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«Ma secondo te si può suicidare chi ha un sogno? Chi ha un obiettivo?»

È successo, ancora. La notizia non è uscita sui giornali, ma qui è arrivata comunque.

La settimana scorsa un collega ha deciso di farla finita.

E lo ha fatto.

«Ma secondo te si può suicidare chi ha un sogno? Chi ha un obiettivo?»

Uno degli errori è pensare che questo non potesse succedere che a lui. Lui che aveva alle spalle una lunga storia di depressione.
La depressione spesso è vista da tanti come una “eccessiva debolezza”, come “un mazzolino di scuse”, o “una marea di cazzate”. Ma non sempre.

A volte alla depressione è riconosciuta la dignità di malattia. Tipicamente, questa dignità è riconosciuta quando la malattia ci permette di estraniarci da eventi che non vogliamo sentire vicini, perché fanno paura o perché non ci interessano.
Un po’ come quando in seguito ad un attacco terroristico, viene fuori che magari vent’anni prima la persona aveva fatto uso di benzodiazepine, e allora da malato di niente era all’improvviso un «malato di mente», uno «squilibrato», la colpa era sua, della sua malattia, e basta.
È più semplice darci questa risposta, invece di chiederci cosa possa aver spinto una persona, emarginata come l’Arthur Fleck del Joker di Todd Phillips. Potremmo scoprire che forse la società avrebbe potuto fare qualcosa di più per impedirlo.

Quando vogliamo liquidare rapidamente qualcosa su cui sarebbe bene fermarsi a riflettere, perché dobbiamo tornare alla nostra vita, è malattia mentale. In questo caso, è depressione.
Quando ci serve per giustificare qualcosa che altrimenti non riusciremmo a capire, la depressione diventa all’improvviso reale, ed è un’ottima spiegazione.

Credere all’improvviso che i disturbi mentali siano qualcosa di reale, a prescindere da quali siano e dalla loro intensità, ci permette di andare avanti, senza fermarci un attimo a capire cosa sia successo, e come sia potuto succedere. Possiamo voltare pagina, senza neanche chiederci come sia possibile che un ragazzo con una vita davanti e tutte le possibilità del mondo abbia scelto di farla finita.

Su cosa sia andato storto.
Su cosa si potesse fare per impedirlo.
Su cosa si possa fare per evitare che vada storto ancora, ancora ed ancora.
Su cosa si debba fare per evitarlo.

La depressione ci permette di includere questo evento nel cassetto di tragedie che ci colpisce, e sì, per carità, ci dispiace anche, ma che non è ci tange per davvero. Un po’ come quando qualche disastro si verifica dall’altra parte del pianeta, e ci dispiace anche per quello. Ma domani è un altro giorno, buongiorno che è mattino.

Poniamo l’etichetta,
causa del decesso,
caso risolto, caso chiuso,
il prossimo.

L’idea di un gesto tanto estremo da una persona “normale”, che affronta le stesse difficoltà che affrontiamo tutti noi “normali”, è scomoda. E allora sì all’improvviso, quella che fino al giorno prima era tutt’altro, diventa improvvisamente una malattia. Una malattia che lo allontana da noi.

«Era malato.»
«Soffriva di depressione.»
«Eh, quando sei depresso purtroppo…»

È per questo che è successo.

Soffrire di depressione aumenta il rischio di suicidio, ma non tutti i depressi si suicidano. Perchè il suicidio è qualcosa di molto più complesso. La depressione non è sufficiente per spiegare quello che è successo. Sarebbe un punto di partenza nel provare a spiegarselo, semmai. Perché anche le ragioni di quella depressione dovrebbero essere tirate in ballo.

Qualche anno fa, abbiamo perso una collega. Sebbene la conoscessi appena, il funerale è stato straziante. Una parte di quella sofferenza, lungi dal voler colpevolizzare qualcuno, venne anche dal vedere che tanti di quelli che sedevano accanto a lei fino a pochi giorni prima avessero disertato il funerale per andare a lezione o per studiare in biblioteca.
Se non possiamo permetterci di fermare
le lezioni e lo studio in biblioteca,
neanche per due ore,
neanche per una cosa del genere,
non stiamo perdendo qualcosa di fondamentale lungo strada?

