Archivi tag: lettera

Ti ascolto

Cara Elena, 

credo sia questo il tuo nome, se esisti davvero. Ti scrivo questa lettera continuando a ripetermi che tu esisti senza sapere se ti ho incontrata nella vertigine dei miei sogni più profondi, che a stento ricordo, oppure nell’allucinazione del mio desiderio più segreto. Dal giorno in cui per la prima volta sentii la tua voce scandire il mio passo ho smesso di sognare. La notte è pervasa solo da una triste e stancante solitudine. Qui c’è l’infinito, un infinito profondo. Sento la tua voce, una voce che riecheggia forte lungo tutto il mio corpo, la mia anima, lungo tutta l’estensione del mio essere. Chi sei realmente? Tu che pronunci parole che hanno il profumo del mare. Il vento soffia alla finestra e ti sento nuovamente. Sussurri le parole che scrivo e dolcemente canti le parole che leggo. La mia mente sembra decisa a confondermi, intenta a trascinarmi affondo, nell’abisso, ma la tua voce… la tua voce, in cerca di conforto in un luogo sconosciuto, pervasa da una forza brutale, riecheggia nella mia testa e mi dona una forza a me sconosciuta. Ti ho cercato nella vivacità di un mercato qualunque, ti ho cercato nelle immagini, nei suoni e non nelle persone. Mi impongo di osservare ogni suono. I miei occhi sono fessure affacciate su l’infinito, la luce dove sprofondo, mi bagna. Immergendomi nell’immagine decompongo il contesto; non si tratta solo di invadere lo spazio circostante ma anche le persone, i loro territori, i loro confini, e la loro soggettività. Nella ricerca di un suono che ti renda reale scivolo dentro questo mondo a me nuovo e disperatamente fuggo sempre più da me stesso. Sono ancora qui, colmo, assorto in una duplice osservazione. La tua essenza è dentro e fuori di me. Presenza e assenza. Suono e silenzio. All’improvviso ecco nuovamente la tua voce accarezzare il mio volto. Urlo. Rompendomi il petto urlo nella speranza che la mia voce trovi conforto in un altro luogo. Elena… ti ascolto, ecco tutto. Ti ascolto e questo mi basta. Ti ascolto e scrivo inerte senza sapere se riceverò mai una tua risposta.

Con affetto. 
Antoine

Oscar Raimondi

Pubblicità

Lettera al mio abuser

Ciao! Ti ricordi di me? Io sì, e vorrei avere un ricordo migliore di te. Ti ricordi? Tu avevi 16 anni, io 14. Mi piacevi così tanto. Ero nella fase in cui mi innamoravo di qualsiasi ragazzo che mi desse attenzioni. Perché è così che veniamo educate: a ricercare la vostra attenzione, a cadere ai piedi di qualsiasi ragazzo (eh sì, l’eteronormatività è alla base di qualsiasi relazione patriarcale) che fosse gentile con noi. O almeno, apparentemente gentile. Un po’ come la galanteria: tu sei gentile con me, mi paghi la cena e io in cambio ti devo una notte di sesso. 

Ero ingenua, a 14 anni. Non sapevo nemmeno come funzionassero le relazioni. Non lo sapevo, e l’ignoranza ti porta a concepire come sana anche la relazione più disequilibrata. E tu ti sei approfittato di me e della mia immaturità. Credevi che io ti avrei concesso tutto perché ero affezionata a te. E invece non è stato così. Ero una ragazzina che non aveva mai avuto esperienze sessuali, che non aveva la minima idea di cosa fosse il consenso. Ciononostante, sarei stata comunque capace di dirti di “no”, in caso qualcosa non mi fosse andato a genio. Ma a te questo non importava. Tu eri convinto di poterti prendere tutto quello che volevi. Per te le ragazze erano trofei da collezionare, a te non importava niente del consenso altrui. Tu volevi ricevere tutto, senza dare nulla in cambio. Credevi che tutto ti fosse dovuto in quanto uomo, concepivi il sesso come una gentile concessione.

Scommetto che non sai nemmeno di cosa sto parlando. Perché nella nostra società le violenze vengono normalizzate a tal punto che non ci accorgiamo né di compierle né di riceverle.

Avevo 14 anni, ero così insicura, senza autostima, odiavo il mio corpo e il mio aspetto, non avevo ancora mai avuto esperienze né con persone del mio sesso né del sesso opposto. E tu hai rovinato tutto. E sai qual è la cosa peggiore? Aver realizzato tutto ora, 5 anni dopo. Ora ho 19 anni, mi sono avvicinata al femminismo poco più di un anno fa ed è stata la rivoluzione della mia vita. Perché se sei una donna che si immerge nel mondo femminista, diventi consapevole di quanto faccia schifo la tua posizione nel mondo, di quanto l’odio per la tua esistenza sia radicato in ogni piccola cosa. E ti crollano addosso tutte le tue certezze quando realizzi cos’è un abuso sessuale, di averlo subito, ma di non essertene mai resa conto. Tu che hai sempre vissuto senza uscire più di tanto dalla tua comfort zone, scopri di non essere poi così protetta come credevi. Che poi, anche questo è un problema: perché devo essere io a proteggermi, mentre chi compie la violenza non subisce nessuna ripercussione? Ma torniamo al punto: non sei protetta perché la violenza sessuale nella maggior parte dei casi avviene per mezzo di partner, amici, familiari. Tutta bella gente di cui credi di poterti fidare. Anche quel ragazzo che ti piace tanto, quello che sembra la persona più socievole del mondo, che suona la chitarra alle assemblee di istituto, può abusare di te. Sei in pericolo anche con le persone di cui ti fidi.

