stava al muretto in comitiva: lì si passava del tempo sereni ed è quello che abbiamo voluto ricreare qui appunto, in un ambiente raccolto e familiare, tranquillo dove non c’è la frenesia di consumare nel minor tempo possibile. Tu vieni qui, bevi un calice, mangi qualcosa e stai qua a fare due chiacchiere. Fino a questo ci stiamo riuscendo se siamo giovani, come attività. Almeno io, gli altri sono giovani sul serio.

Quanto è difficile avere e mandare avanti un’attività in questo Paese? E quali sono state e quali sono le principali difficoltà che avete incontrato?
Sarò banale, ma quello che ingessa e scoraggia chi ha idee di questo tipo è la burocrazia: la trafila di carte da produrre, figure professionali da interpellare… Insomma potrebbe essere snellita molto. Per aprire questa attività, senza considerare l’idea, tra la ricerca del posto e tutto il resto sono trascorsi due anni: e non è poco. Adesso ho cinquantatré anni e a questa età non dico che vai un po’ più di corsa ma forse senti di avere meno tempo, hai meno energie e meno voglia. Credo che il altre realtà, in base a quanto ho sentito, anche in un mese si può aprire un’attività del genere. La cosa più difficile è star dietro alle leggi che cambiano per le quali ti devi affidare a tante figure professionali che ti tutelano ma che non hanno poi la responsabilità delle loro scelte e quindi è un po’ come un cane che si morde la coda. Il sonno viene tolto principalmente da questo: come far quadrare il tutto nel rispetto delle leggi.
Ad esempio un ostacolo che ho incontrato è stato quello di una struttura presente nel locale che ho voluto rimuovere perché non idonea e questo ha portato a presentare una serie di documentazioni e mi ha limitato ulteriormente: per fare le cose più a norma di legge possibile sei penalizzato. Aree che prima erano tranquillamente utilizzate ora non le posso più usare perché magari dieci centimetri rispetto a quanto previsto dalla normativa. A me va benissimo questo, perché se ci sono delle regole vanno rispettate ma questo deve valere per tutti. Quello che più rode dentro è che i figli e i figliastri non mi sono mai piaciuti. Però poi ho imparato nella vita a guardare alla mia realtà senza invidiarne altre e anzi magari ad aiutare qualcuno a risolvere dei problemi dandogli un consiglio. Che poi, per inciso, aver smontato quella struttura non a norma mi ha portato dei benefici: ora la vedi qui riciclata nei legnami del bancone e della panca, trovando così uno stile architettonico ed estetico che mi piace.
Un’altra cosa che forse toglie il sonno è la sensazione che in Italia tu non possa mai essere in regola del tutto. Un po’ come la famosa frase che si dice quando ti fermano al posto di blocco, che se ti vogliono trovare qualcosa che non va in un modo o nell’altro la trovano, ma assolutamente non per responsabilità delle forze pubbliche, ma perché la legge è fatta in modo tale che qualche cavillo si va a trovare. Noi ce la mettiamo tutta, però.

