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Guerra fredda in terre calde: orientarsi oggi nel caos del Medio Oriente

Il fumo si alza scuro sopra i cieli di Beirut. Il 4 agosto, il carico di nitrato di ammonio sequestrato
ad una nave russa (e probabilmente diretto a gruppi terroristici) e conservato nel porto della
capitale libanese da 6 anni è esploso. Mietendo un centinaio di vittime e radendo al suolo il
porto, centro nevralgico di una città e di uno Stato altamente dipendenti dalle importazioni.
Giornalisti e interpreti internazionali concordano nell’affermare che non si è trattato di un
attentato, ma di un incidente: e ciò stupisce in un’area di mondo in cui è difficile ammettere
il ruolo del caso. Tuttavia, sebbene non si tratti di una nuova Siria o di un nuovo Yemen, la
questione libanese emersa alle cronache per via del boato dell’esplosione affonda nel caos
mediorientale, che nella Siria e nello Yemen, annosi focolai di guerra, ha due casi di studio
esemplificativi del contesto, e rischia di sprofondarvi.
È nella geopolitica di quell’area di mondo- il Medio Oriente- in cui i vuoti di potere spesso
generano poteri vuoti (da sostenere attraverso la stampella di una burocrazia corrotta, come le
manifestazioni di piazza in Libano denunciavano in autunno) che si radica una rivalità profonda:
quella tra Arabia Saudita e Iran, che combattono una “guerra per procura” tra lo Yemen e la Siria,
e fino in Tunisia, Marocco e Libia. Ragionando a partire dai popoli, e non dai confini, cioè secondo
una prospettiva imperiale.
Ciò che accade in Libano in questi giorni dev’essere, perciò, letto dallo storico attraverso una
lente geopolitica ed una filosofica; così, egli può sperare di risalire dalla particolarità del caso

Beirut alla situazione del contesto regionale, aggiungendo un nuovo elemento a quella che viene-
troppo facilmente- liquidata come una piccola Guerra Fredda su diversa latitudine.

Guerre calde
Il 2011 è ricordato come l’anno delle Primavere arabe: movimenti di protesta, anti-monarchici e
filo-democratici, che scossero molti dei regimi del Medio Oriente e del Nord Africa. Era la piazza
che si raccoglieva per chiedere una riforma. Meglio ancora: era una parte della società civile,
composta e articolata a diversi livelli, che si mobilitava per tentare di alterare gli equilibri politici
e spesso anche istituzionali del proprio Paese.
Quasi ovunque, nella nazioni interessate, ciò significò la guerra civile.
In Siria, i primi colpi furono sparati per ordine di Assad, Presidente “ereditario” contestato
dalla popolazione come autocrate, e la protesta assunse i tratti della rivoluzione: si costituì
l’Esercito Siriano Libero, formato da truppe dell’esercito regolare, civili e militanti jihadisti, le cui
file andarono ingrossandosi in seguito alla decisione del regime di aprire le prigioni. In questo
modo, pensava Assad, le altre potenze dell’area- leggi l’Arabia Saudita- e i grandi osservatori
internazionali- leggi gli USA- avrebbero avuto non poche difficoltà nel sostenere la protesta
senza finanziare i “terroristi”.
La rilevanza della Siria nella regione rende il conflitto locale immediatamente internazionale:
l’Iran accorse a sostegno dell’autocrate e, per un gioco di pesi e contrappesi, l’Arabia Saudita,
in testa alle monarchie del Golfo, iniziò a finanziare la rivolta. Ma non intervenne direttamente,
bensì sfruttando gli attori di volta in volta coinvolti nello scontro: i ribelli e le milizie estremiste;
la Turchia che mira a indebolire Assad; la Giordania, intervenuta dopo la discesa in campo di
Hezbollah (una milizia di ispirazione khomeinista emersa dalla stagione delle guerre in Libano,
una trentina di anni addietro).
Con l’ingresso di Hezbollah nel conflitto, si rafforzava l’apporto dell’Iran nella guerra. È proprio
Hezbollah, inoltre, ad aver convinto il regime libanese a calarsi nel caos siriano, a sostegno di
Assad in funzione filo-iraniana: è l’inizio di una diaspora vastissima verso un Paese- il Libano,
appunto- il cui debito pubblico era in aumento vertiginoso, e la cui moneta vacillava insieme
all’apparato bancario, cuore dell’economia. La genesi della crisi economica in cui ancora versa
Beirut.

