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God save the House

Boris Johnson ha chiuso il Parlamento del Regno Unito per poter concludere questo dramma shakespeariano della Brexit il 31 ottobre 2019, con o senza accordo (il famoso no-deal) in un atto che è stato definito un attacco vero e proprio ai principi costituzionali britannici.

Posta in questi termini, può sembrare a tutti gli effetti un coup d’état, un golpe della peggior specie, quello che dovrebbe portare le persone nelle piazze per dare fuoco ad un pupazzo con le fattezze di Johnson davanti le porte del Parlamento il 5 novembre. Non è esattamente così.

La chiusura del Parlamento è in realtà una pratica abitudinaria nel Regno Unito che simboleggia la chiusura di una sessione dei lavori della Camera dei Comuni, una breve pausa nella quale si cessano i lavori che poi verranno ripresi successivamente con l’inizio di una nuova sessione. Generalmente la sessione dura un anno e questa chiusura avviene verso autunno. Quest’azione è definita Prorogation. Esso prende la forma di un annuncio, per conto della Regina, letto sia alla Camera dei Lord che alla Camera dei Comuni dai rispettivi Speaker. In questa dichiarazione vengono elencate le leggi e gli atti che sono stati approvati nella sessione in conclusione. Completato il rituale, le Camere vengono sospese fino alla loro ripresa successiva, definita State Opening. 

Lo State Opening invece segnala la ripresa dei lavori. È un momento molto importante e solenne, nel quale la Regina veste la corona e gli abiti da cerimonia e si presenta all’interno della Camera dei Lords. I deputati della Camera dei Comuni attendono invece seduti nella rispettiva sala in attesa che il funzionario della Regina li vada a chiamare. Questi viene definito Black Rod e trova davanti a sé la porta dei Comuni chiusa: questo è un simbolo che deriva direttamente dalla guerra civile per sottolineare l’indipendenza del Parlamento dalla Corona. Il Black Rod bussa tre volte prima che la porta gli venga aperta. Alla sua entrata, invita i Membri del Parlamento a seguirlo e assieme a loro si avvia verso la Camera dei Lords per ascoltare il discorso di Sua Maestà. Questo è l’unico momento regolare in cui le tre parti costituenti il Parlamento sono riunite assieme: Sovrano, Camera dei Lords e Camera dei Comuni. Qui, la Regina legge il discorso che il governo stesso ha preparato, nel quale andrà ad elencare le future azioni che l’esecutivo intende attuare nella prossima sezione. Terminata la lettura, la Regina si riavvia verso Buckingham Palace e le Camere iniziano ufficialmente i lavori della nuova sessione.

Questo è quello che è sempre avvenuto nel Parlamento Inglese e quello che avverrà anche quest’autunno. Ma cos’è allora che genera così tanto clamore?

Le date per la chiusura e la riapertura del Parlamento sono stabilite dal Consiglio Privato di Sua Maestà che è formato da alcuni membri del governo. Da luglio 2019, il Conservatore Jacob Rees-Mogg ne è il Presidente come rappresentante dell’esecutivo Johnson. Generalmente il lasso di tempo che passa dalla Prorogation fino alla State Opening  è di pochi giorni, una settimana. 

Il problema è che Johnson ha deciso di prorogare il Parlamento per ben cinque settimane, la tempistica più lunga di questa sospensione dal 1945. Tutto ciò accade proprio a ridosso di uno degli eventi più importanti della Storia del Regno Unito, il 31 ottobre 2019, giorno nel quale la Gran Bretagna dovrebbe uscire dall’Unione Europea definitivamente. Boris Johnson ha dichiarato che è intenzionato a far uscire i britannici a tutti i costi entro la data stabilita, con o senza accordo (no-deal). Il Parlamento si è più volte espresso in maniera contraria a questa visione, ponendosi a garante di una fuoriuscita molto meno traumatica. Questa chiusura del Parlamento è però un ostacolo molto importante: secondo questa calendarizzazione, la Camera dei Comuni potrebbe riprendere i suoi lavori solamente il 14 ottobre, con soli 17 giorni di tempo prima dell’uscita, rendendo complicata se non impossibile qualunque azione volta a bloccare le mosse del governo, anche nella speranza di poter posticipare l’uscita per lavorare su un nuovo accordo. Tutto ciò è stato chiaramente dettato dell’intenzione di Johnson di impedire che il Parlamento possa interferire con la sua visione di una hard Brexit, tagliando di fatto le gambe all’organo legislativo in qualunque sua contromossa e minando a tutti gli effetti la funzione dell’organo rappresentante il popolo britannico.