Superati i problemi, che cosa auspicate per il futuro della vostra attività?
Beh, innanzitutto la sopravvivenza è fondamentale. Noi puntiamo a dei ritmi più “umani”: vorremmo che questo posto non fosse una macchina da soldi, ma un locale conosciuto come un logo dove vai e stai sereno, in un ambiente accogliente in cui non ti viene messa fretta, con materie prime di qualità ottima e della buona musica, perché no. C’è dunque da far capire alla gente che quello che trovi qui è selezionato e di qualità veramente. Fino ad oggi il novanta per cento o anche più delle persone che transitano e sono transitate in questo locale lo riconosce e riconosce tutte queste cose. Il progetto è questo: creare un posto che consenta a me e la mia famiglia di vivere e però facendo qualcosa che ti piace. Ti racconto un aneddoto: qualche sera fa la sala era piena e dopo aver finito di lavorare in laboratorio ho fatto un giro tra i tavoli per sentire come andavano le cose; tutti i tavoli, seppur pochi come vedi, erano entusiasti, per il cibo, per l’accoglienza, per la gentilezza, per gli abbinamenti. Mi è stato chiesto quanti anni fossero che faccio questo mestiere. E sono solo quattro mesi. Mi sono emozionato. Mi sono andato a sedere sulle scale che vedi là dietro, tanto è che Tiziana mi ha chiesto che cosa era successo. E niente, mi ero emozionato. Questa forse è la miglior ricompensa. C’è poi qualcuno che rimane insoddisfatto o magari non gradisce del tutto, ma la cosa bella è che ci danno dei consigli e uno li accoglie volentieri: molte cose del menù sono cambiate in base ai suggerimenti costruttivi dei clienti.
Dal menù mi pare di notare anche un chiaro richiamo al concetto di slow food come filosofia del locale in contrapposizione alla velocità che viene oggi richiesta.
Sì, hanno cominciato a capire che la velocità qui è meglio se la lasciano fuori. Vieni e goditi la tua ora in pace lasciando fuori i problemi. L’altro giorno addirittura una persona mi ha detto che facciamo un lavoro socialmente utile ed è stata bella come cosa.

Come selezionate i vostri prodotti? E come si sceglie un buon vino?
Ti potrei rispondere che è uno sporco mestiere ma qualcuno deve pur farlo. Per selezionare i nostri prodotti ci affidiamo a grosse realtà che sappiamo come lavorano e le materie prime che usano, ovviamente con dei costi per noi diversi. Avendo un laboratorio a freddo ovviamente i costi cambiano, perché se io potessi preparare i piatti in autonomia mi costerebbe di meno. Uno dei consigli che non ho accettato è quello di abbassare la qualità, così da abbassare il prezzo e far venire più gente. Ecco, questa è l’antitesi dell’idea di questo locale.
Comunque il selezionare i prodotti e i loro abbinamenti è un qualcosa che faccio da sempre: mi è sempre piaciuto mangiare, poi cucinare e quindi la selezione del prodotto è fondamentale. Ho avuto la fortuna di incontrare persone che a loro volta conoscevano realtà, buoni produttori, affidabili, come Orme, una realtà a chilometro zero, oppure il pastificio Mauro Secondi, molto noto in Italia, e poi tanti altri. Una volta che ti rivolgi a queste realtà la qualità viene da sé.
Per quanto riguarda il vino con Tiziana sono diversi anni che andiamo in giro per cantine e abbiamo creato una rete di conoscenze, anche tramite corsi di sommellerie e assaggiatori: anche qui, persone che ti portano sul campo e ti consigliano. Siamo andati dalla Sicilia al Trentino per vedere le vigne e le cantine, perché un buon vino come si sceglie? Per quello che è la mia idea devi guardare le persone in faccia, devi vedere le loro realtà e il loro modo di lavorare: se lavori bene in vigna, lavori bene in cantina non hai bisogno poi di tanti interventi chimici alla fine del processo. Oggi ci stanno riempiendo la testa con i vini naturali e biodinamici: io dico soltanto che bisogna stare attenti perché con questa scusa ci stanno forse propinando dei prodotti non propriamente buoni. Dato che il vino biodinamico ha dei profumi e dei sapori che non sono propri del vino che abbiamo bevuto per anni, è facile che un vino difettato possa passare per biodinamico, che è “come lo faceva nonno” ma non è detto che fosse di qualità.
Devi essere bravo e fortunato nella selezione. Per fortuna abbiamo persone che ne sanno più di noi e ci hanno instradato, consigliato e fatto da guida. E poi: bere, mangiare, provare.

Fabrizio, grazie per il tempo che ci hai dedicato e in bocca al lupo per la vostra attività.