Il quadro del conflitto va tenuto presente anche quando, considerando i suoi sviluppi, si osserva
il coinvolgimento di attori del peso degli Stati Uniti d’America, intervenuti nel 2013 a sostegno
dei ribelli dopo la denuncia dell’impiego, da parte di Assad, di armi chimiche contro i civili, e della
Russia, formalmente in campo contro l’ISIS, più precisamente in funzione di supporto ad Assad.
USA e Russia hanno certo determinato importanti sviluppi del conflitto, ma non ne sono i
promotori nè i due principali contendenti: lo dimostra l’ambigua situazione in cui si è ritrovata
l’America. Da una parte a sostenere i curdi nel Nord della Siria in funzione anti-ISIS, dall’altra ad
appoggiare in funzione anti-Assad Erdogan, che sembra però più interessato ad eliminare la
minaccia di un Kurdistan a cavallo di Turchia, Iraq e Siria. In un vortice che ha assorbito molto
denaro alla presidenza Obama.
Tuttavia, l’annunciato disinteressamento degli USA di Trump nei confronti della questione
siriana, ha impoverito la posizione saudita, che arretra: ne è testimonianza il vertice di Ankara
dello scorso settembre, tra una Turchia sempre più filo-russa ed un Iran sempre più vessato
dall’Occidente americano, sotto l’egida di Putin, sempre più occidentale nel suo progetto zarista.
È chiaro: la discesa in campo di Stati Uniti e Russia ha spostato i pesi sui piatti della bilancia. Ciò,
però, non deve confonderci circa le origini della disputa.

Guerra fredda
La guerra civile siriana ha uno stretto legame con un altro, forse ancora più atroce, conflitto,
apertamente esploso nel 2015: quello in Yemen tra i sostenitori del vecchio Presidente Saleh
(gli Houti) e i sostenitori di Hadi, suo successore alla presidenza. I primi, finanziati dall’Iran,
tentavano di rovesciare Hadi, nuovo campione dello status quo e perciò gradito alla monarchia
saudita.
Tanto la guerra siriana quanto la guerra yemenita condividono la natura di conflitti locali che
manifestano la più vasta disputa tra il mantenimento e la ridefinizione dello status quo del Medio
Oriente.
Come in Iraq negli anni ’80, ciò che è in gioco in questi Paesi sono gli equilibri di potere
determinatisi in seguito alla disgregazione dell’Impero ottomano nell’area, da cui sorgeranno,
dalle ceneri di antiche e antichissime egemonie, il Regno dell’Arabia Saudita, nel 1932, e l’Iran
moderno, prima occidentalizzato, poi riformato dall’ayatollah Khomeini in una Repubblica
islamica.
È su queste due entità politiche che si impernia la geopolitica mediorientale: ora propensa a
conservare un assetto politico definito, cioè ad accomodarsi sui desideri sauditi, ora disposta a
trasformarsi drasticamente, spinta dalle ambizioni iraniane.
Sebbene sia riduttiva questa divisione dei fronti, dal momento che per ogni caso particolare i
due grandi attori geopolitici mediorientali rintracciano le proprie convenienze e sottolineano i
propri timori, non si tratta di puro manicheismo: è dalla rivoluzione khomeinista in Iran, infatti,
che trasformò lo Stato in un regime popolare islamico anti-occidentale e sacralizzato, che Iran e
Arabia Saudita si contendono la guida del mondo musulmano.
Almeno, in età contemporanea.
Senza risalire all’epoca subito successiva all’età dei Quattro Califfi, seguita alla morte di
Maometto, possiamo riconoscere in questa regione continue tendenze alla riconfigurazione
geopolitica, determinate dal raccoglimento della leadership da parte di attori differenti, ciascuno
con la sua forza politica, cioè con la sua posizione straregica nel territorio. Così, gli Omayyadi
della penisola araba hanno trionfato e poi ceduto il posto agli Abbasidi persiani, prima che i
Turchi ottomani ne raccogliessero l’eredità per farne un impero.
È uno schema, quello della conquista del ruolo di guida della popolazione musulmana, che opera
sulla base del principio secondo il quale, in Geopolitica, “il vuoto non esiste” (Lucio Caracciolo),
ed è solo lo spazio che viene occupato da chi riesce ad affermare il proprio potere: così, mentre
l’Arabia Saudita si considerava, anche in virtù della presenza nel proprio territorio di Medina e della Mecca, il faro del popolo musulmano in Medio Oriente, risorgeva negli anni ’80 uno Stato
dichiaratamente islamico, guidato da un predicatore ostile alle monarchie secolarizzate, figlie del
demonio occidentale, con ambizioni di leadership sul resto del mondo islamico.
Siria, Yemen, Iraq, Afghanistan, Libia, Bahrein, Tunisia, Marocco (e in un futuro non troppo
impensabile anche il Libano) sono opportunità, per ciascuno dei due Paesi, per affermare il
proprio ruolo, in attesa di un passo falso da parte dell’avversario. Una “guerra per procura”, che a
molti ricorda la “nostra” Guerra Fredda.
Ma Iran e Arabia Saudita non ambiscono al controllo del mondo, bensì del Medio Oriente.
Tener presente questo punto ci consente di leggere la rivalità tra i due Stati-imperiali senza i
fraintendimenti derivanti dall’adozione di categorie della Storia europea.

