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L’esercito del surf: come Amazon, Glovo e lo smart-working hanno cambiato il lavoro e l’autonomia

Il paesaggio pandemico somiglia a una steppa, con le case come tane e i pochi lupi a far da spola da fuori a dentro da dentro a fuori per il cibo. 

Da un lato i dipendenti in smart-working – quelli più fortunati, quelli che possono continuare a lavorare -, dall’altro i riders, i fattorini, i magazzinieri delle grandi aziende di delivery: quell’universo caotico di lavoratori del terziario (arretrato) per il quale manca il nome di una categoria comune. Ma non un ordine. 

Un ordine che, con le parole di Hartmuth Rosa, potremmo dire essere incentrato sul principio della performatività, l’incessante tentativo di mantenersi all’interno della logica della competizione- la nuova faccia della logica della produzione capitalista. La ricerca, individuale e collettiva, di un grado sempre maggiore di autonomia, che genera e rigenera l’effetto esattamente opposto: una nuova forma di alienazione, una dinamica della frammentazione antica, mortale e invisibile. 

Dai riders ai magazzini di Amazon, da Glovo allo smart-working, le trasformazioni nel mondo del lavoro sono lo specchio di un “regime totalitario del tempo”. 

Casa per casa, strada per strada 

Un’inchiesta dell’Internazionale del 6 novembre 2020 sul lavoro di consegna a domicilio di un’azienda cinese titolava: “Schiavi dell’algoritmo”. L’accordo siglato nel settembre di questo stesso anno tra il sindacato Ugl e la federazione delle piattaforme di delivery online- Assodelivery- riconosce quella dei fattorini come una forma di lavoro “autonomo”. 

Dalla Cina all’Italia c’è forse un problema di traduzione. O di definizione, data l’apparente fluidità di un fenomeno che già prima della pandemia di Covid-19 prometteva di cambiare le modalità del consumo e le forme del lavoro; una fluidità spesso interpretata come inconsistenza. I tempi di lavoro dettati dalla piattaforma digitale che registra le performances dei suoi iscritti – le consegne effettuate, i minuti impiegati, le recensioni ricevute – in un sistema che, pur dividendo i fattorini tra quelli a tempo pieno e quelli part-time, i primi con un salario base, i secondi a cottimo, non riconosce ai lavoratori lo statuto di dipendenti; così, i riders stentano a farsi categoria, sfuggono alle garanzie e alla rappresentanza sindacali, spariscono inghiottiti dalle strade, dagli allarmi che segnalano il ritardo di una consegna, nel gioco della performance e della sua valutazione sul quale non hanno alcun controllo. È quanto denuncia l’articolo dell’Internazionale in merito alla situazione dell’azienda cinese. 

In Italia, l’impegno di Cgil, Cisl, Uil, del Ministero del lavoro sta lentamente tentando di raggiungere il nocciolo di sfruttamento dietro la polpa dell’universo liquido dei riders, ma la conquista di maggiori diritti, pur auspicata, non sembra essere sufficiente ad allentare i gangli di un sistema del lavoro tutto basato sull'”accelerazione sociale”. 

È, infatti, un problema relativo alle forme della società e alla formazione della persona quello su cui poggiano i soprusi cui sono costantemente esposti questi lavoratori: un problema morale prima che legale. Un problema che rende lecito riconoscere più somiglianze tra un dipendente che lavora in smart-working e un addetto all’inventario di un magazzino Amazon di oggi, che tra quest’ultimo e un operaio metalmeccanico del mondo industriale di ieri- sfumando, così, anche i confini tra le “classi”. 

Ciò che accomuna mondi e posti di lavoro tanto lontani è il loro fondarsi su una medesima forma (o trasformazione) sociale, che ha come sua specifica caratteristica la riduzione di gradi sempre maggiori di autonomia nell’illusione del pieno controllo sulla propria carriera, cioè del pieno controllo sulla propria performatività. E la responsabilità che condividono nel favorire processi di frammentazione della società- nel maremoto della competizione- e di formazione di un carattere “situazionale” nell’individuo.

L’accelerazione sociale 

È forse una fantasia e un anacronismo insistere, oggi, sull’importanza del lavoro prima ancora che come impiego specifico – cosa faccio – come opera trasformativa caratterizzante l’umano faccio. 

Ma quel lavoro che non c’è, o che non soddisfa, o che ci costringe a continue vessazioni e ingiustizie è, forse, fenotipo di una (ri)strutturazione del modo in cui viviamo che ci obbliga a delle condizioni esistenziali infelici, insoddisfacenti perché insoddisfacibili. Tale ristrutturazione viene concepita da Rosa con la formula di “accelerazione sociale”, basata su crescita e accelerazione come pilastri di un processo che investe l’intero sistema relazionale umano – dal punto di vista produttivo, sociale, morale, politico… – e ne sposta il baricentro da una dinamica posizionale a una performativa. 

Ciò significa che, per raggiungere la tanto agognata autonomia – individuale e collettiva -, vessillo della modernità insieme all’autenticità, si deve essere in grado di essere continuamente competitivi, performativi all’interno di un sistema che della continua ricerca di competitività si alimenta: perciò, si può decidere del proprio destino, secondo le proprie inclinazioni personali, solo se e fin tanto che ci si mantiene nella “lotta”. 

Questa dinamica comporta anzitutto la formazione di un carattere situazionale, che si connota occupando liquidamente e quasi per inerzia gli spazi che gli si dischiudono e risolvendosi, ogni volta, in nuvole di vapore che devono ritrovare sempre di nuovo la condensa, una nuova opportunità. Le persone divengono “wave-riders”, surfisti che cacciano l’onda nell’illusione di poterla domare e, così, di vivere un’esperienza controllo. 