Hai presente quando hai un tarlo nella mente ma non riesci a renderti conto di cosa si tratta? La stessa sensazione di quando stai per partire per le vacanze e all’improvviso hai l’impressione di aver dimenticato di mettere qualcosa in valigia, ma non ricordi cosa. Ecco, è più o meno questo ciò che avviene nella tua mente, ma moltiplicato x 100, quando si subisce una violenza “inconsapevolmente”: a livello cosciente sembra tutto okay, anche se hai una strana sensazione, di malessere, ti senti turbata ma non riesci proprio a capire perché. Specialmente quando quella sensazione si ripercuote sulla tua vita. In particolare sulla tua vita sessuale. Ti senti bloccata, vorresti darti alla pazza gioia con il tuo nuovo partner (e, parliamoci chiaro, fortunatamente non sei tu e non lo sarai mai), ma c’è qualcosa che ti tiene ancorata alla tua inesperienza. Il problema è sbrigliare la matassa, arrivare alla radice del problema. Ma come si può risolvere un trauma del genere se non sai nemmeno di aver subito un abuso? E qui entra in gioco il femminismo. Più mi addentro in questo magico mondo di donne pelose con i capelli blu e unicorni, e più mi rendo conto di quanto sia bello e liberatorio, ma allo stesso tempo frustrante, realizzare che il sessismo e la misoginia sono ovunque. La misoginia è un problema strutturale, così radicato che se estranei alle battaglie femministe, non sempre sappiamo riconoscerla. E questo vale anche per le forme in cui la misoginia si manifesta: lo stupro, la violenza di genere. Agli occhi dell’opinione pubblica la rappresentazione dello stupro è una sola: l’aggressione del pazzo maniaco alle due di notte che ti trascina in un vicolo buio e ti infila il fallo nella vagina con la forza senza permesso. E poi sangue, lividi. Fine. Tutte le altre forme della violenza di genere non vengono mai considerate al pari della penetrazione forzata (rigorosamente per strada e da parte di un pervertito sconosciuto, perché ci piace ignorare i dati ISTAT). Dunque, come tutte le altre persone sono cresciuta anche io con questo immaginario. Probabilmente, con le mie conoscenze di allora, finché non mi avessi penetrato senza consenso, non l’avrei mai considerata una violazione del mio corpo. Ma un “no” c’era stato. Ripetuto più e più volte. E tu hai deciso di ignorarlo, abusando della tua superiorità fisica e approfittando della mia debolezza mentale. Perché sapevi quanto io ci tenessi a te, ma questo non ti interessava perché io ero solo carne da macello.

Sai come si fanno chiamare le vittime di abusi sessuali? Survivors. Sopravvissute. Io ancora stento a riconoscermi come tale. Perché mi vedo più come una vittima, che come una sopravvissuta. E perché ancora non ho metabolizzato ciò che è successo, il mio cervello ancora continua a chiedersi se quella fosse una molestia oppure no. E non lo so perché. Forse perché ho ancora un briciolo di speranza che mi spinge a credere di far parte delle poche fortunate che non hanno mai subito abusi. Mi dico “Va tutto okay, non sei mai stata violata nella tua parte più intima”. Ma la realtà è che io ci ho messo una vita a realizzare cosa fosse effettivamente successo, eppure continuo ad esitare e a sminuire la violenza che ho subito. E questo è paradossale, perché io sono sempre in prima fila a difendere le survivors, a credere alle vittime, per principio. Ma quando si tratta di me la situazione cambia. Tendiamo sempre ad essere un po’ più severi con noi stessi, soprattutto se conviviamo da sempre con l’insicurezza e la sensazione di essere inadeguati.

Il femminismo mi ha salvato la vita. Mi ha salvato da un’esistenza piatta e priva di valori, mi ha insegnato ad amarmi, a credere nelle mie capacità, ad accettare i miei kg in più. Adesso ho un rapporto migliore con la mia persona, mi sono creata una corazza che non potrai mai più abbattere. Tutta la mia ingenuità è stata sostituta dalla rabbia, dalla frustrazione (ahimè) e dal vigore. Ma a volte mi capita di pensare che forse senza aver preso coscienza di tutto il marcio che c’è nella società patriarcale, ora sarei più felice. Se non avessi mai compreso quello che mi hai fatto, cosa sarebbe successo? Nulla, sarei solo l’ennesima donna che non sa di essere stata violentata. Un numero in più da aggiungere alla lista.

E tra noi, sono io quella che ha subito ripercussioni sulla sua vita sessuale, mentre tu continui a viaggiare da un paese all’altro per intrattenere il tuo pubblico. Anni e anni in cui ho avuto paura di spingermi troppo oltre nel sesso, in cui ho creduto che non ne avrei mai goduto appieno, sempre per via di quel tarlo che mi consumava le pieghe del cervello. Provavo un forte disagio che alimentava le mie insicurezze, in campo sessuale. Non riuscivo a trovare la soluzione dell’enigma, il tassello mancante del puzzle. Era così frustrante ricevere senza riuscire a dare, nonostante mi sforzassi. Il mio corpo viaggiava alla velocità della luce ma la mia mente era ancora bloccata ai 14 anni. Finché non si è accesa la lampadina, all’improvviso. Ho realizzato. Ho cominciato ad indagare sul mio passato. Cosa c’è che non va in me? Perché non riesco a vivermi il sesso come vorrei? E ho proceduto a ritroso finché non sono giunta a te. Avevo dei fotogrammi orribili in mente: io che scuotevo la testa e tu che mi tenevi ferma con il tuo corpo di peso su di me. Niente sangue, né tumefazioni. Stavolta non era lo sconosciuto nel vicolo di notte, era una persona che conoscevo bene. Da lì è stato tutto in discesa. È stato liberatorio per certi versi, almeno per la mia vita sessuale. Ma elaborare il fatto non è stata una passeggiata, ancora non ci riesco del tutto. Non voglio accettarlo, non me ne capacito. Siamo abituati a pensare che le cose brutte accadano solo agli altri, eppure…

