Il paesaggio pandemico somiglia a una steppa, con le case come tane e i pochi lupi a far da spola da fuori a dentro da dentro a fuori per il cibo.
Da un lato i dipendenti in smart-working – quelli più fortunati, quelli che possono continuare a lavorare -, dall’altro i riders, i fattorini, i magazzinieri delle grandi aziende di delivery: quell’universo caotico di lavoratori del terziario (arretrato) per il quale manca il nome di una categoria comune. Ma non un ordine.
Un ordine che, con le parole di Hartmuth Rosa, potremmo dire essere incentrato sul principio della performatività, l’incessante tentativo di mantenersi all’interno della logica della competizione- la nuova faccia della logica della produzione capitalista. La ricerca, individuale e collettiva, di un grado sempre maggiore di autonomia, che genera e rigenera l’effetto esattamente opposto: una nuova forma di alienazione, una dinamica della frammentazione antica, mortale e invisibile.
Dai riders ai magazzini di Amazon, da Glovo allo smart-working, le trasformazioni nel mondo del lavoro sono lo specchio di un “regime totalitario del tempo”.
Casa per casa, strada per strada
Un’inchiesta dell’Internazionale del 6 novembre 2020 sul lavoro di consegna a domicilio di un’azienda cinese titolava: “Schiavi dell’algoritmo”. L’accordo siglato nel settembre di questo stesso anno tra il sindacato Ugl e la federazione delle piattaforme di delivery online- Assodelivery- riconosce quella dei fattorini come una forma di lavoro “autonomo”.
Dalla Cina all’Italia c’è forse un problema di traduzione. O di definizione, data l’apparente fluidità di un fenomeno che già prima della pandemia di Covid-19 prometteva di cambiare le modalità del consumo e le forme del lavoro; una fluidità spesso interpretata come inconsistenza. I tempi di lavoro dettati dalla piattaforma digitale che registra le performances dei suoi iscritti – le consegne effettuate, i minuti impiegati, le recensioni ricevute – in un sistema che, pur dividendo i fattorini tra quelli a tempo pieno e quelli part-time, i primi con un salario base, i secondi a cottimo, non riconosce ai lavoratori lo statuto di dipendenti; così, i riders stentano a farsi categoria, sfuggono alle garanzie e alla rappresentanza sindacali, spariscono inghiottiti dalle strade, dagli allarmi che segnalano il ritardo di una consegna, nel gioco della performance e della sua valutazione sul quale non hanno alcun controllo. È quanto denuncia l’articolo dell’Internazionale in merito alla situazione dell’azienda cinese.
In Italia, l’impegno di Cgil, Cisl, Uil, del Ministero del lavoro sta lentamente tentando di raggiungere il nocciolo di sfruttamento dietro la polpa dell’universo liquido dei riders, ma la conquista di maggiori diritti, pur auspicata, non sembra essere sufficiente ad allentare i gangli di un sistema del lavoro tutto basato sull'”accelerazione sociale”.
È, infatti, un problema relativo alle forme della società e alla formazione della persona quello su cui poggiano i soprusi cui sono costantemente esposti questi lavoratori: un problema morale prima che legale. Un problema che rende lecito riconoscere più somiglianze tra un dipendente che lavora in smart-working e un addetto all’inventario di un magazzino Amazon di oggi, che tra quest’ultimo e un operaio metalmeccanico del mondo industriale di ieri- sfumando, così, anche i confini tra le “classi”.
Ciò che accomuna mondi e posti di lavoro tanto lontani è il loro fondarsi su una medesima forma (o trasformazione) sociale, che ha come sua specifica caratteristica la riduzione di gradi sempre maggiori di autonomia nell’illusione del pieno controllo sulla propria carriera, cioè del pieno controllo sulla propria performatività. E la responsabilità che condividono nel favorire processi di frammentazione della società- nel maremoto della competizione- e di formazione di un carattere “situazionale” nell’individuo.
L’accelerazione sociale
È forse una fantasia e un anacronismo insistere, oggi, sull’importanza del lavoro prima ancora che come impiego specifico – cosa faccio – come opera trasformativa caratterizzante l’umano faccio.
Ma quel lavoro che non c’è, o che non soddisfa, o che ci costringe a continue vessazioni e ingiustizie è, forse, fenotipo di una (ri)strutturazione del modo in cui viviamo che ci obbliga a delle condizioni esistenziali infelici, insoddisfacenti perché insoddisfacibili. Tale ristrutturazione viene concepita da Rosa con la formula di “accelerazione sociale”, basata su crescita e accelerazione come pilastri di un processo che investe l’intero sistema relazionale umano – dal punto di vista produttivo, sociale, morale, politico… – e ne sposta il baricentro da una dinamica posizionale a una performativa.
Ciò significa che, per raggiungere la tanto agognata autonomia – individuale e collettiva -, vessillo della modernità insieme all’autenticità, si deve essere in grado di essere continuamente competitivi, performativi all’interno di un sistema che della continua ricerca di competitività si alimenta: perciò, si può decidere del proprio destino, secondo le proprie inclinazioni personali, solo se e fin tanto che ci si mantiene nella “lotta”.
Questa dinamica comporta anzitutto la formazione di un carattere situazionale, che si connota occupando liquidamente e quasi per inerzia gli spazi che gli si dischiudono e risolvendosi, ogni volta, in nuvole di vapore che devono ritrovare sempre di nuovo la condensa, una nuova opportunità. Le persone divengono “wave-riders”, surfisti che cacciano l’onda nell’illusione di poterla domare e, così, di vivere un’esperienza controllo.