L’illusione dell’autonomia sta proprio nell’impegno per mantenersi il più possibile sulla cresta dell’onda: nella tenuta della propria competitività, nella più ampia continuità di questa infinita lotta performativa, ci si costituisce come soggettività a pieno titolo- persone. In quest’ottica, l’angoscioso timore di esser lasciati indietro da questa forsennata corsa al raggiungimento dello standard del successo- uno standard che è tale in virtù del suo non esser mai determinabile, carpibile-, corrisponde alla paura di perdere, o di non riuscire a garantirsi, il grado minimo di competitività necessario per venire riconosciuti come persone. Un annichilimento sociale. 

Ma perché l’autonomia sarebbe persa, se l’adesione a questo gioco dipende dalla nostra scelta, e se l’intensità con cui ci applichiamo ad esso è rimessa a noi? Per rispondere, possiamo far riferimento a due fenomeni legati al mondo del lavoro: lo smart-working e il lavoro dei riders. Per quanto riguarda il primo esempio, dobbiamo concepirlo come l’espressione più recente – e radicale – di un processo già in atto di trasformazione del sistema lavorativo (definirlo “produttivo”, oggi, risulterebbe in un significato troppo ristretto) dall’organizzazione antropologico-spaziale della fabbrica all’organizzazione secondo il sistema delle “scadenze”. Questo ha prodotto- ed è prodotto di- una “de-standardizzazione e una de-differenziazione” tra “lavoro” e “vita”; inoltre, nel processo è cambiata l’espressione della fonte del controllo sul lavoratore: la Fabbrica ha ceduto il passo alla Scadenza, e ciò nel contesto illusorio di un generale guadagno in termini di autonomia rimessa al singolo dipendente. Senza che ce ne rendessimo conto, dice Rosa, si è instaurato un “regime totalitario del tempo”, che ci impone eteronomamente come – e quanto – aderire al funzionamento del sistema: l’alternativa c’è, ed è l’esclusione sociale e umana, l’annientamento personale. Il problema, nel concreto del caso dello smart-working, è di giustizia, perché il confinamento nella dimensione individuale rende più difficile il lavoro di contrattazione sindacale in maniera direttamente proporzionale all’incremento del potere di controllo del datore di lavoro; ma, ancora di più – secondo Rosa -, è un problema legato alle condizioni in cui si forma la soggettività, individuale e collettiva nel segno dell’eteronomia. 

In questi termini, il lavoro dei riders, ma anche quello dei dipendenti di Amazon, sono l’esempio di come le implicazioni di questo regime totalitario del tempo si riflettono sulla natura del lavoro e del lavoratore nel segno della competitività e della performatività, come abbiamo visto, stretto tra l’illusione dell’autonomia nel conseguimento dei propri incarichi e l’evidenza virtuale dell’algoritmo che detta la frequenza entro la quale, se si è dentro, si compete. La scelta, quindi, è tra un lavoro che si confonde sempre di più con la vita e un’esclusione la paura della quale va oltre il timore dell’emarginazione sociale, oltre il timore della morte. 

La generazione come prospettiva 

Fin qui abbiamo guardato al cambiamento dal punto di vista individuale, seguendo il retaggio per cui una trasformazione della soggettività riguarda l’individuo. C’è un altro piano del discorso: quello collettivo, che potremo analizzare una volta motivato il passaggio ad esso. Rosa continua argomentando che la sfera della competitività è arrivata a “colonizzare” l’intera sfera della vita- della “libertà”- nell’illusione di una (ri)conquistata personalizzazione del lavoro: in questo modo, in ogni campo della vita ognuno ritiene che “non c’è certezza che lo status, una volta raggiunto, verrà mantenuto”. 

Le implicazioni di questo pensiero sul carattere (divenuto) situazionale comportano un’astensione, anzi una repulsione dall'”impegnarsi in scopi di vita che abbiabo una durata che comporti obbligazioni a lungo termine”, e invece la propensione a captare e inseguire l’occasione del momento in un tempo frammentato, in un comportamento frammentato, in un piano individuale ridotto in frammenti- atomizzato, direbbe Löwenthal- dal terrore del venir meno alla competitività. 

Ogni individuo diviene in sè frammentato, e, insieme, un frammento di un’umanità scomposta, famelica: di questo segno è il cambiamento, per quanto riguarda i rapporti interpersonali. E il piano del cambiamento sociale- svanito un mondo della produzione distinto e le sue classi, atomizzata l’umanità- può essere rinvenuto nel ritmo (naturale, culturale, storico: umano) dello “scambio generazionale”: così, “mentre nella prima modernità i cambiamenti sociali erano tradizionalmente concepiti nella successione delle generazioni, oggi essi possono essere osservati in una dinamica interna alla medesima generazione”. 

In termini di tempo – e dei cambiamenti, i processi ad esso associati – siamo passati “da un piano di cambiamento inter-generazionale nella prima modernità, a una fase di sincronizzazione data dalla successione delle singole generazioni [ognuna in sè autonoma] durante la modernità classica, ad un’accelerazione che è divenuta virtualmente intra-generazionale nella tarda modernità” e ciò ha comportato un’estinzione del ruolo della generazione come ruolo collettivo, ed una sua persistenza o resistenza come teatro di rapide e indeterminate (tras)formazioni collettive che avvengono entro il tempo della vita di un’unica, medesima generazione. Pertanto, quella che Rosa definisce la perdita di “continuità diacronica e di coerenza sincronica”, riguarda l’individuo, sì, ma dev’essere osservata come fenomeno imperniato nella modifica della direttrice temporale fondamentale, che è quella generazionale a meno che non si concepisca l’individuo come Singole, come monade (ma allora si starebbe al gioco dell’atomizzazione). Ed è forse proprio qui, su questo piano, che si deve immaginare la sfida per una riconquista del tempo allo spazio dell’autonomia. 