Ho iniziato a parlarne con le persone a cui tengo di più. Ho fatto il tuo nome. Fortunatamente, tendo a circondarmi di persone intelligenti e dotate di senso critico, quindi non ho subito victim blaiming. Non credo che sarei riuscita a sopportare anche quello, ma probabilmente se ne avessi parlato anni fa, con la concezione dei rapporti di coppia che avevamo io e le mie coetanee in quel periodo, mi avrebbero detto che avrei dovuto aspettarmelo: perché del resto se vai a casa di un ragazzo, devi aspettarti che il tuo NO non venga preso in considerazione. Cosa ci sono venuta a fare a casa tua, a 14 anni? Pensavo che avremmo giocato a Monopoli? In mancanza di victim blaiming, ci ha pensato la mia mente a farmi del male. In questo ultimo periodo, infatti, mi sono colpevolizzata spesso. Se avessi avuto un po’ più di amor proprio, se fossi stata più sicura di me, se non mi fossi accontentata di un rapporto basato su un dislivello di potere, forse non sarebbe successo. E se fossi stata meno disinibita, già allora. Ed è grave. Mi complimento con te, perché con i tuoi deliri di onnipotenza sei riuscito a mettere in crisi anche una fervente femminista. Ma io lo so che non è colpa mia. Posso essere la persona più innocente del mondo, questo non ti legittima a violarmi. Posso essere la persona più sessualmente esplicita che conosci, e (sorpresa!), nemmeno questo ti dà il permesso di mettermi le tue viscide mani addosso.

Sembrava andare tutto bene, quando poi hai deciso di ricontattarmi. E la tua chat è rimasta lì tra le richieste di messaggio. Quel messaggio mi ha turbata. Non concepivo assolutamente l’ironia della situazione, visto che avevo cominciato da poco a parlare di te, era come se mi avessi letto nel pensiero. Io l’ho interpretato come un segno, come qualcosa che mi spingesse ulteriormente a buttare fuori tutto quello che provavo. Cosa speravi di ottenere da quel messaggio? Tu non hai nessun rispetto per le donne, per te siamo solo oggetti, parti del corpo estrapolate dalla totalità di cui pensi di poter fruire quando ti pare. E tu non sei un maniaco, un melato mentale, un serial killer nascosto nel buio della notte: sei il “figlio sano del patriarcato”. Sei sempre stato perfettamente integrato nella società, nella tua classe, forse un po’ fuori dalle righe, ma nella norma. Cosa ti ha spinto a farmi del male? Chissà, magari te ne sarai pure vantato con i tuoi amici, ti avranno elogiato. Invece per me non è mai stato così, perché ogni volta che parlavo di te subivo slutshaming. O in casi più “fortunati”, ammonimenti. Ma avrei dovuto capire che tipo di persona fossi, dal modo in cui parlavi delle donne, dei rapporti eterosessuali, del sesso. Non mi dimenticheró mai quando, tutto convinto, dalla tua tastiera uscirono testuali parole “se un uomo scopa tanto è un figo, se lo fa una donna è una troia”: già, peccato che si stesse parlando di sesso e non di stupro!

Stupro è davvero una brutta parola e faccio spesso fatica a pronunciarla. Soprattutto quando vivi in una società che concepisce una sola ed unica visione fallocentrica dello stupro. È terribile sapere che nel mondo esisteranno migliaia di donne che non si rendono conto di aver subito una violenza sessuale. E fa male sapere che avrei potuto continuare a vivere la mia vita senza ampliare la mia mente e la mia coscienza.

Io non farò il tuo nome, ma le persone che mi conoscono e staranno leggendo, mi capiranno. Del resto non ho le prove, ma è una questione di fiducia. Non posso dimostrare nulla, mi trovo nella situazione scomoda di tutti quei casi che non vengono denunciati perché non verrebbero nemmeno aperti per mancanza di prove. Perché non tutti gli stupri ti recano delle ferite visibili, che appassionano i fan del macabro. Una violenza sessuale può avere mille conseguenze diverse a seconda della persona, e questa vicenda ha profondamente segnato la mia anima, nonostante abbia lasciato intatto il mio corpo.

Sto buttando giù tante righe perché avevo bisogno di parlarti simbolicamente. Di odiarti. E non credo che riuscirò mai a perdonarti, ma finché l’odio non mi consumerá, andrà bene così. Avevo bisogno di sfogarmi. E mi sentivo in dovere di diffondere il verbo. Ho pensato che questa lettera potesse arrivare a qualcuna di quelle donne inconsapevoli o terrorizzate dalle ripercussioni di un’eventuale denuncia. Se la mia esperienza potrà essere d’aiuto a qualcuno, sarà comunque una vittoria. Mi sono chiesta cosa mi abbia spinto a parlarne: vedere sui social tante donne che si sostenevano tra loro in nome di una sorellanza femminista, mi ha fatto sciogliere, mi sono sentita come parte di una famiglia. È stata come la reazione a catena del #MeToo: una denuncia ha dato la forza a tante altre di esporsi. Anche se purtroppo, ci saranno sempre le persone che penseranno che tu sia un’esibizionista che vuole attirare l’attenzione, che te la sei cercata, che non dovevi andare a casa sua a 14 anni perché “si sa come sono fatti i maschi”, ma la verità è che, a livello emotivo e psicologico, ricercare attenzioni sarebbe stata una realtà alternativa molto più accettabile di aver subito davvero un abuso sessuale.

Tu sei un abuser. Anche se mi piace pensare, per le tue successive partner, che tu sia cambiato, che tu ti sia fatto un esame di coscienza. Trovo davvero curioso il fatto che un tempo odiassi la tua fidanzatina successiva a me, mentre attualmente, a tratti, mi sono sentita in colpa perché avrei potuto avvisarla sul tipo di persona che stava frequentando. Ma si sa, il patriarcato ci vuole divise per permettere ai maschi come te di sottometterci e abusare di noi.