 

Danilo Iannelli 
Paolo Palladino

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La disillusione non ha alcun tipo di rapporto commerciale ed economico con le aziende incontrate e la selezione delle stesse ai fini dell’intervista avviene sulla base dei gusti personali degli intervistatori.

 

 

L’arte del combattere – Intervista ad Andrea Rinaldi

Quando lo scorso settembre, dopo l’ennesima estate di bagordi, ho deciso di avvicinarmi al mondo degli sport da combattimento per tentare nella mission impossibile di rimettermi in forma l’ho fatto, devo essere sincero, con un po’ di timore. Albergava in me un certo pregiudizio: quello delle palestre degli sport da combattimento dove si impara a fare a botte, dove si coltiva l’aggressività e si incentiva all’uso della violenza. Come ogni pregiudizio che si rispetti anche il mio era fondato sull’ignoranza e su una falsa credenza da essa coadiuvata e soprattutto, come tutti gli altri pregiudizi, si è alla fine rivelato falso.

Quando mi sono iscritto al corso di prepugilistica e boxe tenuto dal maestro Andrea Rinaldi ho trovato tutt’altro da quello di cui avevo timore: ho trovato un ambiente accogliente e amichevole, familiare, in un certo senso; ho trovato un contesto sportivo nel quale allenarsi, imparare a combattere, certo, ma sempre nel rispetto delle regole e dell’avversario; ma soprattutto ho trovato un grande maestro, preparatissimo, sensibile alle esigenze dei suoi allievi, eccellente nel motivarli e dar loro la necessaria disciplina, capace di capitalizzare al massimo i loro punti di forza e di convogliare nel miglior modo possibile tutte  le energie necessarie per il miglioramento di quelle che sono le loro mancanze.

Ciao Andrea e benvenuto su La disillusione: per chi non ti conoscesse lascio che sia tu stesso a presentarti.
Ciao, sono Andrea Rinaldi, maestro di kickboxing e full contact, sono quattro volte campione nazionale di kickboxing e sanda. Sanda utilizza i calci, i pugni e le proiezioni mentre la kickboxing è come il pugilato con l’aggiunta dei calci. Sono cinque anni che sono entrato nella Hall of Fame a livello europeo per la kickboxing e sono stato premiato da Austria, Germania e Spagna e Italia e continuo a partecipare con successo, venendo spesso premiato come maestro dell’anno, avendo anche una scuola con quaranta allievi. La mia scuola si chiama Art of Combat perché la kickboxing non è solamente uno sport da combattimento ma è una vera e propria arte.

Come ti ho precedentemente accennato, prima di conoscerti e iscrivermi al tuo corso avevo un particolare pregiudizio sugli sport da combattimento. Che cosa c’è di vero, se c’è, in questo pregiudizio?
In genere i pregiudizi sono sempre sbagliati perché bisogna sempre provare a vedere o toccare con mano qualcosa per darne un giudizio. Gli sport da combattimento in altre parti del mondo hanno un approccio completamente diverso: ad esempio quando sono negli Stati Uniti nel 2012 ho avuto la fortuna di allenarmi con un grande maestro, Benny ‘The Jet’ Urquidez, campione di full contact negli anni Settanta e Ottanta; lì praticano la kickboxing come il karate: con disciplina, con il saluto, il rispetto per il maestro; addirittura mi ricordo che il maestro, per spiegare una tecnica, ci faceva mettere in ginocchio a terra e fino a che non finiva di mostrarla noi rimanevamo giù fermi ad ascoltare. In Italia purtroppo spesso i mezzi di comunicazione danno un’idea sbagliata e distorta degli sport da combattimento: il messaggio che passa è che questi incitano alla violenza. Non è assolutamente così: una disciplina come la kickboxing, il full contact o il pugilato oltre a dare all’allievo una maggior sicurezza in se stesso migliora l’allievo anche a livello mentale, insegnandogli il rispetto per l’avversario.