Lorenzo Ianiro

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Via con i falsi miti sul mondo del lavoro, insegui i tuoi sogni con un podcast

“Che lavoro vuoi fare da grande?”, questa è una delle tante domande che ci viene posta fin da  quando siamo bambini. Per tale motivo, nel corso degli anni, ci affanniamo per trovare una  risposta che possa risultare soddisfacente agli occhi degli altri. “Lavorare in giro per il mondo”  oppure “diventare attore e vincere due premi Oscar” o ancora “diventare un’astronauta e  arrivare sulla luna” sembrano frasi adatte solo se si resta eterni “Peter Pan”. Quando  sopraggiunge il periodo adolescenziale risulta complesso scegliere un percorso da seguire ben  delineato e spesso ci si ritrova a dover abbandonare il mondo dei sogni.

La società attuale ci spinge  a ragionare con il “pensiero cartesiano”, indirizzandoci verso la scelta di un lavoro più sicuro  dove non sono ammessi errori di calcolo. Per questo basta guardare le statistiche che vengono  riportate nel sito di Almalaurea dove appare chiaro come, se si vuole entrare nel mondo del  lavoro, è necessario scegliere delle facoltà economiche o scientifiche. Anni e anni passati a studiare  argomenti che magari non attirano il nostro interesse, ma che ci garantiranno un giorno uno stipendio  più o meno ben retribuito. Tuttavia, come è emerso, in seguito alla pandemia di Covid-19 che ha  creato nuove prospettive di vedere il mondo, lo scenario lavorativo è soggetto a mutazioni  impreviste.

Secondo un’indagine effettuata dal Sole24ore è risultato chiaro come l’impatto  dell’emergenza sanitaria abbia influenzato la domanda di professioni. “In cima alla top ten delle  figure professionali più cercate troviamo l’infermiere qualificato, il tecnico di laboratorio, poi il  medico, il software engineer, l’analista software, il sistemista, il responsabile vendite, lo specialista  commerciale e l’export manager”. Emergono anche figure con una media qualifica, ma sempre  ricercate quali badante, corriere o addetti allo stampaggio. Lo stile di vita di ognuno di noi si deve  adattare alle circostanze e così anche il mondo del lavoro richiede lo sviluppo di nuove professioni o  la riconsiderazione delle vecchie.

In questo contesto però, e anche prima della pandemia, si  vengono ad instaurare dei meccanismi di sfiducia verso determinati settori di impiego e più in  generale nei confronti del mondo del lavoro. A questo proposito, risulta illuminante il podcast di Adecco intitolato “Job Busters” che con la voce guida di Federica Mutti, 24enne Brand  Strategist e Content Creator, mira a sfatare i falsi miti del lavoro. “Anno sabbatico? Allora non  hai voglia di lavorare”, “Se non hai talento non troverai mai il lavoro dei tuoi sogni” e ancora  “Laurea umanistica? Disoccupazione garantita”. Queste sono alcune delle affermazioni che hanno  destato la mia attenzione e che hanno messo in discussione parte delle mie credenze. Il nostro Paese  ha il record della più bassa percentuale di laureati d’Europa ed è il terzo al mondo per quanto riguarda  il cosiddetto “Skill Mismatch”, ovvero si creano molti laureati in scienze sociali, artistiche e  umanistiche, mentre il mercato del lavoro richiede ingegneri, medici ed economisti.

Sembrerebbe dunque, dinanzi a tale scenario, che non ci sia spazio per aspiranti filosofi o poeti, ma è realmente  così? Una delle storie che ci viene raccontata nel podcast è quella di Andrea Facchini, top  manager che nonostante abbia avuto una formazione prettamente umanistica ha lavorato per  grandi multinazionali quali Coca-Cola e Nokia. Secondo Andrea, le aziende ricercano anche  persone in grado di tessere relazioni pubbliche con buone capacità comunicative e soprattutto dotate di un forte stimolo creativo. Queste qualità, tipiche anche di un background umanistico,  aggiunte a delle competenze più tecniche creano “il super potere”, ovvero il valore aggiunto che viene richiesto dalle imprese.

Cosa accade però, se ancora non si è riusciti a trovare la propria strada?  Se si pensa di non avere il talento necessario per scalare la vetta? Ecco che interviene Luca Mazzucchelli, psicologo e divulgatore che sostiene il detto “la grinta vale due volte il talento”. La  parte genetica, infatti, fornisce un recinto oltre il quale non si può andare, ma l’allenamento è la chiave  per poter raggiungere i propri obiettivi e migliorare le nostre capacità. Secondo Mazzucchelli, tra  cinque anni saremmo il risultato delle abitudini che oggi decidiamo di acquisire. A tale proposito  potrebbe risultare di aiuto stilare una lista personale con i propri punti di forza e di debolezza e  migliorare gradualmente le nostre potenzialità. Queste ultime infatti, anche se possono sembrare  inesistenti, riposano dentro di noi ed è necessario creare degli stimoli per andarle a risvegliare,  ricordandosi sempre che ciò che conta è la forza di volontà. Come afferma Chiara, Senior Recruiter di Adecco, un’azienda è più incline ad assumere un candidato con più motivazione rispetto ad uno  molto qualificato, ma senza una reale passione.