Vorrei ringraziare la mia migliore amica, il mio attuale ragazzo e i miei amici più stretti, con cui mi sono confidata, che mi sono stati vicini in questo ultimo anno, mi hanno supportato quando ho realizzato che piega avesse preso la mia vita 5 anni fa, e che non mi hanno mai giudicata, né colpevolizzata. Infine, sono grata all’attivismo, al femminismo che mi ha accolto nelle sue fila e a questo giornale che mi sta dando la possibilità di urlarti in faccia il dolore e il male che mi hai causato.

Io sono una survivor a cui è stata tolta la voce per anni, ma adesso è arrivato il momento di fare un passo avanti, alla luce del sole. Io ho una voce e non sarai tu a silenziarla.

Giorgia Brunetti

Chissà se mi leggerai

Ti avverto. Ti avverto dicendoti a malincuore che questa non sarà una lettera gioiosa, non sarà una lettera d’amore. Ti avverto, questa lettera sarà una lettera d’addio.

Cara,

i miei timori si sono avverati. Tornavo prudente verso il mio rifugio quando un gruppo di soldati sopra un camioncino mi ha fermato. Non era la prima volta che succedeva, confidavo nei miei documenti falsi che più di una volta mi avevano salvato. Questa volta però il graduato ha urlato un ordine, non potevo scappare altrimenti mi avrebbero sparato e mi ero promesso, all’inizio di questa guerra silenziosa, che non sarei morto per un colpo alla schiena. Mai. Mi fecero salire sul camion e mi portarono in una vecchia bettola. Prima di farmi scendere, uno di loro mi colpì al labbro distruggendolo completamente. Sapevo cosa sarebbe successo. Così prima di entrare decisi di smettere di amarti. Non fermare la tua lettura per colpa di queste parole. Non ti avrei di certo odiato. In un modo o nell’altro mi sarei annullato. L’annullamento di me come uomo fatto di affetti, ricordi, interessi, pensieri. Quello che avrebbero torturato senza alcuna pietà non sarebbe stato l’uomo che poco prima le tue dolci mani avevano accarezzato, ma solo un pezzo di carne. Quanta pena per una sola idea. Mi gettarono in una gattabuia dove il nero m’attorniava e tutt’ora m’attornia. Mi lasciarono lì per un paio di giorni, la mia gola tanto era secca che non riuscivo a parlare. Cercai di dimenticare il tuo nome. Cercai di dimenticare il mio. Alla fine del secondo giorno di detenzione, la porta si aprì e una fioca luce entrò in quel buco scuro.  La luce come fuoco divorò i mie occhi. Un uomo in divisa nera poggiò un bicchiere d’acqua all’entrata accompagnato da un pezzo di pane e brodaglia. L’indomani le torture efferate, di cui si era tanto parlato tra i miei compagni, iniziarono. Ogni due giorni 2 ore di tortura. Sapevano che avrei potuto fare il nome di molti ricercati o indicare loro uno dei tanti rifugi nascosti nella città. Non dissi nulla. Nulla. Non feci il nome di nessuno dei miei compagni perché non erano più nei miei ricordi. Loro non esistevano. Le torture si fecero giorno dopo giorno più violente e crudeli. Stamane nella topaia sono rientrato ma privo di sensi. E ora ti chiedo perdono. Perdonami per quello che sto per scrivere. Perdonami per l’uomo debole che oggi ho scoperto di essere. Privo di sensi nel confuso riemergere della mia coscienza, nel limbo di cruda sofferenza tra la vita e la morte ho sognato di poter esistere ancora. Sognato l’immortalità dentro i tuoi occhi, fra i tuoi seni, fra le tue gambe. La tua testa poggiata sopra il mio addome sprigionava un forte calore che si espandeva lungo i miei arti. Portai la mia mano con delicatezza sopra il tuo capo per accarezzarti i capelli, ma incontrai qualcosa di peloso. Alcuni topi erano montati sopra di me per mangiare il tozzo di pane poggiato proprio sul mio ombelico. Quelle bestie, che nel corso della mia permanenza si erano moltiplicate, mi avevano dato calore. Vomitai. Piansi. Per la prima volta le lacrime cosparsero il mio viso, perché capii che non potevo annullare quella sensazione di felicità, il ricordo del nostro amore. Questa è la fine della mia resistenza, il fallimento del mio annullamento. Non posso sopportare un’altra tortura. Non posso sopportarlo. Non posso farlo più, il dolore sarebbe troppo grande.

Il primo giorno di detenzione mi consegnarono un foglio di carta con una matita.  Se avessi scritto informazioni riguardanti la resistenza mi avrebbero lasciato libero. Non credevo sarebbe finita così. Dietro questa lettera ho inciso 4 nomi e 4 indirizzi. Mi spezza ciò che sono. Tra le righe, fra quei nomi, c’è anche il mio. 

Addio cara Agata.

Addio amata libertà.

C2BEA3C0-A644-473A-AF03-87B288DFB61A

Oscar Raimondi

In copertina: illustrazione di Agnese Raimondi

Il femminismo e gli uomini: oltre la lente politica

Questa è una lettera di risposta a un articolo precendentemente pubblicato su La Disillusione: https://revert798312376.wpcomstaging.com/2018/11/17/femminismo-al-femminile-manca-il-maschile/