E allora io lo capisco che in un contesto simile qualcuno si possa sentire alienato.
Capisco che possa sentirsi come un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.
Capisco che possa non tollerare le proprie debolezze, che debolezze non sono ma è solo un fermarsi ad ascoltare in mezzo a questa corsa folle ed insensata. Io capisco che in un contesto simile uno possa sentirsi sbagliato, e possa non intravedere una via di fuga.
Se non quella.

«È la malattia che lo ha portato a questo.»
«La malattia lo ha reso malato.»
«La malattia gli ha fatto dimenticare il valore della vita.»
«La malattia gli ha fatto dimenticare i suoi sogni.»

È per questo che è successo.

«Non potevo essere io perché non sono malato.»
«Non potevo essere io perché conosco il valore della vita.»
«Non potevo essere io perché io ho dei sogni.»
«È per questo che non è successo a me.»

E invece no.

Lui aveva sogni, e obiettivi.

Era prossimo a finire gli esami,
per i quali chiedeva informazioni ai compagni di classe.
Lavorava alla tesi che avrebbe presentato nell’ultimo giorno di università,
per sancire la fine del suo ottimo percorso accademico e conferirgli il titolo di dottore in medicina e chirurgia.
Si informava sulle opportunità post-laurea all’estero sui vari gruppi Facebook appositi, dicendosi disposto ad impegnarsi al 100% per raggiungere i requisiti, per sapere cosa fare per conquistarsi il posto in qualche centro prestigioso e costruirsi una carriera.

La Macchina di Galton è formata da un piano verticale, sul quale sono piantati dei chiodi. Lasciando cadere delle palline dalla parte alta, queste andranno a sbattere sui chiodi. Ogni volta che incontrano un chiodo, si trovano ad un bivio. Ogni pallina, davanti ad ogni bivio, può dirigersi verso destra o verso sinistra. Al chiodo successivo, lo stesso. E così via. La sequenza di direzioni prese ai vari bivi porta la pallina a compiere il proprio percorso, fino a raggiungere il fondo. Le palline giunte sul fondo, si accumulano andando a formare delle pile. Il teorema del limite centrale e della distribuzione normale dimostra che le pile assumono approssimativamente la forma di una curva a campana, tipica delle variabili casuali normali. La maggior parte delle palline tendono a collocarsi al centro. Mano a mano che di spostiamo dal centro, dalla media, le palline son sempre meno numerose. Ma ci sono. E sono più di quanto non si pensi.

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Due anni fa, solo nell’ospedale dove lavoro, quattro studenti si sono tolti la vita. In Italia, negli ultimi mesi, questo è l’ennesimo caso. E per ogni persona che lo fa, gli studi dicono che ve ne sono dieci che lo pensano. Il suicidio è la seconda causa di decesso tra i giovani adulti dei Paesi Occidentali.

Che davanti ad un bivio, la pallina vada a destra o a sinistra, è del tutto casuale. Ogni pallina, all’inizio del proprio percorso, potrebbe finire nella parte più a sinistra, in quella più a destra, o nella zona centrale. Nella vita è tutto molto meno ideale, e molto più complesso. Ma penso che in buona parte valga lo stesso. E ognuno di noi può intraprendere innumerevoli percorsi diversi, e arrivare a bivi differenti sulla base del percorso intrapreso al bivio precedente. Ognuno di noi sarebbe potuto andare a destra o a sinistra. A volte per volontà nostra, a volte per caso o volontà esterna a noi.

Non lo conoscevo, e non sapevo niente di lui. Ma chi lo conosceva mi ha raccontato qualcosa.
Era una persona attiva che si dava da fare su tanti fronti.
Era una persona con tantissime passioni.
Si interessava al cambiamento climatico.
Faceva rappresentanza studentesca.
Aveva fatto l’Erasmus.
Aveva la passione per la psichiatria.
Cercava un dottorato all’estero.

Proprio come me.

Non so cosa passasse per la sua testa quel giorno, in quelle ultime ore. Non so cosa lo abbia portato a quella decisione. Non so davanti a quali bivi la vita lo abbia portato, e quali percorsi si sia trovato a percorrere. Quando mi è stata raccontata la sua storia, il pensiero è stato invece uno solo.

Forse quella pallina,
potevo essere io.

Fabio Porru

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UPDATE – Dove chiedere aiuto:
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il 118. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 199 284 284 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.

Puoi anche chiamare i Samaritans (http://www.samaritansonlus.org/chi-siamo/) al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.
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– Eravamo centottanta
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Yes, you can. “Un’ode pindarica su uno stanco, anziché un vincitore!”