Non lasciarsi abbattere dagli stereotipi del mondo del  lavoro potrebbe essere il primo passo per trovare il lavoro dei propri sogni. Nel libro intitolato “Segui il tuo destino” scritto da Raffaele Morelli, psicologo e presidente dell’Istituto Riza, emerge come in  ognuno di noi sia in atto una continua metamorfosi del Sé. “Quando Goethe dice “Segui il tuo  destino”, ci sta spiegando che siamo esseri dai tanti volti, ma che dentro di noi è tracciato un  percorso che ci conduce alla nostra meta. Ragionare come tutti gli altri vuol dire perdersi la strada.  Veder invece che abbiamo interessi e immagini solo nostri, passioni e desideri che appartengono  unicamente a noi, apre la porta a ciò che deve accadere. E comunque, come dice Goethe, non puoi  sfuggire al tuo destino, perché l’individualità sa sempre dove andare”. Non è sempre facile a 20 anni possedere delle idee chiare sul proprio lavoro futuro, a maggior ragione nel nostro paese. Tuttavia, cercare di ascoltare dentro noi stessi può rappresentare un metodo efficace per evitare di trasformarsi in uomini e donne insoddisfatti e inappagati della propria vita lavorativa. Inseguire i propri sogni con la giusta motivazione e determinazione non può costituire un fallimento, almeno non per la nostra anima.

Vi lascio così con una poesia di Costantino Kavafis,  “Itaca”, che forse può aiutare a riflettere sull’essenza del nostro viaggio sulla terra, al di là delle ansie  legate ad un mondo incentrato unicamente su forme di successo. 
“Quando ti metterai in viaggio per Itaca  devi augurarti che la strada sia lunga,  fertile in avventure e in esperienze.  I Lestrigoni e i Ciclopi  
o la furia di Nettuno non temere,  
non sarà questo il genere di incontri  se il pensiero resta alto e un sentimento  fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.  In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,  
né nell’irato Nettuno incapperai  
se non li porti dentro  
se l’anima non te li mette contro. 
Devi augurarti che la strada sia lunga.  Che i mattini d’estate siano tanti  
quando nei porti – finalmente e con che gioia – toccherai terra tu per la prima volta:  negli empori fenici indugia e acquista  madreperle coralli ebano e ambre  
tutta merce fina, anche profumi  
penetranti d’ogni sorta; 
più profumi inebrianti che puoi,  
va in molte città egizie  
impara una quantità di cose dai dotti 
Sempre devi avere in mente Itaca – 
raggiungerla sia il pensiero costante.  Soprattutto, non affrettare il viaggio;  fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio  metta piede sull’isola, tu, ricco  
dei tesori accumulati per strada  
senza aspettarti ricchezze da Itaca.  Itaca ti ha dato il bel viaggio, 
senza di lei mai ti saresti messo  
in viaggio: che cos’altro ti aspetti? 
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.  
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso  
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.” 

Irene Pulcianese

Fonti:

Le imprese eccezionali – Tibibbo

L’impresa eccezionale è essere normale” cantava Lucio Dalla; oggi questa affermazione si rispecchia nel mondo del lavoro, dove le piccole e medie imprese per sopperire alle tante difficoltà e per sopravvivere in una condizione di normalità sono costrette ad essere eccezionali.
La disillusione vi propone una serie di interviste a piccoli imprenditori: persone normali che riescono nell’impresa eccezionale di portare avanti la propria attività.
Oggi vi portiamo a conoscere la storia dell’enoteca e vineria Tibibbo – Calici e amici in via Via Poggio Ameno, 52 a Roma.

Buongiorno e benvenuto su La disillusione. Per chi non ti conoscesse lasciamo che sia tu presentare te stesso e la tua attività.
Buongiorno, sono Fabrizio e questa attività nasce da un sogno, un piccolo sogno che porto avanti da tanti anni. Fino a due anni fa ho fatto un lavoro completamente diverso, l’impiegato; poi per varie vicissitudini si è pian piano realizzato questo sogno. Nasce così Tibibbo, con questo nome che ricorda un vitigno, lo zibibbo, ma in realtà è l’unione dei nomi Tiziana e Bibbo. Tiziana è l’altra metà di questo sogno e Bibbo sono io, perché da piccolo quando chiedevano il mio nome dicevo loro ‘Bibbo’. E così è nato Tibibbo: poi si sono aggiunti i figli e siamo diventi i Tibibbos e giochiamo su questo nome. Abbiamo avuto l’elfa Tibibba che faceva l’altro giorno i pacchi di Natale…
Il Tibibbo Natale anche…
Sì, quando lavoravo in ufficio, visto che negli ultimi anni ero il più anziano, facevo il Bibbo Natale.

Che cosa ti ha spinto a scegliere questo percorso professionale? Da dove viene questo tuo sogno?
Perché mi piace l’alcol sembra brutto? Sarebbe anche un po’ riduttivo… Allora il sogno è sempre stato una piccola realtà di questo tipo, un locale non di grandi dimensioni e non con tanti coperti, bensì un posto raccolto e poi con Tiziana e i figli è nata questa idea di creare il posto che fosse il muretto degli amici di un tempo e l’abbiamo anche scritto sul nostro sito. Quando ero giovane non c’erano i social e quindi si stava al muretto in comitiva: lì si passava del tempo sereni ed è quello che abbiamo voluto ricreare qui appunto, in un ambiente raccolto e familiare, tranquillo dove non c’è la frenesia di consumare nel minor tempo possibile. Tu vieni qui, bevi un calice, mangi qualcosa e stai qua a fare due chiacchiere. Fino a questo ci stiamo riuscendo se siamo giovani, come attività. Almeno io, gli altri sono giovani sul serio.