Cara Francesca,

Il tuo articolo è una ventata di aria fresca per quanto riguarda la discussione dei rapporti di genere in questi nostri tempi confusi. Cercherò dunque di apportare un primo, modesto contributo ad una conversazione che è decisamente in ritardo, partendo con una battuta impertinente. L’idea di uno “spazio” in cui gli uomini ridefiniscono la propria identità maschile “indipendentemente dalle donne” mi fa immediatamente pensare a due possibili scene: una gara di rutti nello spogliatoio di una palestra, o in alternativa una sessione di terapia di gruppo dai toni bassissimi e un po’ sterili. In altre parole, non sono del tutto sicuro che gli uomini possano definire le proprie identità in uno spazio indipendente da quello femminile. Non perché l’identità maschile (per ora assumiamo a priori che tale categoria esista) sia meno complessa o meno autonoma della sua controparte, quanto per il fatto che, proprio come tu suggerisci, siamo rimasti “indietro”. Che sia stato il femminismo a scordarsi dei maschi o piuttosto noi a scordarci di noi stessi, il risultato non cambia: il superamento di quel determinismo culturale che codificava rigidamente le identità di genere non è stato colto dall’immaginario maschile come una sfida collettiva di rielaborazione, ma semplicemente come un’evoluzione dei costumi a cui adattarsi individualmente. Sono consapevole che quest’ultima sia un’affermazione audace e non generalizzabile, tuttavia sono convinto che rifletta l’esperienza di molti uomini che non sentono di avere una coscienza collettiva di riferimento. O meglio, tale coscienza esiste, ma anziché essere un sentimento di solidarietà comune è un padre-padrone che giudica costantemente la nostra inadeguatezza e lascia pochissimo spazio alla complessità. Ed è proprio la permanenza di questo super-ego maschile e la sua relazione con la costruzione dell’identità che vorrei utilizzare come punto di partenza per questo articolo.

Identità, Intersoggettività, Cultura

Che cos’è l’identità? Sicuramente non qualcosa che posso sperare di definire in maniera soddisfacente in questa sede, ma vale la pena formularne un concetto approssimativo per amor di discussione. Di sicuro non è né un contenitore vuoto da riempire a nostro piacimento né qualcosa che ci piove in testa dal cielo alla nascita, ma piuttosto il risultato di un processo di mediazione tra le istanze più o meno autonome del proprio sé – personalità, ambizioni, vocazioni, desideri – e le influenze inevitabili della cultura e delle interazioni sociali che accompagnano la crescita dell’individuo e la vita in generale. Il femminismo, nelle sue diverse ondate, ha riaffermato la forza delle prime sulle seconde per quella metà della popolazione umana che l’Illuminismo e le sue rivoluzioni avevano lasciato da parte, permettendo dunque alle donne di emanciparsi dai ruoli subalterni e claustrofobici che la società aveva loro imposto.

Da qui l’effetto performativo sulla cultura, il rovesciamento dei vari stereotipi e l’esplorazione dell’ identità femminile come esperienza piuttosto che come modello. Tutto ciò si è tradotto, entro un certo grado, nella consapevolezza generale che non esiste uno standard di riferimento dell’identità femminile a cui le donne dovrebbero attenersi per sentirsi a proprio agio nel loro essere donne. Ne segue che, entro i limiti della convivenza civile, ogni modo di vivere la soggettività femminile ha la stessa dignità di tutti gli altri.

Lo stesso principio egualitario si applica ovviamente anche alle soggettività maschili, ma la mancata rielaborazione culturale fa sì che tale principio rimanga quasi solamente formale, mentre nella sostanza gli uomini rimangono concepiti come “il sesso forte” in un senso che va ben oltre l’anatomia: da loro ci si aspettano vitalità, risolutezza, coraggio, ma soprattutto iniziativa. Iniziativa nel manifestare interesse verso un potenziale partner, nel mostrare di avere carattere e senso dell’umorismo, nel “sapersi vendere bene” al resto del mondo, e spesso persino nell’iniziare il contatto fisico che precede ogni atto sessuale. Per un uomo è quasi impossibile rifiutare tutte queste aspettative e poter sperare di vivere serenamente.

Detto questo, non è mia intenzione esaltare il diritto degli uomini a non adeguarsi nè presentare questo diritto come un dovere politico, perché una mossa del genere sarebbe controproducente nel breve periodo (cosa facciamo, Lysistrata al contrario? Chi ci crede?). Il vittimismo non fa bene a nessuno, tantomeno agli uomini.  Credo, piuttosto, che sia necessario prendere in considerazione la permanenza di queste aspettative non solo nella dimensione culturale dei rapporti di genere, ma anche in quella intersoggettiva.

Con questo intendo dire che a riprodurre un certo ideale di “uomo-che-non-chiede” tipo Han Solo quando bacia Leia non è solo la cultura, sono anche moltissime donne nelle loro interazioni quotidiane, e pensare che questo non riguardi anche alcune donne che si ritengono femministe sarebbe quantomeno sospetto.

A questo punto, possiamo davvero cambiare questo stato delle cose semplicemente attraverso un’operazione culturale parallela, un “femminismo dei maschi” che si concepisce come indipendente da quello “delle femmine”, con cui si limita a fare due chiacchiere ogni tanto? Un progetto simile potrebbe sicuramente portare a risultati concreti e positivi nel lungo periodo, ma sarebbe un po’ come mettere una guarnizione ad un tubo che perde da ieri notte e poi tenersi l’acqua in casa fino alle caviglie: prima o poi l’acqua evapora, ma si può fare di meglio e provare a salvare il parquet.

 

“Sono come tu mi vuoi”

Individuali o collettive che siano, tutte le identità hanno una componente eterodiretta che riflette le aspettative degli altri e i loro riconoscimenti. Come accennavo prima, uno dei grandi successi del femminismo è stato cambiare e certamente su quel versante c’è ancora parecchio lavoro da fare. Ma sul versante opposto i lavori non sono mai cominciati.

Prendiamo ad esempio una convenzione che gode ancora di ottima salute, secondo cui è l’uomo a dover cercare e la donna a dover scegliere. Se si proponesse di superarla o rovesciarla una volta per tutte, quanta resistenza ci si potrebbe aspettare da parte di individui di entrambi i sessi?