L’illusione dell’autonomia sta proprio nell’impegno per mantenersi il più possibile sulla cresta dell’onda: nella tenuta della propria competitività, nella più ampia continuità di questa infinita lotta performativa, ci si costituisce come soggettività a pieno titolo- persone. In quest’ottica, l’angoscioso timore di esser lasciati indietro da questa forsennata corsa al raggiungimento dello standard del successo- uno standard che è tale in virtù del suo non esser mai determinabile, carpibile-, corrisponde alla paura di perdere, o di non riuscire a garantirsi, il grado minimo di competitività necessario per venire riconosciuti come persone. Un annichilimento sociale.
Ma perché l’autonomia sarebbe persa, se l’adesione a questo gioco dipende dalla nostra scelta, e se l’intensità con cui ci applichiamo ad esso è rimessa a noi? Per rispondere, possiamo far riferimento a due fenomeni legati al mondo del lavoro: lo smart-working e il lavoro dei riders. Per quanto riguarda il primo esempio, dobbiamo concepirlo come l’espressione più recente – e radicale – di un processo già in atto di trasformazione del sistema lavorativo (definirlo “produttivo”, oggi, risulterebbe in un significato troppo ristretto) dall’organizzazione antropologico-spaziale della fabbrica all’organizzazione secondo il sistema delle “scadenze”. Questo ha prodotto- ed è prodotto di- una “de-standardizzazione e una de-differenziazione” tra “lavoro” e “vita”; inoltre, nel processo è cambiata l’espressione della fonte del controllo sul lavoratore: la Fabbrica ha ceduto il passo alla Scadenza, e ciò nel contesto illusorio di un generale guadagno in termini di autonomia rimessa al singolo dipendente. Senza che ce ne rendessimo conto, dice Rosa, si è instaurato un “regime totalitario del tempo”, che ci impone eteronomamente come – e quanto – aderire al funzionamento del sistema: l’alternativa c’è, ed è l’esclusione sociale e umana, l’annientamento personale. Il problema, nel concreto del caso dello smart-working, è di giustizia, perché il confinamento nella dimensione individuale rende più difficile il lavoro di contrattazione sindacale in maniera direttamente proporzionale all’incremento del potere di controllo del datore di lavoro; ma, ancora di più – secondo Rosa -, è un problema legato alle condizioni in cui si forma la soggettività, individuale e collettiva nel segno dell’eteronomia.
In questi termini, il lavoro dei riders, ma anche quello dei dipendenti di Amazon, sono l’esempio di come le implicazioni di questo regime totalitario del tempo si riflettono sulla natura del lavoro e del lavoratore nel segno della competitività e della performatività, come abbiamo visto, stretto tra l’illusione dell’autonomia nel conseguimento dei propri incarichi e l’evidenza virtuale dell’algoritmo che detta la frequenza entro la quale, se si è dentro, si compete. La scelta, quindi, è tra un lavoro che si confonde sempre di più con la vita e un’esclusione la paura della quale va oltre il timore dell’emarginazione sociale, oltre il timore della morte.
La generazione come prospettiva
Fin qui abbiamo guardato al cambiamento dal punto di vista individuale, seguendo il retaggio per cui una trasformazione della soggettività riguarda l’individuo. C’è un altro piano del discorso: quello collettivo, che potremo analizzare una volta motivato il passaggio ad esso. Rosa continua argomentando che la sfera della competitività è arrivata a “colonizzare” l’intera sfera della vita- della “libertà”- nell’illusione di una (ri)conquistata personalizzazione del lavoro: in questo modo, in ogni campo della vita ognuno ritiene che “non c’è certezza che lo status, una volta raggiunto, verrà mantenuto”.
Le implicazioni di questo pensiero sul carattere (divenuto) situazionale comportano un’astensione, anzi una repulsione dall'”impegnarsi in scopi di vita che abbiabo una durata che comporti obbligazioni a lungo termine”, e invece la propensione a captare e inseguire l’occasione del momento in un tempo frammentato, in un comportamento frammentato, in un piano individuale ridotto in frammenti- atomizzato, direbbe Löwenthal- dal terrore del venir meno alla competitività.
Ogni individuo diviene in sè frammentato, e, insieme, un frammento di un’umanità scomposta, famelica: di questo segno è il cambiamento, per quanto riguarda i rapporti interpersonali. E il piano del cambiamento sociale- svanito un mondo della produzione distinto e le sue classi, atomizzata l’umanità- può essere rinvenuto nel ritmo (naturale, culturale, storico: umano) dello “scambio generazionale”: così, “mentre nella prima modernità i cambiamenti sociali erano tradizionalmente concepiti nella successione delle generazioni, oggi essi possono essere osservati in una dinamica interna alla medesima generazione”.
In termini di tempo – e dei cambiamenti, i processi ad esso associati – siamo passati “da un piano di cambiamento inter-generazionale nella prima modernità, a una fase di sincronizzazione data dalla successione delle singole generazioni [ognuna in sè autonoma] durante la modernità classica, ad un’accelerazione che è divenuta virtualmente intra-generazionale nella tarda modernità” e ciò ha comportato un’estinzione del ruolo della generazione come ruolo collettivo, ed una sua persistenza o resistenza come teatro di rapide e indeterminate (tras)formazioni collettive che avvengono entro il tempo della vita di un’unica, medesima generazione. Pertanto, quella che Rosa definisce la perdita di “continuità diacronica e di coerenza sincronica”, riguarda l’individuo, sì, ma dev’essere osservata come fenomeno imperniato nella modifica della direttrice temporale fondamentale, che è quella generazionale a meno che non si concepisca l’individuo come Singole, come monade (ma allora si starebbe al gioco dell’atomizzazione). Ed è forse proprio qui, su questo piano, che si deve immaginare la sfida per una riconquista del tempo allo spazio dell’autonomia.