Quanto è difficile avere e mandare avanti un’attività in questo Paese? E quali sono state e quali sono le principali difficoltà che avete incontrato?
Sarò banale, ma quello che ingessa e scoraggia chi ha idee di questo tipo è la burocrazia: la trafila di carte da produrre, figure professionali da interpellare… Insomma potrebbe essere snellita molto. Per aprire questa attività, senza considerare l’idea, tra la ricerca del posto e tutto il resto sono trascorsi due anni: e non è poco. Adesso ho cinquantatré anni e a questa età non dico che vai un po’ più di corsa ma forse senti di avere meno tempo, hai meno energie e meno voglia. Credo che il altre realtà, in base a quanto ho sentito, anche in un mese si può aprire un’attività del genere. La cosa più difficile è star dietro alle leggi che cambiano per le quali ti devi affidare a tante figure professionali che ti tutelano ma che non hanno poi la responsabilità delle loro scelte e quindi è un po’ come un cane che si morde la coda. Il sonno viene tolto principalmente da questo: come far quadrare il tutto nel rispetto delle leggi.
Ad esempio un ostacolo che ho incontrato è stato quello di una struttura presente nel locale che ho voluto rimuovere perché non idonea e questo ha portato a presentare una serie di documentazioni e mi ha limitato ulteriormente: per fare le cose più a norma di legge possibile sei penalizzato. Aree che prima erano tranquillamente utilizzate ora non le posso più usare perché magari dieci centimetri rispetto a quanto previsto dalla normativa. A me va benissimo questo, perché se ci sono delle regole vanno rispettate ma questo deve valere per tutti. Quello che più rode dentro è che i figli e i figliastri non mi sono mai piaciuti. Però poi ho imparato nella vita a guardare alla mia realtà senza invidiarne altre e anzi magari ad aiutare qualcuno a risolvere dei problemi dandogli un consiglio. Che poi, per inciso, aver smontato quella struttura non a norma mi ha portato dei benefici: ora la vedi qui riciclata nei legnami del bancone e della panca, trovando così uno stile architettonico ed estetico che mi piace.
Un’altra cosa che forse toglie il sonno è la sensazione che in Italia tu non possa mai essere in regola del tutto. Un po’ come la famosa frase che si dice quando ti fermano al posto di blocco, che se ti vogliono trovare qualcosa che non va in un modo o nell’altro la trovano, ma assolutamente non per responsabilità delle forze pubbliche, ma perché la legge è fatta in modo tale che qualche cavillo si va a trovare. Noi ce la mettiamo tutta, però.

Superati i problemi, che cosa auspicate per il futuro della vostra attività?
Beh, innanzitutto la sopravvivenza è fondamentale. Noi puntiamo a dei ritmi più “umani”: vorremmo che questo posto non fosse una macchina da soldi, ma un locale conosciuto come un logo dove vai e stai sereno, in un ambiente accogliente in cui non ti viene messa fretta, con materie prime di qualità ottima e della buona musica, perché no. C’è dunque da far capire alla gente che quello che trovi qui è selezionato e di qualità veramente. Fino ad oggi il novanta per cento o anche più delle persone che transitano e sono transitate in questo locale lo riconosce e riconosce tutte queste cose. Il progetto è questo: creare un posto che consenta a me e la mia famiglia di vivere e però facendo qualcosa che ti piace. Ti racconto un aneddoto: qualche sera fa la sala era piena e dopo aver finito di lavorare in laboratorio ho fatto un giro tra i tavoli per sentire come andavano le cose; tutti i tavoli, seppur pochi come vedi, erano entusiasti, per il cibo, per l’accoglienza, per la gentilezza, per gli abbinamenti. Mi è stato chiesto quanti anni fossero che faccio questo mestiere. E sono solo quattro mesi. Mi sono emozionato. Mi sono andato a sedere sulle scale che vedi là dietro, tanto è che Tiziana mi ha chiesto che cosa era successo. E niente, mi ero emozionato. Questa forse è la miglior ricompensa. C’è poi qualcuno che rimane insoddisfatto o magari non gradisce del tutto, ma la cosa bella è che ci danno dei consigli e uno li accoglie volentieri: molte cose del menù sono cambiate in base ai suggerimenti costruttivi dei clienti.
Dal menù mi pare di notare anche un chiaro richiamo al concetto di slow food come filosofia del locale in contrapposizione alla velocità che viene oggi richiesta.
Sì, hanno cominciato a capire che la velocità qui è meglio se la lasciano fuori. Vieni e goditi la tua ora in pace lasciando fuori i problemi. L’altro giorno addirittura una persona mi ha detto che facciamo un lavoro socialmente utile ed è stata bella come cosa.