Per il momento, forse agli uomini non resta che accettare il fatto che parte della loro identità si articoli sulle aspettative che le donne proiettano verso di loro, e che il loro riconoscersi come adeguati o meno a tali aspettative abbia delle conseguenze determinanti per il loro rapporto con se stessi. Ma questo è quasi ovvio, e non vale certo di meno per le donne.

La differenza significativa sta nel modo in cui la convenzione di cui sopra opera a livello collettivo.

Essa pone quasi tutti gli uomini davanti alla possibilità del rifiuto almeno una volta nella vita, mentre una donna non è necessariamente costretta ad affrontare questo rischio. Anzi, molto spesso le donne sono soggette ad un’educazione ed una socializzazione che le incoraggiano a sottrarvisi, a mostrare il loro potenziale interesse attraverso segnali mai troppo espliciti, perché il costume vuole che siano gli uomini ad interpretarli e ad agire di conseguenza. Lo so, sembra una piccolezza irrilevante rispetto alla realtà complessiva, ma non lo è affatto.

Questa convenzione fornisce infatti il presupposto strutturale – anche se non per forza causale – su cui si articolano le dinamiche di competizione maschile, che avvenga tra estranei l’un l’altro indifferenti o tra amici che farebbero volentieri a meno della gara. Fin da adolescente, non ho mai smesso di chiedermi se non ci sia una certa relazione di rinforzo tra l’iterazione di queste dinamiche e lo sviluppo, nella psiche maschile, di una visione delle donne come “premi” da vincere in funzione della propria autostima. E ogni tanto vorrei che Simone de Beauvoir fosse ancora viva per porre questa domanda anche a lei.

Quanta distanza concettuale c’è tra un premio che si vince ed un oggetto che si possiede?

Sono certo che molte femministe siano ben coscenti di questa realtà ed altrettanto certo che, in un certo senso, non ci possano fare niente. L’idea di una donna che cerca di emancipare un’altra donna dicendole “smettila di essere così maschilista!” effettivamente fa un po’ ridere, visto che il paternalismo (in teoria) è un’attitudine inconciliabile con lo spirito femminista. Tuttavia, per gli uomini il problema rimane: dobbiamo relazionarci quotidianamente con un mondo femminile che da un lato ci attribuisce le tipiche aspettative culturalmente associate ai maschi e dall’altro le rinnega. Il che ci mette di fronte a situazioni che spesso non riusciamo a decifrare.

Ad esempio, quando siamo costretti a vedere che il machismo becero e irritante di certi rettili in discoteca, ogni tanto, paga. O quando le nostre madri, sorelle, e maestre delle elementari ci inculcano (pur con le migliori intenzioni) una visione agiografica delle donne come esseri eterei e moralmente superiori, senza macchia e senza corpo. La quale, ad un certo punto dell’adolescenza, finisce inevitabilmente per collassare davanti alla realtà. Magari proprio quando si cominciano a frequentare le suddette discoteche.

Verso la scomodità

Ecco, quando viene posto in relazione con il problema della violenza di genere, questo ragionamento perde ogni residuo di leggerezza e diventa una questione spinosissima. Questione che non ero costretto a tirare fuori, e se avessi voluto stare sul sicuro questo articolo si sarebbe concluso al paragrafo precedente. Ma la coscienza mi impone, masochisticamente, di esternare l’idea che per comprendere fino in fondo la violenza di genere non sia sufficiente indagare la “dark triad” e la psicologia culturale dei predatori sessuali. Sarebbe un lavoro lasciato a metà.

Serve anche capire come le donne concepiscono gli uomini, cosa che sicuramente non possiamo fare da soli. In particolare, abbiamo bisogno di capire fino a che punto l’idea di uomo nell’immaginario collettivo delle donne contiene ancora elementi potenzialmente permeabili a quelle manifestazioni aggressive e violente che il mondo anglofono chiama, certo non senza motivo, “toxic masculinity” e “rape culture”.

Ci terrei ad anticipare un’obiezione che immagino si stia già facendo strada nella mente di chi legge: non sto assolutamente parlando di girare la frittata e dare la colpa degli abusi alle donne che ne sono vittime. La condanna di ogni forma di violenza non si discute, e il fatto che io mi senta in dovere di fare questa precisazione dopo tutto ciò che ho scritto finora forse è uno spunto di riflessione ulteriore, su cui tornerò più avanti.

Sto parlando di cominciare un’operazione scomoda e difficile, che tra le altre cose implica un’indagine collettiva della seduzione, dell’affetto e della sessualità in tutta la loro ambivalenza psicologica e morale. E che andrebbe portata avanti con cautela, ma il più possibile alla luce del sole, per riuscire a stare in bilico tra il pericolo dell’invadenza e quello dell’ipocrisia. Ma se continuiamo a posticiparla sine die perché crediamo che non sia poi così necessaria, o perché rischia di lanciare pericolosi inviti al maschilismo più bieco, la violenza di genere rimarrà sintomo di una malattia che ci asteniamo dal conoscere davvero.

Riusciremo a curarla a suon di deterrenza e di scandali di cronaca, puntando un dito verso il mostro e l’altro dito verso una cultura maschilista che vogliamo sì cambiare, ma non sappiamo fino a che punto?

Forse. Le statistiche in effetti suggeriscono che gli episodi di violenza stiano calando, ma la crescita inquietante di certe culture sotterranee nel dark web (come quella degli incels, pregna di una frustrazione e un risentimento talvolta reciprocati da chi la denuncia) è una dissonanza che mi preoccupa molto, anche se spero vivamente di sbagliarmi.

Mai come prima d’ora, noi uomini ci troviamo ad avere un enorme bisogno della vostra sincerità più spassionata. Altrimenti rischiamo di viaggiare sempre più spediti verso l’incomunicabilità, e di trasformare questa incomunicabilità in un’asfissia reciproca dilagante.