 

Oltre a quelli già citati, quali sono i principali valori che devono essere trasmessi da un bravo maestro di uno sport da combattimento?
Un bravo maestro deve innanzitutto insegnare a conoscere te stesso; ad esempio il mio maestro mi diceva sempre che conoscere se stessi è il primo passo verso il successo. Un maestro bravo inoltre cerca di tirar fuori il meglio di te. Poi praticando sia gli sport da combattimento che le arti marziali ci sono molte cose che vengono fuori, come la coordinazione, una migliore capacità sociale nel relazionarsi con altre persone, il rispetto e la disciplina e magari ti possono aiutare anche ad affrontare alcune paure che si hanno. A me hanno insegnato tantissimo e credo che valga anche per gli altri: soprattutto mi hanno insegnato ad essere determinato nell’inseguire i miei obbiettivi. Le arti marziali poi hanno salvato anche diverse vite: ad esempio in America so che Chuck Norris negli anni Ottanta ha creato un’associazione che allontanava i ragazzi dalla droga e dalle gang, un problema lì molto diffuso, che si chiamava Kick drugs out of America. Secondo me questa funzione viene svolta anche qui in Italia anche se magari non a livello ufficiale; conosco tanti miei amici che tramite lo sport e la vicinanza di una bravo maestro si sono allontanati dai guai.

 

Quanto è importante, negli sport da combattimento, ma soprattutto nella vita, la figura del maestro?
La figura del maestro è molto importante: per me è stata la colonna portante della mia vita. Io ho avuto un grandissimo maestro, Agostino Moroni: lui oltre ad essere un maestro d’arti marziali è stato come un padre per me, ha fatto di me un uomo. Era una persona fantastica: lui non mi insegnava solo come tirare un calcio o un pugno, mi insegnava a vivere, a vedere le cose da una prospettiva; lui era estraneo agli stereotipi e alle false credenze, non amava molto i mass media ed era un maestro che si distingueva dalla massa. È stato un personaggio estremamente importante per me, mi ha insegnato tutto quello che poteva insegnarmi: io faccio tesoro di tutto il tempo che mi ha dedicato, non solo per quanto riguarda il combattimento. Lui diceva sempre che la cosa che sapeva fare meno era combattere. Poi purtroppo è venuto a mancare cinque anni fa e adesso sono io che faccio le sue veci, che porto avanti la sua disciplina e il suo nome; mi sto impegnando personalmente per portare i suoi insegnamenti anche fuori dall’Italia. Lui comunque era conosciuto in tutto il mondo: è stato tre volte campione del mondo di full contact negli anni Settanta e Ottanta, è stata dieci anni con la nazionale americana di full contact e ha vinto tre titoli mondiali di cui uno al Madison Square Garden di New York, un’arena dove tutti vorrebbero combattere, all’Olimpic Auditorium di Los Angeles e qui a Roma. Per me lui è ancora adesso un punto di riferimento: i suoi insegnamenti mi risolvono ancora oggi i problemi in tre decimi di secondo e bastano per due vite.
Devo dire che nella vita sono stato fortunato perché ho da poco incontrato un altro grande maestro, anche lui campione del mondo: il maestro Massimo Brizzi, che è un grande maestro e mi sta seguendo per continuare al meglio la mia carriera agonistica e mi ci sono affezionato molto anche se lo conosco da poco tempo. Faccio parte della federazione IKTA, Intercontinental Kick Thai Boxing Association che mi sta portando avanti con la carriera al meglio.

Oltre ad essere un maestro di sport da combattimento sei anche un atleta professionista: quali sono le parole d’ordine da seguire per chi vuole diventare un fighter di professione?
Nella mia vita ho tre parole d’ordine importantissime: determinazione, passione ed entusiasmo. Determinazione perché avendo un obbiettivo ti insegna a superare qualsiasi ostacolo per andare dritto alla meta; la passione perché ti permette di curare al meglio quello che fai e cerchi così di farlo alla perfezione per essere il migliore; l’entusiasmo perché anche nella vita bisogna fare tutto con entusiasmo, perché viene dal greco entós, dentro, avere un Dio dentro. Queste tre parole che unite insieme portano al successo.

