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Facce da pandemia

Qualche giorno fa ho imparato una nuova parola. Ho cercato su Google vedere facce negli oggetti ed il primo risultato è stato pareidolia. Viene definita come un’illusione che riconduce a forme note profili dalla forma casuale. Sì, dovrebbe chiamarsi così: le maniglie dell’armadio della stanza da letto mi guardano incredule, con gli occhi sbarrati e la bocca serrata, ma è proprio così. A quanto pare è un retaggio del nostro essere, fondamentalmente, degli animali primitivi: questa caratteristica serviva, a quanto pare, ai nostri antenati preistorici per riconoscere, con un solo colpo d’occhio, una minaccia, come ad esempio un predatore mimetizzato tra le fronde; un’illusione del nostro cervello che è in sostanza una tecnica di sopravvivenza. Un po’ come l’amore, suggerisce la macchia d’umido sul soffitto, affranta. Una venatura del legno dello stesso armadio dal quale mi guardano le maniglie incredule sembra ridere sardonica: sì, dopotutto lo siamo tuttora, animali primitivi.

Questa stranezza di vedere forme familiari negli oggetti, effettivamente, me la porto dietro da quando ero piccolo: ricordo, per esempio, che ero sempre il primo, e spesso anche il solo, a vedere nelle nuvole persone, animali o facce. Crescendo, questa attitudine sembrava essere scomparsa,o quanto meno attenuata: spesso, per esempio, mi sono ritrovato a guardare i fari e la griglia del radiatore delle macchine e a indovinarne l’espressione. Nulla di preoccupante, insomma: a quanto pare è un’inclinazione comune.
Le cose sono cominciate ad andar peggio da quando, come tutti, mi sono ritrovato recluso, costretto in solitudine in queste quattro mura del mio appartamento. All’improvviso, tra gli oggetti della cosa, tra i mobili, gli elettrodomestici, le superfici e i muri stessi, sono cominciate a spuntare facce ovunque. Le maniglie dell’armadio incredule, la venatura dello stesso sardonica e beffarda, le manopole del forno, terrorizzate, le ante del mobile della cucina e la cappa, accigliate e pensierose, le finestre del palazzo di fronte, curiose, il lavandino del bidet, sognatore…

Così, questa solitudine forzata, si è riempita di facce ed espressioni a tenermi compagnia. La situazione, insomma, sembra essere precipitata da quando ho smesso di avere rapporti sociali: certo, si incontra la cassiera al supermercato, il corriere o la postina che consegna un pacco, qualche condomino che rientra a casa: incontri frettolosi però, sparuti, sempre filtrati da quel sudario di socialità e comunicazione che portiamo legata alle orecchie. Ecco, mi son detto, la capacità di adattamento del cervello dell’uomo primitivo: vedere facce che non ci sono per sopperire al fatto di non poter vedere quelle che esistono. Animale primitivo, certo, ma inequivocabilmente sociale.

Ed ecco come ogni singola parte della cella di sicurezza nella quale vivo è diventata un volto: ognuna con un suo sentimento, un suo messaggio, una sua storia. E ogni giorno ne scopro di nuove, ogni giorno ne creo di nuove. Per esempio una decina di giorni fa, facendomi la barba, tre peli più lunghi degli altri hanno formato, cadendo sul bianco troppo opaco del mio lavandino, un sorriso, pacifico, rassicurante. Sono ancora lì, ovviamente, insieme a tutti gli altri insignificanti peli che ho tagliato: di questi tempi avreste il coraggio di lavar via un sorriso? Oppure quattro o cinque giorni fa – ormai le giornate si ripetono troppo uguali ed è facile perdere la cognizione del tempo – sul fondo della tazzina il caffè ha creato una faccia triste, con una smorfia di dolore nostalgico: anche la tazzina è ancora lì, sporca ma così viva, e ogni tanto la guardo e mi sento meno solo, perché credo che mi assomigli.

Ecco, credo, appunto. Perché stamattina, mio malgrado ho scoperto una parola nuova. Mi sono svegliato e, ancora insonnolito, con gli occhi più chiusi che aperti, sono andato in bagno. Mentre urinavo, mi sono sentito osservato. No, non era il lavandino del bidet, sognatore, nemmeno i peli della barba sorridenti nel lavandino. C’era qualcun altro. Mi sono girato di scatto e sono trasalito. Uno sconosciuto, con la barba incolta, le occhiaie e una faccia grigia e stanca mi fissava. Senza pensarci due volte l’ho colpito con un pugno. Che dolore! La sua immagine si è subito frantumata in mille parti; nonostante questo, in ognuna di queste piccole parti, quell’immagine manteneva la sua terribile unitarietà: terribile perché, più la guardavo, più mi rendevo conto che il viso che vedevo era quello di uno sconosciuto, al quale non solo non avrei saputo dare un nome, ma nemmeno riuscivo a dare una forma ben definita. Insomma, un nessuno. Oltre all’immagine, anche la mia mano era frantumata: il sangue usciva copioso e i frammenti di vetro infilzavano dolorosamente la pelle. Allora ho cominciato a capire: sono tornato di corsa in camera, ho aperto l’armadio e… Lo sconosciuto era ancora lì! L’ho colpito con l’altra mano: stesso risultato. Immagine frantumata, mano frantumata. Allora, in quel momento ho capito, anzi ho ricordato, non senza provare un’indicibile angoscia. Con le mani sanguinanti e dolenti mi sono diretto verso il comodino: qui, lo sconosciuto sorrideva dentro una cornice d’argento, abbracciato a quella che era stata l’immagine di mia madre.

È a questo punto che ho imparato una nuova parola. Ho cercato di nuovo su Google: stavolta ho digitato non riconoscere la propria immagine. Primo risultato: prosopagnosia. Non ho approfondito, ma mi son fatto quattro risate insieme alle maniglie dell’armadio, che sorridono sardoniche. Pareidolia e prosopagnosia: entrambe fanno quasi rima con pandemia.

Danilo Iannelli

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