Primavera 2012: sbarbatello, da poco iscritto all’università, ancora non mi sembra vero poter aver una macchina tutta mia e poter guidare, libero; nell’autoradio King del rap di Marracash, uno dei migliori album prodotti dall’hip hop italiano. Entra la traccia Sabbie mobili.
“No, non agitarti, resta immobile
Puoi metterci anni, e guardare ogni cosa che
Affonda nelle sabbie mobili
Si perde, nelle sabbie mobili”
Ascolto il ritornello, lo canticchio, ancora ignaro: sì, so già che sarà difficile, so già che vivo in un periodo storico complicato, in un Paese che non se la passa proprio bene; ma mi protegge l’ingenuità e la speranza dei vent’anni, la grande bolla dell’università, che ti atterrisce con gli esami e le tante pagine da studiare, ma è pur sempre un grembo tiepido, rispetto a quello che ti aspetta dopo.
Autunno 2019: qualche pelo di pelo di barba in più, percorso accademico ormai concluso, con tanto di lode e festeggiamenti annessi; sempre in macchina, imprecando, bloccato nel traffico; il Daily Mix di Spotify, in riproduzione casuale, propone Sabbie mobili di Marracash.
“Nessuno lascia le poltrone niente si muove
Nessuno osa e nessuno dà un’occasione!
Impantanati in queste sabbie mobili, si muore comodi
Lo Stato spreca i migliori uomini!”
Disillusione a palate.
Stavolta le parole colpiscono, affondano il colpo. Non sono più soltanto il testo di un pezzo rap. Adesso mi sento molto più consapevole: ci vivo in queste sabbie mobili; non sono più soltanto una metafora, le sento addosso, vischiose, sulla pelle.
La sensazione di un neolaureato in cerca di occupazione (ne avevo già parlato in un vecchio articolo) è molto simile a questo fenomeno naturale: spesso drammatizzato nei film d’avventura, esso se considerato nella sua entità fisica non può provocare realmente lo sprofondamento del soggetto nella sua interezza, ma soltanto per metà del corpo; il loro vero pericolo mortale è però dato dal fatto che, effettivamente, uscire dalle sabbie mobili prevede uno sforzo notevole e spesso è quasi impossibile farlo senza un intervento esterno: la fame e la disidratazione dovute a una lunga permanenza portano alla morte dell’individuo.
La metafora però è molto più vicina all’immagine delle sabbie mobili come quelle pozze fangose che inghiottono il malcapitato e, più questo si dibatte, più queste lo avvolgono, risucchiandolo verso il fondo. È questa la percezione: più mi muovo, più affondo; se resto fermo sprofonderò ugualmente, più lentamente, certo, ma inesorabilmente.
Viviamo in un Paese che sembra una gigantesca pozza di sabbie mobili: un Paese che puzza di vecchio, non solo anagraficamente, in cui qualsiasi aspirazione creativa e artistica non è nemmeno contemplata e viene relegata, al massimo, con l’etichetta dell’hobby; un Paese in preda all’immobilismo, in cui le opportunità sono sempre poche e quasi mai raggiungibili senza un intervento esterno, in cui vanno avanti sempre i soliti, i figli, i nipoti e gli amici di, in cui il più furbo ha sempre la meglio sul più meritevole; un Paese culturalmente in cancrena, senza futuro, in cui manca lungimiranza e senso civico, in cui la diversità fa paura e viene trattata come una malattia, più che una risorsa; un Paese in cui la politica non riesce mai ad andare oltre la mera propaganda, che oscilla tra i due poli opposti del tecnicismo e del populismo, in cui lo sguardo è sempre rivolto al passato, ma che non riesce mai ad affrontare le esigenze del presente, figuriamoci del futuro; un Paese in cui la cultura e il titolo di studio rappresentano più un handicap che un’arma in più, in cui per avere successo bisogna sempre piegarsi a certe logiche, quelle delle mani che si lavano tra loro ma che, alla fine, restano sporche entrambe; un Paese che difficilmente dà dignità al cittadino onesto, allo studente meritevole, al lavoratore indefesso, che premia invece i furbetti, gli arrivisti, gli evasori; un Paese in cui l’ascensore sociale è rotto ormai da anni, fermo al piano terra, zeppo di persone, mentre all’attico si fa festa, ma si accede solo se si è sulla lista giusta; un Paese che odia le immigrazioni ma costringe ad emigrare, in un paradosso di vite che sembra non aver mai fine.
E dunque che cosa fare? Dibattersi o attendere? Aspettare: ma cosa?
Come la neve che ghiaccia e immobilizza tutti, vivi e morti, ne The Dead di James Joyce, vedo questo Paese bloccato in queste sabbie mobili. “Go west” mi dico; ma poi resto fermo, come Gabriel alla finestra, a guardare la neve, inseorabile, scendere.
Danilo Iannelli
Foto in copertina di Cecilia Calistri