Sei rientrato da poco da un infortunio ma non hai mai smesso di combattere: ci aggiorni sui tuoi ultimi incontri e sui prossimi match che ti attendono?
A fine febbraio devo sostenere un incontro molto importante per la mia carriera: il titolo professionisti intercontinentale di full contact con l’IKTA e poi ce ne sarà un altro a giungo, un evento sportivo a livello mondiale che sarà il Best of the best, dove ci saranno altri atleti che gareggeranno per titoli italiani, europei e mondiali. Purtroppo ho da poco avuto questo infortunio ma bisogna metterlo in conto: quando ci alleniamo cerchiamo sempre di dare il massimo e purtroppo durante la preparazione del match del 23 novembre ho preso un calcio sotto al sopracciglio e ho dovuto mettere tre punti di sutura. Questo non mi ha fermato e ho continuato dritto per la mia strada: ho vinto questo match di rientro, perché erano quattro anni che stavo fuori dal giro dell’agonismo e sono rientrato in grande stile e spero di portare avanti la mia carriera sempre al massimo e al meglio.

Grazie Andrea per averci dedicato il tuo tempo.
Grazie a voi e ne approfitto per fare un saluto a un mio carissimo compagno che adesso mi sta seguendo nella preparazione per il prossimo match, Andrea Massaro, che a breve entrerà con l’IKTA nel settore Krav Maga. Lo stimo tantissimo e quando hai un amico vicino che ti motiva e ti dà forza ti senti l’uomo più felice e fortunato del mondo.

Danilo Iannelli
Paolo Palladino

Le imprese eccezionali – I Gemelli Gelateria

L’impresa eccezionale è essere normale” cantava Lucio Dalla; oggi questa affermazione si rispecchia nel mondo del lavoro, dove le piccole e medie imprese per sopperire alle tante difficoltà e per sopravvivere in una condizione di normalità sono costrette ad essere eccezionali.
La disillusione vi propone una serie di interviste a piccoli imprenditori: persone normali che riescono nell’impresa eccezionale di portare avanti la propria attività.
Oggi vi portiamo a conoscere la storia della gelateria artigianale I Gemelli Gelateria in via Mario Musco 44/46 a Roma.

 

Buongiorno e benvenuti su La disillusione. Per chi non vi conoscesse lasciamo che siate a voi presentare voi stessi e la vostra attività.
M: Buongiorno a tutti, siamo Davide e Matteo, siamo due giovani imprenditori, i proprietari de I Gemelli Gelateria e siamo, appunto, due gemelli per davvero.
E questo spiega anche il nome.
M: È stato molto semplice trovarlo.
È un tratto distintivo, non sono molte le attività gestite da due gemelli.
M: No, effettivamente. Devo dire che ci aiuta molto anche il nostro rapporto: due fratelli possono prendere anche due strade separate, ma nel nostro caso il lavoro ci ha unito ancor di più.
D: Sì, infatti il nome è facile, intuitivo, ti arriva subito. Quindi ci abbiamo messo veramente poco a trovarlo.
M: Anche se qualcuno pensa sia il segno zodiacale.
D: Poi ci vedono e non ci sono più dubbi. Sì, è stato facile… Perché poi di solito scegliere il nome di un’attività è complicato, perché non ti dico che sia il segno distintivo però ti riconoscono da questo: è un marchio vero e proprio. E infatti noi l’abbiamo registrato.

