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Coronavirus: zero virgola zero zero zero

Coronavirus. Ogni giorno articoli allarmisti si alternano ad appelli che invitano a mantenere la calma. Non mi occupo di malattie infettive, e non mi infilo in un ambito che non mi appartiene. Da qualche settimana però ho notato grande confusione su alcuni degli indici utilizzati in epidemiologia.

I dati che leggo citati sistematicamente ogni giorno son tre:
– numero di morti;
– numero di infetti;
– mortalità.

Si parla del fatto che il virus abbia una mortalità di circa il 2%. Una mortalità vicino al 2% è una mortalità altissima. Per capirci, si calcola che la pandemia del 1918 nota come Spagnola, una delle più terribili di cui siamo a conoscenza, abbia avuto una mortalità globale compresa tra il 3 e il 6%.

Ma che cosa è esattamente la mortalità?

La mortalità è definita come il rapporto tra il numero di morti per una data causa in un dato periodo di tempo in una popolazione/comunità, e la dimensione media della suddetta popolazione/comunità nell’intervallo di tempo preso in considerazione.

Quest’ultima parte della definizione sottolinea il primo aspetto da chiarire: la mortalità senza riferimento temporale non è interpretabile. Una mortalità annua del 2% vuol dire che ogni anno il 2% della popolazione muore per una data malattia. Un 2% mensile vuol dire che ogni mese il 2% della popolazione muore di quella data malattia. Questo dato, rispetto a quello annuale, è dodici volte più alto.

Tornando al coronavirus, questo 2% di cui sentiamo parlare, cosa indica? La mortalità mensile? No. Fortunatamente, nessuna malattia raggiunge numeri tanto alti da portarci ad esprimere la sua mortalità mensile.
Allora è forse quella annuale? Vediamo un pochino.

Quale sarebbe lo scenario di una malattia con una mortalità del 2%?

In Italia, con una popolazione di 60 milioni di abitanti circa, una mortalità annua del 2% vorrebbe dire un milione e duecentomila di decessi ogni anno.
In Cina, dove la popolazione è di circa un miliardo e 400 milioni, una mortalità annua del 2% significherebbe 28 milioni di vittime all’anno.

Una catastrofe di dimensioni spaventose.
Che non è lo scenario attualmente davanti ai nostri occhi.

Il coronavirus circola da troppo poco per darci una stima annuale attendibile. Sì, potrebbe esser il risultato di proiezioni. Ma queste sarebbero solo molto parzialmente attendibili considerando che ancora si sa poco sulle caratteristiche del virus, sulla sua propagazione, su quante persone saranno colpite e su tutte quelle variabili necessarie per la preparazione di modelli attendibili.

Forse, come nel caso della Spagnola, si fa riferimento alla mortalità nel periodo di durata della pandemia? No.

La buona notizia è che il coronavirus non ha realmente una mortalità tanto alta. Dubito fortemente che qualcuno abbia calcolato la mortalità del coronavirus. Anche perché risulterebbe molto poco interessante.

Il dato che sta girando, il famoso 2%, non è la mortalità, bensì un altro indice noto come letalità.

La letalità è il rapporto tra decessi legati ad una malattia e i casi identificati della stessa malattia. Una letalità del 2% significa che su 100 persone che contraggono la malattia, 2 vanno incontro a decesso. I dati di qualche giorno fa parlavano di 43114 casi identificati in 29 Paesi, con 1018 decessi in totale.

Numero di morti = 1018
Numero di malati = 43114

Letalità = numero di morti / numero di malati
Letalità = 1018 / 43114 = 0.02361182

La letalità del coronavirus è del 2.4%.

È molto? Facciamo qualche paragone. Non risulta troppo alta se la confrontiamo con l’ebola, che ha una letalità del 50%. La SARS ha avuto una letalità del 9.6%, oltre quattro volte superiore, ma ha causato “appena” 774 morti visti i numeri limitati a 8096 casi registrati.

L’influenza ha una letalità inferiore allo 0.1%. Ma uccide molto più rispetto alle precedenti per via della sua enorme diffusione. Mortalità e letalità sono due indicatori dell’impatto di una malattia nella popolazione, che offrono informazioni differenti. Una malattia con elevata letalità come la SARS finisce col causare molti meno morti rispetto ad una malattia con una bassa letalità che però è molto più diffusa nella popolazione, come l’influenza stagionale.

Ma allora qual è allora la mortalità del coronavirus?
Allo stato attuale delle cose, il coronavirus ha in questi giorni superato quota 1000 vittime.
Ora, facendo finta per un istante che la totalità dei decessi e dei casi riguardino la popolazione cinese, e ipotizzando la Cina come sistema chiuso, senza spostamenti, turisti e tutto il resto, calcoliamo approssimativamente la tanto discussa mortalità del coronavirus.

Numero di morti: 1018
Popolazione: 1386 milioni circa

Mortalità = numero di morti / popolazione
Mortalità = 1018 / 1386000000 = 0.000073448773 %

La mortalità del coronavirus allo stato attuale è dello zero virgola zero zero zero zero sette percento.