Come selezionate i vostri prodotti? E come si sceglie un buon vino?
Ti potrei rispondere che è uno sporco mestiere ma qualcuno deve pur farlo. Per selezionare i nostri prodotti ci affidiamo a grosse realtà che sappiamo come lavorano e le materie prime che usano, ovviamente con dei costi per noi diversi. Avendo un laboratorio a freddo ovviamente i costi cambiano, perché se io potessi preparare i piatti in autonomia mi costerebbe di meno. Uno dei consigli che non ho accettato è quello di abbassare la qualità, così da abbassare il prezzo e far venire più gente. Ecco, questa è l’antitesi dell’idea di questo locale.
Comunque il selezionare i prodotti e i loro abbinamenti è un qualcosa che faccio da sempre: mi è sempre piaciuto mangiare, poi cucinare e quindi la selezione del prodotto è fondamentale. Ho avuto la fortuna di incontrare persone che a loro volta conoscevano realtà, buoni produttori, affidabili, come Orme, una realtà a chilometro zero, oppure il pastificio Mauro Secondi, molto noto in Italia, e poi tanti altri. Una volta che ti rivolgi a queste realtà la qualità viene da sé.
Per quanto riguarda il vino con Tiziana sono diversi anni che andiamo in giro per cantine e abbiamo creato una rete di conoscenze, anche tramite corsi di sommellerie e assaggiatori: anche qui, persone che ti portano sul campo e ti consigliano. Siamo andati dalla Sicilia al Trentino per vedere le vigne e le cantine, perché un buon vino come si sceglie? Per quello che è la mia idea devi guardare le persone in faccia, devi vedere le loro realtà e il loro modo di lavorare: se lavori bene in vigna, lavori bene in cantina non hai bisogno poi di tanti interventi chimici alla fine del processo. Oggi ci stanno riempiendo la testa con i vini naturali e biodinamici: io dico soltanto che bisogna stare attenti perché con questa scusa ci stanno forse propinando dei prodotti non propriamente buoni. Dato che il vino biodinamico ha dei profumi e dei sapori che non sono propri del vino che abbiamo bevuto per anni, è facile che un vino difettato possa passare per biodinamico, che è “come lo faceva nonno” ma non è detto che fosse di qualità.
Devi essere bravo e fortunato nella selezione. Per fortuna abbiamo persone che ne sanno più di noi e ci hanno instradato, consigliato e fatto da guida. E poi: bere, mangiare, provare.

Fabrizio, grazie per il tempo che ci hai dedicato e in bocca al lupo per la vostra attività.

 

Danilo Iannelli 
Paolo Palladino

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La disillusione non ha alcun tipo di rapporto commerciale ed economico con le aziende incontrate e la selezione delle stesse ai fini dell’intervista avviene sulla base dei gusti personali degli intervistatori.

 

 

Le imprese eccezionali – I Gemelli Gelateria

L’impresa eccezionale è essere normale” cantava Lucio Dalla; oggi questa affermazione si rispecchia nel mondo del lavoro, dove le piccole e medie imprese per sopperire alle tante difficoltà e per sopravvivere in una condizione di normalità sono costrette ad essere eccezionali.
La disillusione vi propone una serie di interviste a piccoli imprenditori: persone normali che riescono nell’impresa eccezionale di portare avanti la propria attività.
Oggi vi portiamo a conoscere la storia della gelateria artigianale I Gemelli Gelateria in via Mario Musco 44/46 a Roma.

 

Buongiorno e benvenuti su La disillusione. Per chi non vi conoscesse lasciamo che siate a voi presentare voi stessi e la vostra attività.
M: Buongiorno a tutti, siamo Davide e Matteo, siamo due giovani imprenditori, i proprietari de I Gemelli Gelateria e siamo, appunto, due gemelli per davvero.
E questo spiega anche il nome.
M: È stato molto semplice trovarlo.
È un tratto distintivo, non sono molte le attività gestite da due gemelli.
M: No, effettivamente. Devo dire che ci aiuta molto anche il nostro rapporto: due fratelli possono prendere anche due strade separate, ma nel nostro caso il lavoro ci ha unito ancor di più.
D: Sì, infatti il nome è facile, intuitivo, ti arriva subito. Quindi ci abbiamo messo veramente poco a trovarlo.
M: Anche se qualcuno pensa sia il segno zodiacale.
D: Poi ci vedono e non ci sono più dubbi. Sì, è stato facile… Perché poi di solito scegliere il nome di un’attività è complicato, perché non ti dico che sia il segno distintivo però ti riconoscono da questo: è un marchio vero e proprio. E infatti noi l’abbiamo registrato.

 

Che cosa vi ha spinto a scegliere questo percorso professionale?
D: La nostra è una passione che nasce dai nostri nonni e dai nostri zii su in Romagna: sono sessant’anni che fanno gelato lì e noi siamo cresciuti dentro le gelaterie; naturalmente questo ci ha portato poi a capire che era questa la nostra strada: bisogna studiare tanto, non è facile, ma comunque avevamo già l’obbiettivo di aprire una gelateria.
M: Già dieci anni fa in realtà.
D: Abbiamo iniziato a lavorare a diciassette/diciotto anni, ma noi sapevamo già in quel periodo quello che volevamo fare. Abbiamo faticato tra call center, uffici, abbiamo fatto di tutto…
M: Contratti a tempo determinato…
D: Con l’unico obbiettivo di aprire il negozio.
M: Il nostro negozio.