Qualcuno ha detto che non ci sono poteri buoni. L’accettazione di qualsiasi forma di potere e delle condizioni proposte o imposte presuppone un dovere di coloro che partecipano al patto, quello di sottostare ai vincoli imposti dall’accordo. Il dovere si esprime quindi in senso di negatività, di qualcosa che faccio perché non posso non farlo, e viene percepito come un elemento altro da me che io recepisco e accetto.

In una logica di comprensione della realtà o di modifica della stessa, però, non solo esistono poteri meno buoni di altri ma soprattutto ogni forma di potere funziona su delle logiche che cambiano nel tempo e nello spazio e che quindi vanno analizzate e capite.

A questo scopo, ci viene in aiuto il dibattuto lavoro di un filosofo contemporaneo Byung-Chul Han, il quale trasferitosi dalla Corea in Germania all’inizio degli anni ’90, si inserisce in un filone di critica intellettuale dell’odierna società capitalistica e neo-liberale, attraverso categorie della filosofia foucaultiana e post-foucaultiana, che utilizza e supera, ricorrendo a concetti che hanno a che fare con discipline che comprendono l’etica, la filosofia sociale e fenomenologica, la teoria culturale e dei media, il pensiero religioso e l’estetica.

Secondo la lettura che Byung-Chul Han fa sulla nostra contemporaneità, la differenza tra il capitalismo neoliberista e qualsiasi altra forma organizzativa precedente è stata passare dal paradigma del dovere a quello del potere, trasformando un’energia negativa in una positiva che narra la vita e la società come una promessa di infinite possibilità che alla fine illude, deprime e sfinisce l’uomo.

L’uomo del nostro tempo, non fa perché deve, fa perché può ed è abituato a pensare che questa strada di infinite possibilità sia una promessa di realizzazione e di felicità. Interiorizzando questa logica, per cui nessuno ci obbliga a rincorrere l’infinito e la perfezione e il di più, l’uomo diventa l’unico responsabile del proprio successo e anche del proprio fallimento con la forte convinzione che non esistano limiti alla propria felicità o fortuna.

La figura di persona di successo, il modello di realizzazione associato al concetto di perfezione, è quella di una persona votata al concetto di poter fare, veloce nel farlo, capace di occuparsi di tante cose nello stesso momento e che in una sorta di ritmo che non ammette differenze, attraversa tutte le tappe della vita così come è funzionale all’organizzazione socio-economica della nostra società. Il paradosso si esprime nell’imperativo “Sii libero!”.

Non è un caso il fatto che il nostro tempo venga sempre più spesso associato al tempo delle malattie mentali, agli esaurimenti, alla depressione e alle malattie neuronali che per quanto diverse tra loro hanno in comune una struttura post-immunologica: non sono malattie provocate dal diverso, ossia da un attacco esterno sia esso batterico o virale, ma dall’eguale, ovvero dal nostro stesso corpo, dalle nostre stesse convinzioni, dal nostro stesso spirito.

Byung-Chul Han, utilizza la metafora immunologica nel suo “La società della stanchezza” per spiegare come quell’energia positiva, l’energia del potere sia lo strumento di controllo più potente che ci sia, e che proprio la nostra società contemporanea votata al profitto e al progresso adopera. Questo mette in atto un meccanismo di sfruttamento estremamente intelligente, quello dove padrone e lavoratore o più in generale vittima e carnefice coincidono.

La negazione del limite e del finito caratterizza la narrativa e i tutti i campi della nostra società ma è profondamente illusoria. E’ agli occhi di tutti che la comunicazione online ha svuotato di significato la percezione delle distanze o che la produzione a basso costo permette l’illusione di un consumo infinito.

In alcuni casi, l’eliminazione del limite è meno chiaro, eppure l’asservimento alla funzione del potere è estremamente profondo. La difesa della nuda vita e la trasformazione della salute in quanto tale in valore assoluto, per esempio, è manifestazione della negazione del limite della morte.

Nella nostra realtà, la morte non viene accettata ma evitata a tutti i costi. Se questa logica ci rende apparentemente liberi, ci condanna ad una mania di onnipotenza che ci fa temere la morte al punto da diventare schiavi di questa paura e di vivere in una modalità di difesa della nuda vita invece che di valorizzazione della stessa. Il sentire di poter vincere la morte è funzionale alla logica neoliberista perché coincide con la negazione della perdita assoluta e con il mito del progresso infinito.