Lo Speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, ha definito questo “un affronto alla democrazia parlamentare” e “un’offesa ai principi costituzionali”. Jeremy Corbyn, leader dei laburisti, ha richiamato l’opposizione ad un’azione coesa e alimentato le proteste dei cittadini infervorati per quest’azione politica. Oggi, centinaia di migliaia di persone sono attese nelle piazze di Londra per protestare contro una delle mosse politiche più scorrette che il Regno Unito abbia visto negli ultimi tre anni di Brexit. Anche dai ranghi dei Conservatori la situazione non sembra delle più rosee, con il leader dei Conservatori scozzesi, Ruth Davidson, che annuncia le sue dimissioni immediatamente dopo la decisione della Prorogation contro la prospettiva di una no-deal Brexit portata avanti dal Primo Ministro.

Ciò che ha deluso inoltre molti sostenitori di Sua Maestà è che la Regina avrebbe potuto opporsi a questa proposta e rifiutare una tale Prorogation, che invece è stata accettata come di regola, permettendo a Johnson di portare avanti le azioni del governo per più di un mese completamente svincolato dal Parlamento. Questa scelta di seguire l’esecutivo in questa decisione potrebbe far vacillare ulteriormente il ruolo della Corona nell’opinione pubblica inglese, con una crescente fetta di popolazione all’interno del Regno Unito sempre più anti-monarchica e che non vede più tanto di buon’occhio il ruolo del Sovrano.

Sull’orlo della fine delle trattative Brexit durate più di tre anni, appare davanti il Regno di Sua Maestà un futuro ancora più incerto e probabilmente segnato da molte divisioni interne, soprattutto nel qual caso la Gran Bretagna dovesse uscire senza accordo, con un rischio di un collasso della sterlina, già ai minimi storici, una guerra civile in Irlanda al confine tra le due parti e un isolamento molto maggiore di quello a cui sono abituati i cittadini inglesi, oramai lontani dai tempi dell’Impero Britannico e sempre più vittime di una nostalgia imperialista che rischia di portare a fondo con sé anche la Corona, in un baratro che appare sempre più vicino all’approcciarsi del 31 ottobre. 

Probabilmente, nel Regno Unito, Halloween non ha mai fatto fatto così paura come adesso.

 

Matteo Caruso


Sitografia

Foto Ansa/Ap ©

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Un Regno Diviso

Guinea, 1957. Samoa e Jamaica, 1961. Algeria, 1962. Slovenia, 1990. Sud Sudan, 2006. Scozia, 2014. Sono settant’anni che il mondo intero sperimenta la più forte forma di democrazia diretta in materia di indipendenza nazionale. Dal 1957 sono stati portati avanti innumerevoli referendum per l’indipendenza in tutto il mondo, molti dei quali si sono rivelati vittoriosi, conferendo il potere dell’autonomia a diverse minoranze e popolazioni. È passato tanto tempo, le nuove generazioni non hanno la concezione di ribellioni violente, dalle rivoluzioni si è passati alle riforme e alla moderazione delle istituzioni.

Non è stato però così per tutti.

Per decadi la Gran Bretagna e l’Irlanda sono stati i protagonisti di violente rivolte e attacchi terroristici da parte degli irlandesi nazionalisti che dichiaravano l’indipendenza dell’intera isola di origini gaeliche. All’inizio dello scorso secolo, prese vita l’organizzazione terroristica Irish Republican Army, meglio conosciuta come I.R.A. un gruppo di guerriglieri armati con lo scopo di rendere l’Irlanda un Paese indipendente dalla corona britannica. Nel 1921, dopo cinque anni di guerra civile e migliaia di morti, l’Irlanda divenne a tutti gli effetti indipendente ma ad un caro prezzo. Essa fu divisa in due parti distinte: la Repubblica d’Irlanda, stato oramai indipendente, e quella che a tutt’oggi è conosciuta come l’Irlanda del Nord, parte integrata del Regno Unito, politicamente separata dal resto dell’isola.