Prigionieri dell’apologia

Uno degli ostacoli da superare per quanto riguarda le relazioni di genere ha a che fare con il clima dialettico in cui queste vengono discusse e, talvolta, anche con il taglio politico che le sottolinea. Senza dubbio, la concezione neo-Gramsciana del femminismo, che identifica il patriarcato come correlativo del sistema capitalista basato sulla proprietà e sulle disuguaglianze, ha un fondo di verità e ha conferito vigore politico a battaglie importanti nella società e nelle istituzioni. D’altra parte, però, ho il sospetto – da buon materialista storico – che lo sconvolgimento del panorama sociale e tecnologico della comunicazione (mass media prima, social media poi) abbia cambiato radicalmente le carte in tavola, nel bene e (soprattutto) nel male. Uno degli effetti collaterali di questi sviluppi è stata l’integrazione funzionale dell’antagonismo politico femminista in un ambiente comunicativo paranoico ed esasperante, dove ogni proposizione viene valutata esclusivamente per il suo potenziale apologetico piuttosto che per il contenuto in sé. Con risultati controproducenti per gli obiettivi di inclusività ed emancipazione che il progetto femminista vuole portare avanti.

Un esempio paradigmatico è il caso della filmmaker americana Cassie Jaye, finita al centro di asprissime controversie dopo l’uscita nel 2016 del suo documentario The Red Pill, in cui intervista alcuni esponenti dei cosiddetti Men’s Rights Activists e racconta l’impatto che questo confronto ha avuto sulla sua visione del mondo. Non potendomi dilungare sullo scopo e il contenuto del lungometraggio, che non nego essere indigesto sotto molti aspetti, consiglierei la visione di questo TEDx talk in cui la Jaye riassume l’inquisizione mediatica che ha subito con le seguenti parole: “when you start to humanize your enemy, you might in turn be dehumanized by your community”. A poco è valso Il fatto che i suoi lavori precedenti parlassero di temi come la libertà e la salute sessuale e riproduttiva delle donne (Daddy I Do, 2010) e i diritti delle coppie omosessuali (The Right To Love, 2012): non aver dipinto i suoi intervistati come pericolosi mostri sciovinisti in The Red Pill le ha fruttato l’ostracismo preventivo del pubblico con cui lei si era sempre identificata, e a cui il documentario era rivolto.

Non nego che questa mentalità anticipatoria sia piuttosto comprensibile, visto che l’apologia del maschilismo va molto di moda ultimamente. Tanto che ce la sto mettendo tutta per non suonare come un certo oscuro professore canadese, che avrebbe anche qualcosa di buono da dire se non avesse deciso di costruire un impero commerciale sull’ambiguità, facendo vari occhiolini alla destra ultraconservatrice per motivi discutibili. Certo, ogni cosa succede in un contesto, e in questo caso il contesto è quello Nordamericano. Nella nostra cara Europa le cose sembrano andare un po’ meglio.

In Italia, ad esempio, abbiamo avuto La TV delle Ragazze, tutt’altro spirito e tutt’altro intelletto rispetto alla vulgata femminista d’oltreoceano. Ma le influenze atlantiche ogni tanto fanno capolino. Per esempio, quando la proposta di legalizzare la prostituzione viene osteggiata a priori dalla sinistra perché assimilata a tutte le altre proposte deliranti della Lega. Anche se concepita in modo regressivo, come ritorno alle situazioni degradanti e indifendibili delle “case di tolleranza” abolite dalla legge Merlin, la proposta rimane comunque un’opportunità per presentare emendamenti e trasformare le attuali politiche basate sulla deterrenza in politiche volte alla riduzione del danno. Che peraltro è esattamente ciò che la sinistra ha sempre voluto fare con le droghe leggere. E poi ammettiamolo una volta per tutte: Lina Merlin, nonostante i tanti e indiscutibili meriti, era mossa da un moralismo che oggi farebbe storcere il naso a molte donne.

Il Contrappasso di Adamo

Recentemente ho visto una conferenza di Galimberti in cui, tra le altre cose, l’intellettuale dallo stile burbero e tranchant afferma che la visione cristiana del tempo, dell’etica e del progresso sociale pervade persino il pensiero critico di due “Maestri del Sospetto” come Freud e Marx (Nietzsche se la scampa con l’Eterno Ritorno, anche se non del tutto).

Il passato è sofferenza (peccato/patologia/oppressione), il presente è redenzione (pentimento/terapia/rivoluzione), il futuro è emancipazione (regno dei cieli/guarigione/società senza classi).

Logicamente, questa radice cristiana è presente anche nei vastissimi filoni di pensiero articolati sulla falsariga dei due filosofi nei decenni a venire, e il femminismo – specie quello accademico – non ne è certo immune. Anzi, provocatoriamente, mi verrebbe da chiedere: cos’è diventato il patriarcato, nel discorso politico dell’occidente odierno, se non il peccato originale degli uomini? Un capovolgimento del mito di Eva che trasforma una verità storica innegabile (l’oppressione millenaria delle donne) in una colpa metafisica che tutti gli uomini, anche quelli nascituri, devono e dovranno portarsi appresso in un modo o nell’altro?

Ci tocca ammettere, un po’ amaramente, che Benedetto Croce aveva più ragione di quanto vorremmo concedergli: non possiamo non dirci cristiani, nemmeno nella contestazione più radicale. Forse questa consapevolezza, che potrebbe sembrare pericolosa in quanto neutralizzante, può invece fornire il presupposto per una critica più ampia, profonda e riflessiva, che ci permetta di negoziare davvero la nostra cultura e i nostri costrutti sociali liberamente e democraticamente. E di lasciarci alle spalle, per quanto possibile, quei tanti orpelli ideologici che invertono gli schemi senza mai cambiarli.