 

Che cosa vi ha spinto a scegliere questo percorso professionale?
D: La nostra è una passione che nasce dai nostri nonni e dai nostri zii su in Romagna: sono sessant’anni che fanno gelato lì e noi siamo cresciuti dentro le gelaterie; naturalmente questo ci ha portato poi a capire che era questa la nostra strada: bisogna studiare tanto, non è facile, ma comunque avevamo già l’obbiettivo di aprire una gelateria.
M: Già dieci anni fa in realtà.
D: Abbiamo iniziato a lavorare a diciassette/diciotto anni, ma noi sapevamo già in quel periodo quello che volevamo fare. Abbiamo faticato tra call center, uffici, abbiamo fatto di tutto…
M: Contratti a tempo determinato…
D: Con l’unico obbiettivo di aprire il negozio.
M: Il nostro negozio.

 

Quanto è difficile avere e mandare avanti un’attività in questo Paese? E quali sono state e quali sono le principali difficoltà che avete incontrato?
M: Dal momento in cui abbiamo deciso di aprire il negozio, tra il cercare il locale adatto, la zona adatta e tutto il resto, considera che sarà passato un anno e mezzo: la burocrazia naturalmente qui non aiuta. Noi siamo partiti da zero, non avevamo quasi nulla da parte eccetto qualche piccolo risparmio nostro, quindi è stato difficile trovare anche i finanziamenti per avviare l’attività. Poi casualmente siamo venuti a conoscenza del CNA che mette a disposizione un microcredito per le piccole imprese che ci ha aiutato ad andare avanti nel nostro progetto. Però effettivamente il problema è che è già complicato portare avanti un’attività già aperta e avviata, perché tra tasse e problemi burocratici è già difficile, ma aprirla lo è ancora di più.
D: Sembra quasi lo facciano per non farti aprire il negozio.
M: Esatto, quasi ti scoraggiano. La non informazione e il non sapere dove andare a chiedere o a informarsi è una cosa che ti abbatte totalmente.
D: Non è che te li debbano regalare, non siamo andati a cercare soldi a fondo perduto… C’è stato un periodo veramente scoraggiante: i fondi che avevamo non erano enormi, non avevamo una liquidità tale da permetterci di cominciare i lavori… C’erano giorni in cui davvero non sapevamo che cosa fare.
M: Noi inoltre abbiamo avuto un problema con l’elettricità: siamo stati bloccati per quattro mesi perché la gestione precedente aveva un debito con la società fornitrice d’energia; noi abbiamo dovuto pagare il debito…
D: Debito non nostro.
M: Per potere chiedere il nuovo contatore. Siamo stati due mesi qui con l’operaio che aveva un suo piccolo generatore. È stato veramente massacrante, però se ti piace lo fai. Adesso che siamo riusciti ad aprire la nostra attività, fondamentalmente grazie all’aiuto del CNA e del piccolo fondo che ci ha messo a disposizione, quando ci vengono a chiedere ‘Mai voi come avete fatto?’, noi li indirizziamo lì direttamente. Fortunatamente c’è il passaparola tra persone, perché effettivamente su internet e sui giornali non c’è nulla. Questa è la più grossa difficoltà che si incontra per aprire un’attività. Per facilitare l’apertura di un’attività ci deve essere informazione sulla tipologia di finanziamenti. Aggiungo poi tra l’altro che quando noi abbiamo deciso di aprire il negozio era il periodo del Microcredito 5 Stelle, però era difficilissimo ottenerlo.
D: Matte’ ma ti ricordi quel giorno che siamo andati in quell’ufficio e non c’era nessuno? Non sapevano nemmeno di che cosa stessimo parlando… Tu andavi sul sito e c’era una lista di indirizzi: noi siamo andati in uno di questi e non sapevano nemmeno di che cosa si stesse parlando! Non c’è informazione! Siamo quasi nel 2020, ci sono dei siti che sono impossibili da utilizzare: i siti della pubblica amministrazione poi! A dei ragazzi, che comunque hanno la capacità di muoversi nel web, non dai la possibilità di utilizzarli, perché non c’è niente! E questa è una cosa assurda! E poi naturalmente tutta la burocrazia… Perché questi sono i problemi dell’inizio ma poi viene anche il dopo. Se tu devi fare una cosa, mettere una luce all’esterno, i secchi dell’immondizia, le tende, per esempio, devi chiedere l’autorizzazione e ti fanno aspettare sei mesi.
Di nuovo, sembra che ti vogliano scoraggiare…
M: Sicuramente l’intento non è quello, però quello è l’effetto.
D: Che poi i negozianti, tutti, sono il portafogli del comune, il bancomat del comune, perché per qualsiasi cosa chiedono a noi i soldi. Comunque, riassumendo, il problema fondamentale è la burocrazia, ma non diciamo nulla di nuovo. Il discorso qual è? Che chi non la vive non lo capisce.
Superati i problemi, che cosa auspicate per il futuro della vostra attività?
D: Diciamo che noi qualche progetto ce l’abbiamo ed è quello di migliorarci sempre di più, di ampliare il marchio, magari aprire altri negozi.
M: Quello è il sogno…
D: L’obbiettivo! È il sogno e l’obbiettivo.