La tensione per decadi rimase e venne accentuata da forti discriminazioni dagli unionisti protestanti verso la parte di irlandesi di stampo cattolico, promotori dell’indipendenza dell’intera isola. Gli scontri riemersero più accesi quando l’Irlanda decise di uscire dal Commonwealth britannico nel 1949. La tensione fra i Cattolici nazionalisti e i Protestanti unionisti al governo crebbe fino agli scontri nel 1962 che diedero vita al ventennio definito come The Troubles. Il 5 ottobre 1968 nella città di Londonderry, nell’Irlanda del Nord, una marcia per i diritti civili si concluse con dei violenti scontri tra i manifestanti e la polizia britannica, nei quali fu gravemente ferito anche un parlamentare. Da lì in poi, l’Irlanda ed il Regno Unito furono testimoni di violenti attacchi terroristici da parte dell’I.R.A. Nel 1972, nello stesso scenario degli eventi del 1968, a Derry, prese luogo quello che ad oggi è conosciuto come Bloody Sunday. In una marcia per i diritti civili alla quale presero parte circa 15.000 persone, la violenza esplose in uno scontro tra rocce e proiettili, in cui 13 manifestanti furono colpiti ed uccisi dalle forze dell’ordine. Il processo da parte delle famiglie è perdurato per anni prima di poter vedere giustizia. Nel 1984, a Brighton, l’hotel dove risiedeva l’allora Primo Ministro Margaret Thatcher fu colpito da un attacco terroristico dell’I.R.A. dal quale la Donna di Ferro riuscì ad uscire illesa.

Il periodo dei troubles è perdurato in un clima di terrore e tensioni fino al 1998, quando fu siglato il Good Friday Agreement o accordo di Belfast. Dopo che l’I.R.A. annunciò di aver cessato bombardamenti e attacchi e dopo due anni di intense trattative, si giunse ad un compromesso tra unionisti e nazionalisti in cui un’Assemblea dell’Irlanda del Nord fu formata, con una più equa divisione dei poteri decisionali da parte delle due fazioni. Per gli anni avvenire il forte clima di tensione fu acquietato notevolmente ma non si è stati capaci di spegnerlo del tutto.

Per l’Irlanda e i suoi abitanti il sentimento di violenza scorre tutt’oggi nel sangue della giornalista irlandese ventinovenne Lyra McKee sparso proprio sulla strada di Londonderry, dove anni prima iniziò una delle epoche più nere del Regno Unito e dell’Europa moderna. La violenza scorre dalla pallottola della Nuova Irish Republican Army che ha colpito la giovane alla testa durante uno scontro con le forze dell’ordine britanniche. La nuova organizzazione ha pubblicamente dichiarato le sue scuse per l’uccisione involontaria della giornalista, la quale si trovava sul luogo per un servizio sulle nuove rivolte dei nazionalisti irlandesi.

Ms McKee era una brillante giornalista, cresciuta in una famiglia di lavoratori a Belfast. Omosessuale, ha sostenuto per tempo le battaglie sui diritti civili e fu nominata dalla rivista Forbes come tra le migliori “30 sotto i 30” figure di comunicazione di maggior rilievo in Europa.

Il 23 giugno 2016 il Regno Unito non ha solo votato per uscire dall’Unione Europea. Il 23 giugno 2016 ha riportato alla luce quelle che sono le cicatrici di un Paese in cui le forze indipendentiste sono ora più forti che mai. Per mesi si è considerato il problema del mercato unico e della dogana come una mera questione di contratto, come un accordo formale tra due potenze commerciali. Probabilmente non è così. Il libero movimento di persone e merci è stato ciò che ha permesso una maggiore coesione tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, permettendo agli irlandesi di sentirsi parte di un’unica identità. Rimane difficile non pensare ai 30 anni di attentati, uccisioni, repressioni violente e denunce sociali quando si parla della questione dell’Irlanda del Nord.

Non si sa ancora in che modo il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea, se con un accordo aperto o una linea dura su tutto il fronte. Non si sa neanche se il Regno di Sua Maestà prenderà parte alle elezioni europee di fine maggio. Certo è, se negli anni avvenire non sarà facile essere europei all’interno del Regno Unito, riuscire ad essere irlandesi sarà tutta un’altra storia.

E la Scozia aspetta.

Matteo Caruso


Sitografia:

https://www.forbes.com/sites/niallmccarthy/2014/09/19/every-independence-referendum-over-the-past-7-decades-how-scotland-compares-infographic/

https://www.nytimes.com/2019/04/23/world/europe/lyra-mckee-new-ira-apology.html

https://www.nytimes.com/2018/10/04/world/europe/northern-ireland-troubles.html?module=inline

https://www.bbc.co.uk/newsround/14118775

L’Irlanda ha detto Sì

Sembra ancora surreale che nel 2018 vi siano articoli su articoli (come questo d’altronde), pronti ad elogiare l’enorme passo in avanti che ha fatto l’Irlanda.
Per quanto però possa essere scontato, e per quanto in Italia queste battaglie le abbiamo fatte  nel ’78 (anche se gli obiettori di coscienza sono circa il 69,6% tra i ginecologi) il passo che ha fatto l’Irlanda ha un’importanza storica enorme.

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