Aristotele già lo aveva detto che l’accumulazione del guadagno finisce per trascurare la buona vita in favore della nuda vita. L’etica protestante gli ha trovato una giustificazione in senso di sacrificio. La nostra contemporaneità lo innalza a valore assoluto per cui l’uomo utilizza il mito della buona salute per difendere la nuda vita a tutti i costi, asservendosi così al lavoro.

Ma persino l’eros è vittima di questa illusione di superamento del limite. Persino l’eros, è diventato strumento di autosfruttamento nella illusione di libertà. Nel saggio “Eros in agonia”, Byung-Chul Han spiega come l’Eros presupponga un superamento dell’individuo, l’accettazione della finitezza dell’Io e l’incontro con l’Altro, oltre una logica di possesso.

Per quanto non sempre chiaro, l’amore e l’eros si basano su una logica di relazione e la relazione è possibile solo se resiste una distanza e una differenza tra io e l’altro. L’eliminazione del limite tra l’io e l’altro uccide l’Eros e lo piega a strumento di consumo di corpi e anime, a logiche di prestazione e di accumulazione, all’ottimizzazione del proprio guadagno e all’eliminazione del rischio che presuppone l’incontro con l’altro, cose che niente hanno a che fare con l’Eros.

Il risultato di tutto ciò è la generazione di una società di persone sole, frustrate, depresse, incapaci di amarsi, incapaci di mettersi in relazione con l’altro, votate solo all’accumulazione e al consumo dell’esistenza, delle distanze, delle velocità e della difesa della propria vita.

Se su un piano di prassi, separare le categorie dell’Io e degli altri, o i piani di privato e pubblico non ha senso ai fini di un’azione di cambiamento efficace, ai fini dell’analisi non solo è utile farlo ma diventa essenziale partire dal discorso dell’autosfruttamento per capire come funziona il nostro sistema di potere.

Byung-Chul Han viene spesso criticato per il fatto di limitarsi ad un piano di analisi che innesca un sistema di colpevolizzazione degli sfruttati che per di più nei suoi scritti sembrano coincidere con una classe medio-borghese. Ma nell’analisi è indispensabile capire come ogni logica di potere che osserviamo all’esterno, altro non è che una proiezione di quello che succede quotidianamente nella nostra testa e sul nostro corpo per nostra stessa mano. Porre l’accento sul fatto che questa logica sia, almeno in parte, trasversale alle diverse classi sociali non deve sostituire ma integrare quelle analisi che tendono a sottolineare la specifica condizione in cui versano le diverse classi sociali.

Combattere la società della stanchezza presuppone una forte lavoro di analisi e messa in discussione dei nostri stessi comportamenti e credenze che si legano strettamente agli obiettivi che ci poniamo nella nostra vita personale e al modo in cui tentiamo di raggiungerli.

Il concetto di stanchezza diventa in questo senso uno strumento di comprensione molto potente. Infatti, la stanchezza può svuotarci o nutrirci ma questo non dipende dalla quantità di sforzo che abbiamo fatto ma piuttosto dalla qualità. La stanchezza che deriva da una lunga giornata di attività in una condizione di connessione con sé stesso e con il mondo, forse ci farà buttare a letto la sera senza più energie ma è in realtà una stanchezza che ci nutre e rigenera. La stanchezza che invece deriva da una condizione di isolamento, alienazione o rincorsa, è una stanchezza che ci opprime, svuota e distrugge.

Vale la pena sprecarci un po’ di tempo a riflettere sulla qualità e l’origine della nostra stanchezza, magari sottraendoci dal fare qualcosa che proprio potevamo fare ma che alla fine era meglio non fare.

Francesca Di Biase


Fonti

  • Byung-Chul Han (2012). La società della stanchezza. Gransasso nottetempo.
  • Byung-Chul Han (2013). Eros in agonia. Figure nottetempo.

Mai parlare di suicidio (soprattutto se ne hai bisogno)

Ieri mi ha scritto un’amica. Mi ha chiesto del materiale sul suicidio tra gli studenti. Vorrei dirvi che lo ha fatto per pura curiosità, ma la verità è un’altra. Per parafrasare le sue parole, invece, è successa una di quelle cose che non pensiamo possano succedere a qualcuno che conosciamo. Ma che invece succede.