 

Quanto è difficile avere e mandare avanti un’attività in questo Paese? E quali sono state e quali sono le principali difficoltà che avete incontrato?
M: Dal momento in cui abbiamo deciso di aprire il negozio, tra il cercare il locale adatto, la zona adatta e tutto il resto, considera che sarà passato un anno e mezzo: la burocrazia naturalmente qui non aiuta. Noi siamo partiti da zero, non avevamo quasi nulla da parte eccetto qualche piccolo risparmio nostro, quindi è stato difficile trovare anche i finanziamenti per avviare l’attività. Poi casualmente siamo venuti a conoscenza del CNA che mette a disposizione un microcredito per le piccole imprese che ci ha aiutato ad andare avanti nel nostro progetto. Però effettivamente il problema è che è già complicato portare avanti un’attività già aperta e avviata, perché tra tasse e problemi burocratici è già difficile, ma aprirla lo è ancora di più.
D: Sembra quasi lo facciano per non farti aprire il negozio.
M: Esatto, quasi ti scoraggiano. La non informazione e il non sapere dove andare a chiedere o a informarsi è una cosa che ti abbatte totalmente.
D: Non è che te li debbano regalare, non siamo andati a cercare soldi a fondo perduto… C’è stato un periodo veramente scoraggiante: i fondi che avevamo non erano enormi, non avevamo una liquidità tale da permetterci di cominciare i lavori… C’erano giorni in cui davvero non sapevamo che cosa fare.
M: Noi inoltre abbiamo avuto un problema con l’elettricità: siamo stati bloccati per quattro mesi perché la gestione precedente aveva un debito con la società fornitrice d’energia; noi abbiamo dovuto pagare il debito…
D: Debito non nostro.
M: Per potere chiedere il nuovo contatore. Siamo stati due mesi qui con l’operaio che aveva un suo piccolo generatore. È stato veramente massacrante, però se ti piace lo fai. Adesso che siamo riusciti ad aprire la nostra attività, fondamentalmente grazie all’aiuto del CNA e del piccolo fondo che ci ha messo a disposizione, quando ci vengono a chiedere ‘Mai voi come avete fatto?’, noi li indirizziamo lì direttamente. Fortunatamente c’è il passaparola tra persone, perché effettivamente su internet e sui giornali non c’è nulla. Questa è la più grossa difficoltà che si incontra per aprire un’attività. Per facilitare l’apertura di un’attività ci deve essere informazione sulla tipologia di finanziamenti. Aggiungo poi tra l’altro che quando noi abbiamo deciso di aprire il negozio era il periodo del Microcredito 5 Stelle, però era difficilissimo ottenerlo.
D: Matte’ ma ti ricordi quel giorno che siamo andati in quell’ufficio e non c’era nessuno? Non sapevano nemmeno di che cosa stessimo parlando… Tu andavi sul sito e c’era una lista di indirizzi: noi siamo andati in uno di questi e non sapevano nemmeno di che cosa si stesse parlando! Non c’è informazione! Siamo quasi nel 2020, ci sono dei siti che sono impossibili da utilizzare: i siti della pubblica amministrazione poi! A dei ragazzi, che comunque hanno la capacità di muoversi nel web, non dai la possibilità di utilizzarli, perché non c’è niente! E questa è una cosa assurda! E poi naturalmente tutta la burocrazia… Perché questi sono i problemi dell’inizio ma poi viene anche il dopo. Se tu devi fare una cosa, mettere una luce all’esterno, i secchi dell’immondizia, le tende, per esempio, devi chiedere l’autorizzazione e ti fanno aspettare sei mesi.
Di nuovo, sembra che ti vogliano scoraggiare…
M: Sicuramente l’intento non è quello, però quello è l’effetto.
D: Che poi i negozianti, tutti, sono il portafogli del comune, il bancomat del comune, perché per qualsiasi cosa chiedono a noi i soldi. Comunque, riassumendo, il problema fondamentale è la burocrazia, ma non diciamo nulla di nuovo. Il discorso qual è? Che chi non la vive non lo capisce.
Superati i problemi, che cosa auspicate per il futuro della vostra attività?
D: Diciamo che noi qualche progetto ce l’abbiamo ed è quello di migliorarci sempre di più, di ampliare il marchio, magari aprire altri negozi.
M: Quello è il sogno…
D: L’obbiettivo! È il sogno e l’obbiettivo.

Per concludere: qual è il segreto di un buon gelato e perché qualcuno dovrebbe venire a prenderlo proprio da I Gemelli?
M: Il segreto di un buon gelato, che poi vale per tutte le cose che si mangiano, è quella della qualità delle materie prime, ma anche il saperle utilizzare è importante: perché si possono anche prendere materie prime costosissime e buonissime ma se non sai come utilizzarle non rendono al meglio. E poi la banale passione in realtà.
Che non è tanto banale.
D: Principalmente noi ci poniamo anche questo come obbiettivo, giornaliero proprio: noi facciamo il gelato fresco. Tutti i giorni. Tutti i giorni facciamo il gelato: quindi oltre alla materia prima, che è importantissima come diceva Matteo, è la freschezza del gelato che fa la differenza. Chi viene a mangiare il gelato da noi mangia il gelato fresco.
M: Perché non è il gusto in realtà la cosa più importante nel gelato, ma la sensazione che ti lascia dopo che l’hai mangiato, perché è quella che il cuore, la testa, il cervello, i muscoli, la lingua e tutto il resto si ricordano: la sensazione del buon gelato che hai mangiato. Perché il gusto buono si trova, ma è il fatto della freschezza e della quotidianità che ti dà la sensazione.
D: Noi abbiamo fatto una scelta: pochi gusti, noi d’estate ne abbiamo sedici più le granite e d’inverno scendiamo a dodici, perché se non vuoi sprechi e vuoi il gelato fresco non puoi fare diversamente. Questa è stata proprio una scelta: non abbiamo voluto fare una gelateria con cento gusti. Pochi gusti ma preparati tutti i giorni: questo è il nostro credo. Lavoriamo sui classici, ogni tanto inseriamo qualche chicca perché comunque ci piace sperimentare e divertirci.
M: Anche perché la nostra benzina è la curiosità. Perché poi c’è anche uno studio sotto: c’è bisogno di fare prove, di bilanciare bene la ricetta…

Quanto gelato mangiate prima di proporlo al pubblico?
M: Ma in realtà poco, lo sai?
D: Lo assaggiamo. Tutto ciò che viene messo in banco e in vetrina viene prima assaggiato. Mangiamo poco ma assaggiamo tanto. Il gelato, prima di piacere al cliente, deve piacere a noi.