Per concludere: qual è il segreto di un buon gelato e perché qualcuno dovrebbe venire a prenderlo proprio da I Gemelli?
M: Il segreto di un buon gelato, che poi vale per tutte le cose che si mangiano, è quella della qualità delle materie prime, ma anche il saperle utilizzare è importante: perché si possono anche prendere materie prime costosissime e buonissime ma se non sai come utilizzarle non rendono al meglio. E poi la banale passione in realtà.
Che non è tanto banale.
D: Principalmente noi ci poniamo anche questo come obbiettivo, giornaliero proprio: noi facciamo il gelato fresco. Tutti i giorni. Tutti i giorni facciamo il gelato: quindi oltre alla materia prima, che è importantissima come diceva Matteo, è la freschezza del gelato che fa la differenza. Chi viene a mangiare il gelato da noi mangia il gelato fresco.
M: Perché non è il gusto in realtà la cosa più importante nel gelato, ma la sensazione che ti lascia dopo che l’hai mangiato, perché è quella che il cuore, la testa, il cervello, i muscoli, la lingua e tutto il resto si ricordano: la sensazione del buon gelato che hai mangiato. Perché il gusto buono si trova, ma è il fatto della freschezza e della quotidianità che ti dà la sensazione.
D: Noi abbiamo fatto una scelta: pochi gusti, noi d’estate ne abbiamo sedici più le granite e d’inverno scendiamo a dodici, perché se non vuoi sprechi e vuoi il gelato fresco non puoi fare diversamente. Questa è stata proprio una scelta: non abbiamo voluto fare una gelateria con cento gusti. Pochi gusti ma preparati tutti i giorni: questo è il nostro credo. Lavoriamo sui classici, ogni tanto inseriamo qualche chicca perché comunque ci piace sperimentare e divertirci.
M: Anche perché la nostra benzina è la curiosità. Perché poi c’è anche uno studio sotto: c’è bisogno di fare prove, di bilanciare bene la ricetta…

Quanto gelato mangiate prima di proporlo al pubblico?
M: Ma in realtà poco, lo sai?
D: Lo assaggiamo. Tutto ciò che viene messo in banco e in vetrina viene prima assaggiato. Mangiamo poco ma assaggiamo tanto. Il gelato, prima di piacere al cliente, deve piacere a noi.

 

Davide e Matteo, grazie per il tempo che ci avete dedicato e in bocca al lupo per la vostra attività.

 

Danilo Iannelli 
Paolo Palladino

 

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La disillusione non ha alcun tipo di rapporto commerciale ed economico con le aziende incontrate e la selezione delle stesse ai fini dell’intervista avviene sulla base dei gusti personali degli intervistatori.