Cosa accade in Medio Oriente?
I sostenitori dell’interpretazione che legge il rapporto Iran-Arabia Saudita come una “Guerra
fredda” mediorientale si avvalgono, spesso, della divisione in seno all’Islam tra Sunniti e Sciiti,
e fa delle due famiglie religiose altrettante fazioni, ciascuna portatrice di interessi strategici.
Come una sorta di riproposizione del conflitto silenzioso tra USA e URSS nel mondo del secondo
dopoguerra.
Cedendo a questa interpretazione, però, si dimentica che quasi ovunque la convivenza tra
sunniti e sciiti è stata felice, e che i fedeli islamici si riconoscono come parte di una medesima
confessione: un popolo che ha nella religione il fondamento della propria identità.
Perciò, se vogliamo parlare di un conflitto tra due poli in Medio Oriente, dobbiamo rintracciare
altrove il piano di scontro.
In Europa, al termine della II Guerra mondiale, si affermarono come contrapposti due diversi
modelli politici: quello americano e quello sovietico, ciascuno dei quali ambiva ad espandere il
raggio della propria influenza sui Paesi lambiti dalla guerra e, poi, interclusa la via dell’Europa,
ad indebolire l’avversario attaccandolo ovunque esso avesse interessi nel mondo. Ben presto,
divenne una guerra di logoramento, e l’URSS ne fu sconfitta.
Ma, a ben guardare, la “nostra” guerra fredda fu uno scontro tra opposte configurazioni
economico-sociali: il Liberalismo e il Comunismo; obiettivo era la conquista, ideologica e
territoriale, dell'”egemonia” in società varie, storicamente dissimili, secondo un paradigma
tanto più efficace quanto più esteso, ma senza l’eliminazione dell’avversario o un suo eccessivo
rafforzamento. Egemonia è, infatti, il concetto gramsciano che dirige la contesa tra le parti in un
sistema democratico, dove la vittoria di una delle due non è definitivo annichilimento dell’altra.
Ciò significa che il mondo del Liberalismo trionfante, il mondo post-Guerra fredda, non può non
tener conto del concetto di eguaglianza sociale, cardine del Comunismo, se vuole conservare
l’egemonia: perché una libertà priva di eguaglianza nelle possibilità è una libertà di pochi, dunque
un’astrazione e un’ipocrisia. Che conduce alla vittoria dei populismi, che invece fanno di una certa
uguaglianza il proprio credo.
Non è, quella descritta, una situazione traducibile in Medio Oriente: il motivo è che il modello
politico di riferimento, qui, è quello della teocrazia, per il quale vi è un’autorità indiscutibile,
legittima in virtù del suo potere naturale, intorno alla quale la comunità si raccoglie a prescindere
dai confini nazionali. Il potere, in questo caso, non va conquistato, ma stabilito come principio
ordinatore di una popolazione politicamente disgregata, ma socialmente coesa.
Si tratta di affermarsi come guida di una comunità transnazionale, proseguendo la tradizione di
un’area di mondo in cui gli imperi, sepolti nella sabbia, non hanno mai smesso di esistere.

