Le origini e l’aspetto di Audrey Hepburn (1929-1993) la rendevano perfetta nel trasmettere un senso di grazia cosmopolita tutta europea, uno charme che gli americani non riescono ad ottenere.
In America la persona è catalogata per l’origine, scomposta nelle sue componenti come un aggregato di innesti, non meno di un blocco di lego; la Hepburn, con padre britannico, madre olandese (una baronessa), educazione da poliglotta, un uso del corpo allenato dalla danza e temprato dalle privazioni della seconda guerra mondiale, ha esposto e mantenuto con la sua presenza in pellicola l’ideale di un’Europa dove il jet-set non aveva ancora sgualcito l’immagine del bel mondo.
Il problema con l’industria del cinema americano è la creazione di una ‘formula’, di una ‘Persona’ da affibbiare all’attore: la Hepburn non fu esentata da questo processo e i cinefili suoi ammiratori non possono che rattristarsi della mancanza di tanti altri ruoli nella sua carriera, magari più intriganti e stimolanti per l’attrice, che comunque seppe dimostrarsi interprete sensibile e brillante, pur nei limiti delle parti proposte e poi delle rifiutate per vicinanza alla famiglia.
Se qualche grande attore o regista ha potuto infrangere le regole o i codici di Hollywood, il lavoro doveva essere fatto tra le pieghe del racconto, l’appello puntava all’intelligenza dello spettatore.
Immaginiamo quindi che reazioni dovessero avere da un lato un americano di provincia e dall’altro un francese o un italiano di fronte ad Arianna (1957, in originale Love in the afternoon), gioiello freudiano del viennese Billy Wilder (1906-2002), già regista dei più famosi Sabrina (1954) e Viale del tramonto (1950).
Nel film poi divenuto di culto, Wilder sfrutta al massimo il candore della Hepburn e lo rivolge contro il pubblico, in accoppiamento cromatico (per opposizione complementare) col declino della maturità di Gary Cooper (1901-1961).

La futura Holly Golightly è la figlia di un ispettore privato parigino (Maurice Chevalier) specializzato in infedeltà coniugali (si noti bene: nel cinema di Wilder Parigi tornerà come città del vizio in Irma la dolce (1963), da città romantica che era in Sabrina).
La ragazza è una violoncellista dalla vita monotona, passata a casa accanto al padre. Unico suo brivido è ascoltare le storie e le consultazioni dei clienti nello studio del genitore: tutte storie che ‘una ragazza dabbene’ non dovrebbe sapere, specialmente se parliamo degli anni ‘50 come in questo caso.
Quando un marito tradito prospetta l’idea di uccidere l’amante della moglie, un magnate americano e seduttore impenitente Mr. Flanagan (Cooper), Arianna si mobilita per avvisarlo, salvo poi rimanerne affascinata.
Lei, inesperta ma non priva d’inventiva, fa credere al milionario sottaniere di non essere inferiore in fatto di seduzione.
Wilder ha dalla sua la perspicacia e l’intelligenza che gli derivano dall’essere l’erede di Lubitsch, il ricordo del patrimonio umano e storico del bel mondo viennese e della sua origine ebraica: non è un caso che Freud accompagni come un fantasma tutto il film, lui che sembra essere un nome tutelare di molti ebrei letterati o cineasti del Novecento. In fondo, la sua stessa penetrante malizia può essere ritrovata nel Saba delle Scorciatoie e raccontini (1951).
Arianna, visto in quest’ottica, si rivela lezione magistrale sull’esposizione filmica del ‘rimosso’ e quindi dell’esaltazione del non-detto, del sottinteso e dell’inespresso.
A furia di sottigliezze diventa una farsa erotica esplicita che si fa beffe della retorica sentimentale di Tristano e Isotta contrapponendole la canzone ‘Fascination’ (1905) di Fermo Dante Marchetti e le sue sviolinate zigane.
Aveva ragione Alessandro Cappabianca a citare i trompe-l’oeil parlando del film, giacché Arianna è un film rococò sulle maschere ed il gusto della tattica, dello scherzo e del gioco in amore, un arabesco che nel suo tracciato semplice non si scorda delle gioie decorative.
Potrà anche essere ‘l’opera di un cuore secco’ (Parmion) ma qui non manca a Wilder la tenerezza nel capire (e far capire agli altri) l’interesse che Arianna ha per Flanagan: lei non è diversa da una bambina che si metta addosso i vestiti della madre per sentirsi già donna.
La Hepburn faceva al caso suo perché il corpo snello dell’attrice si prestava totalmente al personaggio: al tempo delle riprese lei aveva 28 anni, ne dimostrava 10 in meno e creava così uno stacco fortissimo tra la sua presenza e quella di Cooper (all’epoca cinquantaseienne, età smussata dai velatini della fotografia).
È uno dei risultati più belli di una carriera, quella della Hepburn, che avrebbe dato sfoggio di piena maturità in Due per la strada (1967) di Stanley Donen, film splendido per il regista che per l’attrice protagonista, quasi un rendiconto della felicità effimera degli anni ‘60 attraverso il racconto di una crisi matrimoniale.
Wilder, che adorava la sua Audrey, si sarà divertito nel rivederla di nuovo su un suo set dopo il successo di Sabrina (1954), con un personaggio capace di essere esplicito nei desideri con il massimo del tatto.
Come ricordava il Morandini per Adele H. di Truffaut, ‘non è necessario essere romantici per raccontare una storia romantica. Talvolta, anzi, non si deve esserlo’.