Ormai è da oltre un anno che utilizzo i social per parlare di salute mentale. Parlando di salute mentale, specie tra i giovani, si finisce necessariamente per l’arrivare, prima o poi, al trattare il tema del suicidio.

Qualche mese fa pubblicai su Facebook e Instagram una serie di post e sondaggi su questo tema. Non capita spesso che pianifichi gli argomenti che tratto. Di solito, qualcosa nel corso della giornata, lavorativa o personale, mi fulmina, e vado. Ma quando un tema è delicato, tendo a prendermi del tempo. Perché per trattare temi delicati, ci vuole la giusta delicatezza e la giusta competenza.
Ma quel giorno ero nervoso, e mi sono lanciato. Anzi, ho lanciato due sondaggi.
“Ti mette a disagio che una persona ti dica di aver pensato al suicidio?”
“Pensi che parlarne aumenti il rischio che altri possano farlo?”

Ero molto nervoso. E il motivo era che, facendo un giretto alla ricerca di progetti, mi misi a dar uno sguardo alla struttura di alcune delle miriadi di gruppi di sostegno per persone che se la vedono con disturbi mentali. Ce ne sono tanti.
Purtroppo.
Per fortuna.

Tempo fa ho creato un gruppo con quello stesso fine, e su questo gruppo decine di persone si son aperte, cercando e dando supporto. In quei giorni ho assistito a diversi momenti davvero emozionanti, e ho per questo deciso di cercare altre realtà virtuose come quella. Ho fatto domanda di accesso per alcuni gruppi su Facebook, per curiosarci un pochino e osservarne le dinamiche. Imparare qualcosa per migliorare la realtá di cui mi stavo occupando.

“Rispondi a queste domande e leggi le regole per aiutare gli amministratori a controllare la tua richiesta di iscrizione. Le tue risposte saranno visibili solo a loro.”

Che palle.
Ma ci sta.

Per la prima volta nella mia vita, ho davvero letto il regolamento prima di entrare in un gruppo.
Copio-incollo una delle regole che ho trovato su due diversi gruppi.

Primo gruppo:
“NON si parla di suicidio; non iscrivetevi a questo gruppo se avete intenzione di parlare o discutere di suicidio. Il post verrò eliminato e l’utente segnalato alle autorità competenti a fine di prevenzione. Quest’ultima operazione è un dovere da parte di tutti i membri che leggano post inerenti.”

Secondo gruppo:
“Nessun riferimento al suicidio.
Le allusioni al suicidio saranno eliminate e segnalate alle forze dell’ordine da qualsiasi utente del gruppo che ne verrà a conoscenza. Non abbiamo gli strumenti per gestirle in un gruppo facebook.”

Io non voglio fare il drammatico. Però…

Immaginate una persona nella sua ora più oscura.
Immaginate che stia pensando proprio a quello.
Che forse sarebbe meglio così.
Per tutti.
Che non ce la fa
davvero
più.

Immaginate che non avendo nessuno con cui parlare decida di confidarsi nell’unico posto dove negli ultimi mesi ha trovato comprensione.

Quel gruppo di supporto dove ogni giorno si confrontava con altri impegnati nella stessa lotta, altri colpiti dallo stesso male.

Immaginate che digiti tra le lacrime alcune parole forse per qualcuno troppo drammatiche ed eccessive, ma non ai suoi occhi.

Immaginate dopo l’invio finale, l’attesa di una notifica.
Immaginate la disperazione mista alla speranza.
E immaginate che aggiornando la pagina,
non riesca più a visualizzare il gruppo.
Non ne fa più parte.

Perché in quel gruppo, nato per ascoltarsi e supportarsi l’un l’altro nei momenti bui, non si può parlare del momento più buio.

Prima regola del gruppo di supporto: non parlare del momento in cui si ha più bisogno di supporto in assoluto.

“Fanno bene. Perché parlando di suicidio, il rischio è quello che a qualcuno venga in mente di farlo.”

Certo. Infatti una persona con depressione non ci penserebbe mai da solo ad una cosa del genere, nel caso. Aspettava voi. Abbiamo visto tutti quanti Harry Potter. Non dire il nome di Voldemort non ha mai significato che Voldemort sparisse, né che risparmiasse le sue vittime.

Suicidio.

Suicidio.

Suicidio.

È la seconda/terza causa di morte tra i giovani dei Paesi Occidentali, ma non se ne può parlare.

“E allora perché quando una star si suicida aumentano i suicidi?” (cit.)