Daniele Vanni

 

 

Lettera a una bandiera

Ciao Danie’,
era già da un po’ de tempo che temevo ‘sto momento, ma speravo arrivasse il più tardi possibile; invece eccoce, qua, prima del previsto, a dove’ vive’ ‘st’artro lutto.
Sì, perché pe’ noi è un lutto vede’ uno de noi trattato così. Non te lo meritavi Danie’: uno come te, che ha dato tutto pe’ ‘sta maglia e ‘sta città – cuore, testa, faccia, ossa, muscoli e cartilagini varie – non se merita de esse’ cacciato così da casa propria; perché la Roma è casa tua, come hai detto te, e sempre lo sarà.

Hai passato anni ad aspetta’ quella fascia de capitano: sempre senza ‘na parola fuori posto, sempre innamorato de ‘sta maglia, de ‘sta città, dei suoi tifosi e dei suoi colori; in cambio, spesso e volentieri, certa gentaglia t’ha tirato in faccia tanta merda – non se lo dimenticamo: ma tu, sempre leale, verso ‘sti colori e ‘sta città che tanto ami, non te sei mai spostato. Hai sopportato e hai supportato, sempre, la Roma.

E hai pure sbagliato Danie’, mica ‘na volta sola: se lo ricordamo tutti; ma hai chiesto sempre scusa, te sei preso le responsabilità tue e te sei rialzato, sopportando tutta la merda che te tiravano addosso. E per questo che t’avemo amato e t’amamo ancora così tanto, Danie’: perché sei sempre stato ‘n omo, un grand’uomo, non te sei mai nascosto e c’hai messo sempre la faccia, pure nelle situazioni più difficili. C’hai fatto ride’, c’hai fatto piagne’, c’hai fatto ‘ncazza’: insomma, c’hai fatto vive’, c’hai fatto emoziona’. La tua grandezza più grande è stata e sarà sempre quella de esse’ uno de noi: uno che soffre, sbaglia, se incazza, gode, smadonna pe’ ‘sta maglia e ‘sti colori; uno che non la molla mai la sua Roma, qualsiasi cosa accada.

Ed è pure pe’ questo che non t’ ‘a dovevano fa’ ‘na cosa del genere, anzi, non c’ ‘a dovevano fa’: stanno a manna’ via non solo un grande giocatore, ma soprattutto un gran tifoso, un pezzo de core d’ ‘a Roma, ‘sto core malandato, maltrattato, ma che batte, sempre, e non se spegne mai. Perché non bastano i sette a uno, i ventisei maggio – e questo, fidate, sarà molto peggio – le prese pe’ ‘r culo, le coppe vinte dall’artri, le plusvalenze e l’allenatori cambiati come pedalini a spegne’ ‘st’amore che c’avemo pe’ ‘sta maglia e pe’ ‘sti colori.

Esse’ de Roma e, soprattutto, esse’ romanisti, è ‘n artra cosa. Non lo pò capì nessuno che vor di’ pe’ noi, Danie’, ‘sta maglia: questi se pensano che è solo ‘n gioco, ‘no sport; anzi, te dirò, pe’ questi è ormai solo ‘n business, nient’artro.

E quando me ce fermo a pensa’, ogni tanto, me viene quasi da di’ che esse’ romanisti è ‘na maledizione, ‘na prova da sconta’ pe’ vede quanto sei forte, quante ne riesci a sopporta’, prima de cade’ giù al tappeto. Ma poi me vengono ‘n mente le parole tue, dopo Roma-Chelsea dello scorso ottobre¹, e capisco che sto a pensa’ ‘na stronzata. Dobbiamo sempre ringrazia’ de esse’ romanisti, pure dopo i sette a uno: perché noi romanisti sapemo soffri’, traballamo, cademo, ma poi se riarzamo, sempre, sempre fieri de tifa’ e ama’ così tanto ‘sta maglia e ‘sti colori.

Ma questa è ‘na botta brutta Danie’: vedette manda’ via così è un colpo ar core. Va bene non vince’, va bene vede’ sempre la squadra smontata e rimontata ogni anno, va bene tutto: ma le bandiere nostre non le dovete tocca’. Tu e Francesco – per la generazione mia – Giuseppe, Bruno, Giacomino, Agostino, Amedeo e tutti l’artri siete il nostro vanto, il nostro orgoglio, la nostra unicità, il nostro trofeo più grande e che nessuno ce pò toglie.

A Roma, un tempo, se usava tratta’ i veterani de mille battaglie in altro modo, non certo così, a caccialli via, a mannalli in pensione e rottamalli come ferri vecchi; ma ‘sti quattro cialtroni, sicuro, la storia de Roma manco sanno che è.

Io davvero spero che in queste due settimane qualcosa cambi e che ‘sta lettera sia soltanto ‘na dichiarazione d’amore fine a se stessa; perché la nostre, quella tua co’ ‘sta maglia, quella nostra co’ ‘sti colori, quella nostra verso de te e viceversa, so’ tutte splendide storie d’amore. Ed è vero che purtroppo tutte le storie d’amore, prima o poi, finiscono: non ce se pò fa niente; la nostra e la tua, però, non è giusto che finiscano così, se meritano un altro finale.

Per ora, ciao Danie’. Buona fortuna e arrivederci. Roma t’aspetta sempre, a braccia aperte: perché, come t’ha detto un romanista de Rio de Janeiro² – perché la Roma è ‘na grande famiglia e se sei romanista pe’ davvero, pure solo pe’ ‘n giorno, lo sarai pe’ sempre – non c’hai bisogno de’ un contratto pe’ esse’ il capitano della nostra Roma.

 

Danilo Iannelli


¹ https://www.ilromanista.eu/stagione-2017-2018/champions/1066/roma-chelsea-de-rossia-dobbiamo-ringraziare-di-essere-romanisti-anche-dopo-i-7-1-

² https://sport.sky.it/calcio/serie-a/fotogallery/2019/05/14/de-rossi-lascia-la-roma-reazioni-social.html#10