 

Davide e Matteo, grazie per il tempo che ci avete dedicato e in bocca al lupo per la vostra attività.

 

Danilo Iannelli 
Paolo Palladino

 

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La disillusione non ha alcun tipo di rapporto commerciale ed economico con le aziende incontrate e la selezione delle stesse ai fini dell’intervista avviene sulla base dei gusti personali degli intervistatori.

 

 

Sabbie mobili

Primavera 2012: sbarbatello, da poco iscritto all’università, ancora non mi sembra vero poter aver una macchina tutta mia e poter guidare, libero; nell’autoradio King del rap di Marracash, uno dei migliori album prodotti dall’hip hop italiano. Entra la traccia Sabbie mobili.

“No, non agitarti, resta immobile
Puoi metterci anni, e guardare ogni cosa che
Affonda nelle sabbie mobili
Si perde, nelle sabbie mobili”

Ascolto il ritornello, lo canticchio, ancora ignaro: sì, so già che sarà difficile, so già che vivo in un periodo storico complicato, in un Paese che non se la passa proprio bene; ma mi protegge l’ingenuità e la speranza dei vent’anni, la grande bolla dell’università, che ti atterrisce con gli esami e le tante pagine da studiare, ma è pur sempre un grembo tiepido, rispetto a quello che ti aspetta dopo.

Autunno 2019: qualche pelo di pelo di barba in più, percorso accademico ormai concluso, con tanto di lode e festeggiamenti annessi; sempre in macchina, imprecando, bloccato nel traffico; il Daily Mix di Spotify, in riproduzione casuale, propone Sabbie mobili di Marracash.

“Nessuno lascia le poltrone niente si muove
Nessuno osa e nessuno dà un’occasione!
Impantanati in queste sabbie mobili, si muore comodi
Lo Stato spreca i migliori uomini!”

Disillusione a palate.
Stavolta le parole colpiscono, affondano il colpo. Non sono più soltanto il testo di un pezzo rap. Adesso mi sento molto più consapevole: ci vivo in queste sabbie mobili; non sono più soltanto una metafora, le sento addosso, vischiose, sulla pelle.

La sensazione di un neolaureato in cerca di occupazione (ne avevo già parlato in un vecchio articolo) è molto simile a questo fenomeno naturale: spesso drammatizzato nei film d’avventura, esso se considerato nella sua entità fisica non può provocare realmente lo sprofondamento del soggetto nella sua interezza, ma soltanto per metà del corpo; il loro vero pericolo mortale è però dato dal fatto che, effettivamente, uscire dalle sabbie mobili prevede uno sforzo notevole e spesso è quasi impossibile farlo senza un intervento esterno: la fame e la disidratazione dovute a una lunga permanenza portano alla morte dell’individuo.

La metafora però è molto più vicina all’immagine delle sabbie mobili come quelle pozze fangose che inghiottono il malcapitato e, più questo si dibatte, più queste lo avvolgono, risucchiandolo verso il fondo. È questa la percezione: più mi muovo, più affondo; se resto fermo sprofonderò ugualmente, più lentamente, certo, ma inesorabilmente.

Viviamo in un Paese che sembra una gigantesca pozza di sabbie mobili: un Paese che puzza di vecchio, non solo anagraficamente, in cui qualsiasi aspirazione creativa e artistica non è nemmeno contemplata e viene relegata, al massimo, con l’etichetta dell’hobby; un Paese in preda all’immobilismo, in cui le opportunità sono sempre poche e quasi mai raggiungibili senza un intervento esterno, in cui vanno avanti sempre i soliti, i figli, i nipoti e gli amici di, in cui il più furbo ha sempre la meglio sul più meritevole; un Paese culturalmente in cancrena, senza futuro, in cui manca lungimiranza e senso civico, in cui la diversità fa paura e viene trattata come una malattia, più che una risorsa; un Paese in cui la politica non riesce mai ad andare oltre la mera propaganda, che oscilla tra i due poli opposti del tecnicismo e del populismo, in cui lo sguardo è sempre rivolto al passato, ma che non riesce mai ad affrontare le esigenze del presente, figuriamoci del futuro; un Paese in cui la cultura e il titolo di studio rappresentano più un handicap che un’arma in più, in cui per avere successo bisogna sempre piegarsi a certe logiche, quelle delle mani che si lavano tra loro ma che, alla fine, restano sporche entrambe; un Paese che difficilmente dà dignità al cittadino onesto, allo studente meritevole, al lavoratore indefesso, che premia invece i furbetti, gli arrivisti, gli evasori; un Paese in cui l’ascensore sociale è rotto ormai da anni, fermo al piano terra, zeppo di persone, mentre all’attico si fa festa, ma si accede solo se si è sulla lista giusta; un Paese che odia le immigrazioni ma costringe ad emigrare, in un paradosso di vite  che sembra non aver mai fine.

E dunque che cosa fare? Dibattersi o attendere? Aspettare: ma cosa?
Come la neve che ghiaccia e immobilizza tutti, vivi e morti, ne The Dead di James Joyce, vedo questo Paese bloccato in queste sabbie mobili. “Go west” mi dico; ma poi resto fermo, come Gabriel alla finestra, a guardare la neve, inseorabile, scendere.

Danilo Iannelli


Foto in copertina di Cecilia Calistri