Perché quella è una cosa diversa, legata spesso alle modalità con cui se ne parla più che al fatto in sé. È un fenomeno descritto in letteratura come “Effetto Werther”, così chiamato in quanto in seguito alla pubblicazione del libro “I dolori del Giovane Werther” seguì un brutto picco di suicidi in emulazione.

Non è parlar di suicidio, il problema.

Ma parlarne come se fosse un evento spettacolare. È la narrazione che viene costruita attorno al fatto, il problema. O addirittura parlarne come di una via di uscita dai problemi. In seguito al suicidio di Robin Williams, quelli dell’Academy pubblicarono un tweet che diceva così:

“Sei libero, genio”.

Questo è il problema.
Robin Williams è morto. Non libero.
Si è ucciso. Non si è liberato.

Qualche mese fa una studentessa di medicina ha tentato il suicidio. Sta girando su tutti i gruppi Facebook l’articolo in cui viene descritta la vicenda, con grande attenzione ai particolari della dinamica.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato le linee guida per i professionisti della comunicazione per guidarli nella trattazione di questo argomento complesso. Questa la traduzione dei 10 comandamenti:

1 – spiegare a lettori, ascoltatori e telespettatori le notizie riguardo a un suicidio di cui si parla dando anche delle informazioni sulla prevenzione del suicidio;

2 – non diffondere pregiudizi e leggende metropolitane sui suicidi e non descrivere certi luoghi come posti in cui è comune che le persone si uccidano, né dare molti dettagli sul luogo in cui una persona si è suicidata, specialmente se famosa;

3 – scrivere degli articoli su come si possono affrontare i pensieri suicidi e come si può chiedere aiuto;

4 – non dare eccessivo spazio e importanza alle notizie che riguardano i suicidi;

5 – non usare titoli sensazionalistici quando si parla di un suicidio e non usare l’espressione “suicidio” nel titolo;

6 – non normalizzare o romanticizzare il suicidio quando lo si descrive, non presentarlo come un’alternativa a un problema;

7 – non riportare in modo esplicito il modo in cui una persona si è suicidata;

8 – non diffondere foto o video che mostrano il corpo della persona che si è suicidata e non fornire link ai profili social della persona in questione;

9 – fare particolare attenzione quando si parla del suicidio di una persona famosa;

10 – fare particolare attenzione se si decide di intervistare una persona che conosceva la persona morta o che ne era parente perché queste persone possono essere a rischio di farsi del male a loro volta.

Parlare del suicidio, magari di una persona famosa, rischia di causare emulazione solo se lo si fa male. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, spiega che in realtà non solo parlarne in maniera appropriata possa non aumentare il rischio, ma possa addirittura ridurlo. Un report responsabile può diventare uno strumento per informare e sensibilizzare sul tema del suicidio e sulla sua prevenzione. Raccontare di strategie di coping a condizioni avverse può proteggere dal rischio di suicidio. È stato descritto un effetto protettivo del riportare sui media notizie di suicidio. Questo effetto è stato chiamato Effetto Papageno, richiamando al personaggio de Il flauto magico di Mozart che, vicino al suicidio in seguito alla perdita dell’amata, all’ultimo momento ricorda delle alternative a disposizione e decide di intraprendere una via alternativa. Sceglie la vita.

Uno studio inglese realizzato dal King’s College e pubblicato nel 2014 sostiene che parlare di suicidio, sia per gli adolescenti che per gli adulti, riduca l’ideazione suicidaria. Chiedere alle persone se hanno pensato al suicidio, sostengono gli autori, era associato ad un miglioramento della salute mentale sul lungo termine.

Questi sono i fatti.

Chi ha in mente il suicidio (che non va confuso con chi usa la minaccia di suicidio per fini di manipolazione) sta mandando una richiesta di aiuto, sta offrendo una possibilità di dialogo, una possibilità di intervento.

Parlarne talvolta può essere una grande liberazione per la persona.

Il problema col suicidio non è quando se ne parla.

Ma quando non se ne parla.

Parlarne è forse la cosa migliore che possiamo fare per evitarlo.

Fabio Porru

Dove chiedere aiuto:
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il 118. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 199 284 284 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.

Puoi anche chiamare i Samaritans (http://www.samaritansonlus.org/chi-siamo/) al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.

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Illustrazione: Baratro, anonimo per il progetto “La mia illustrazione mentale” su In direzione ostinata e curiosa