Lorenzo Ianiro

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Qual è la situazione in Libia?

Uno degli eventi scaturiti dalle cosiddette primavere arabe che ha avuto più ripercussioni sul nostro Paese è sicuramente la Guerra Civile Libica. La caduta del sanguinario regime di Gheddafi nel 2011 ha lasciato la nostra ex-colonia nel caos. L’instabilità libica ha permesso ai trafficanti di uomini, spesso in combutta con milizie locali alla ricerca di facili finanziamenti per la guerra, di attivare la famigerata rotta migratoria, nella quale persone desiderose di un futuro migliore vengono caricate su camion sovraffolati e portate nei campi libici, torturati e costretti ai lavori forzati per pagarsi il viaggio fino in Europa. Continua a leggere

Voto per l’Europa

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Le elezioni europee non eccitano molte persone. L’ultima volta, nel 2014, solo il 42% di coloro che avevano diritto al voto sono andati alle urne per l’UE e tra i minori di 24 anni è stato un abissale 28%. Ma le elezioni di quest’anno potrebbero essere troppo importanti per tirarsene fuori. Mentre l’agenda delle news europee è stata offuscata dalla Brexit per mesi (e potrebbe continuare ad esserlo, poiché il Regno Unito si prepara a partecipare alle elezioni a cui non ha mai voluto partecipare), il progetto europeo ha affrontato un gran numero di sfide dall’esterno – occupandosi di immigrazione, riscaldamento globale, un collasso dell’ordine mondiale – e un’esistenziale minaccia dall’interno: l’incremento di coloro che vogliono fare a pezzi più di sessant’anni di integrazione europea e ballare sulle sue rovine. Se ci fosse mai un tempo in cui il voto di ognuno conta, è ora.

I nemici dell’Europa sono uniti

Da un certo numero di anni, la crescita del populismo di destra si è potuta osservare lungo tutta l’Europa – il Raggruppamento Nazionale in Francia (precedentemente il Front), l’AfD tedesco, la Lega italiana. I loro livelli di supporto sono cambiati, come il loro radicalismo, ma hanno ampiamente perseguito la stessa agenda: anti-immigrazione, anti-UE, nazionalista, frequentemente islamofoba e socialmente conservatrice. Ma mentre uno potrebbe quasi rassegnarsi al fatto che tali ottusi chiacchieroni sono ora parte del panorama politico europeo, le più recenti evoluzioni sono state più allarmanti. In numerosi paesi europei l’estrema destra sta ora governando (da sola o in coalizione). In Italia e in Austria le coalizioni che includono partiti di destra hanno mostrato che intendono proprio ciò che dicono – nel caso dell’Italia è semplificato da drammi quasi settimanali che coinvolgono navi di soccorso per rifugiati a cui viene cancellato il permesso di attraccare e rimangono bloccate in mezzo al mare per giorni, veri esseri umani usati come pedine o merce di scambio. In Ungheria e in Polonia i governi di destra sono occupati a smantellare le fragili istituzioni della democrazia e della società civile che si sono sviluppati a partire dalla fine del comunismo tre decenni fa. A partire da quest’anno, la Spagna, precedentemente pensata immune al fascino della destra dopo decenni di dittatura di Franco, ancora una volta ha la destra nella politica nazionale: il partito Vox. E la cosa forse più preoccupante di tutte: i nemici dell’Europa sono tutti sul punto di cooperare attraverso i confini.

Godendo pienamente dei diritti di libera circolazione che l’UE offre loro, l’austriaco Heinz-Christian Strache vola a Budapest per incontrare il suo amico Viktor Orban, Joerg Meuthen dell’AfD visita il suo compare Matteo Salvini a Milano, e Marine Le Pen ha trovato il tempo di vedere Santiago Abascal, ora leader dei 24 parlamentari di Vox nel Congresso dei Deputati di Spagna, quando era a Perpignan nel 2017. Con i nemici dell’unità europea così coordinati e integrati, coloro che pensano il futuro non possa essere un ritorno alla chiusura mentale e al nazionalismo devono essere altrettanto forti insieme.

E ce ne sono di cose per cui valga la pena combattere. La seconda guerra mondiale è finita 74 anni fa, ma la pace non è ancora scontata: anzi, si dice spesso che l’Europa è libera dalla guerra dal 1945, ma non è vero: negli anni ’90, i problemi nell’Irlanda del Nord costarono circa 3000 vite. Il bilancio delle vittime della sanguinoso crollo della Jugoslavia negli anni ’90 è di oltre centomila, spinto dalle stesse forze del nazionalismo e dell’odio che il progetto europeo cerca di superare. E negli ultimi cinque anni, l’Ucraina ha pagato un prezzo elevato per l’aggressione della vicina Russia.

Niente di tutto questo significa che il progetto europeo sia fallito – si trattava di conflitti ai margini dell’Europa, dove la portata del progetto europeo in via di sviluppo era limitata, mentre le nazioni dell’Europa centrale che hanno combattuto le raccapriccianti guerre della prima metà del 20° secolo e prima – Francia e Germania, per esempio – sono state unite nell’amicizia e nella cooperazione dopo il 1945. Ciò che mostra, invece, è che la pace è fragile e non garantita. Lo stesso vale per il crescente numero di benefici che i cittadini europei hanno accumulato nel corso dei decenni: i diritti di viaggiare, vivere, lavorare, studiare e stabilirsi in un intero continente. La libertà di notare a malapena quando si attraversa un confine – quando un confine in passato potrebbe aver assistito a giovani uomini uccidersi a vicenda in trincee un secolo fa, o forse uno che trent’anni fa era chiuso con muri, recinti e guardie armate. Rispetto al resto del mondo – anzi, ai vicini europei che non sono ancora membri dell’Unione – questo è un privilegio che i cittadini dell’UE ora acquisiscono per diritto di nascita. Il rischio è diventare compiacenti di ciò che abbiamo.

Niente di tutto questo significa, naturalmente, che tutto ciò che riguarda lo stato attuale dell’Unione sia perfetto. Il basso entusiasmo per la partecipazione alla politica europea può essere attribuito al fatto che Bruxelles è una grande guastafeste: il burocratismo e le regole del mercato unico non sono né ciò che accende le passioni della gente, né l’Europa alla base. C’è molto spazio per delle critiche graduali dell’attuale modello di integrazione europea. Se il progetto di un’unione sempre più forte deve essere continuato, a un certo punto inevitabilmente significherà che gli Stati membri più ricchi si impegneranno a sostenere i meno fortunati in modo serio – la solidarietà non può finire ai propri confini nazionali. Allo stesso modo, un’Unione non può promuovere il suo impegno per i diritti umani e fregiarsi del proprio Premio Nobel per la pace del 2012 mentre le persone annegano nel Mediterraneo – o mentre sta incanalando denaro in Libia, dove migliaia di migranti sono tenuti nei campi di detenzione sotto le più terribili condizioni, soggette a brutali abusi e sfruttamento, completamente prive di diritti e ora coinvolte nel recente conflitto (uno scandalo così deprimente dovrebbe essere all’ordine del giorno di tutti coloro che professano di aderire ai valori più amati dell’Europa). Le cose devono cambiare. Ma non resterà nulla da riformare se lasceremo che i nemici dell’Europa distruggano questo progetto unico. L’Europa ci ha dato la pace, ci ha dato libertà e diritti e un forum per la cooperazione, l’unico modo per affrontare le sfide su vasta scala del futuro, come i cambiamenti climatici. In un mondo instabile, con un partner transatlantico su cui non possiamo più fare affidamento, una Russia sempre più aggressiva e conflitti irrisolti in Medio Oriente, l’Europa è la nostra migliore scommessa. Difendiamola e poi miglioriamola. Per fare il primo passo in questa direzione, votiamo in queste elezioni. Il cento per cento della nostra generazione vivrà in questo futuro, quindi forse più del ventotto dovrebbe uscire e plasmarlo.

David Zuther
Traduzione di Martina Moscogiuri e Claudio Antonio De Angelis