Fabio Porru


BIBLIOGRAFIA
– Dati da https://www.worldometers.info/coronavirus/#countries
– Mortalità dall’Istituto Superiore di Sanità
(https://www.iss.it/?p=4952)

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La medicina sta cambiando: è tempo di iniziare a nuotare

«𝒞𝑜𝓂𝑒 𝑔𝒶𝓉𝒽𝑒𝓇 ‘𝓇𝑜𝓊𝓃𝒹, 𝓅𝑒𝑜𝓅𝓁𝑒
𝒲𝒽𝑒𝓇𝑒𝓋𝑒𝓇 𝓎𝑜𝓊 𝓇𝑜𝒶𝓂
𝒜𝓃𝒹 𝒶𝒹𝓂𝒾𝓉 𝓉𝒽𝒶𝓉 𝓉𝒽𝑒 𝓌𝒶𝓉𝑒𝓇𝓈
𝒜𝓇𝑜𝓊𝓃𝒹 𝓎𝑜𝓊 𝒽𝒶𝓋𝑒 𝑔𝓇𝑜𝓌𝓃
𝒜𝓃𝒹 𝒶𝒸𝒸𝑒𝓅𝓉 𝒾𝓉 𝓉𝒽𝒶𝓉 𝓈𝑜𝑜𝓃
𝒴𝑜𝓊’𝓁𝓁 𝒷𝑒 𝒹𝓇𝑒𝓃𝒸𝒽𝑒𝒹 𝓉𝑜 𝓉𝒽𝑒 𝒷𝑜𝓃𝑒
𝐼𝒻 𝓎𝑜𝓊𝓇 𝓉𝒾𝓂𝑒 𝓉𝑜 𝓎𝑜𝓊 𝒾𝓈 𝓌𝑜𝓇𝓉𝒽 𝓈𝒶𝓋𝒾𝓃’
𝒜𝓃𝒹 𝓎𝑜𝓊 𝒷𝑒𝓉𝓉𝑒𝓇 𝓈𝓉𝒶𝓇𝓉 𝓈𝓌𝒾𝓂𝓂𝒾𝓃’
𝒪𝓇 𝓎𝑜𝓊’𝓁𝓁 𝓈𝒾𝓃𝓀 𝓁𝒾𝓀𝑒 𝒶 𝓈𝓉𝑜𝓃𝑒
𝐹𝑜𝓇 𝓉𝒽𝑒 𝓉𝒾𝓂𝑒𝓈 𝓉𝒽𝑒𝓎 𝒶𝓇𝑒 𝒶-𝒸𝒽𝒶𝓃𝑔𝒾𝓃’»

Nel 1674, Thomas Willis scopre la presenza di zucchero nelle urine dei pazienti diabetici.

«L’urina era straordinariamente dolce, come se contenesse zucchero o miele»

L’avvento delle attuali tecnologie ci consentono di misurare la quantità di zucchero nelle urine in maniere più raffinate, e l’idea di fare diagnosi di diabete tramite assaggino oggi ci sembra abbastanza strana, oltre che non particolarmente appagante dal punto di vista professionale e culinario.

Uno studio pubblicato su The Lancet ha evidenziato che l’Intelligenza Artificiale (AI) riconosce gli individui malati nell’87% dei casi, e discrimina i soggetti sani nel 92.5%, facendo leggermente meglio dei professionisti sanitari, fermi rispettivamente all’86.4% e al 90.5%.

Un altro studio ha dimostrato come l’AI è in grado di riconoscere 50 disturbi oculari con una precisione del 94%, pareggiando o battendo i migliori specialisti al mondo.

Uno studio pubblicato su Nature ha presentato un sistema di AI applicato nello screening del tumore alla mammella. Si è visto che l’AI fa significativamente meglio dei medici specializzati nel predire l’insorgenza di tumore mammario. L’utilizzo dell’AI ha ridotto i falsi positivi (-5.7% in USA, -1-2 in UK) e i falsi negativi (-9.4% in USA, -2.7% in UK). In una simulazione in cui l’AI ha affiancato l’operatore sanitario fungendo da “seconda opinione”, i risultati non erano inferiori rispetto al secondo parere “umano”, e si è osservata una riduzione dell’88% del carico di lavoro per i professionisti chiamati alla seconda lettura.

Uno studio della Mayo Clinic pubblicato su The Lancet ha evidenziato che l’AI può identificare i segni di fibrillazione atriale recente anche quando il cuore batte a ritmo normale durante l’elettrocardiogramma (ECG) con un’accuratezza del 90%. Questo è il risultato di un sistema di AI allenato su oltre 450 mila ECG e testato su una popolazione di oltre 36 mila pazienti.

La portata di tutti questi risultati è enorme. Significa poter e dover ragionare nell’ottica che la macchina possa entrar a far parte del processo diagnostico. Significa ad esempio poter abbattere costi e tempi di attesa.

E la ricerca in questo ambito avanza quotidianamente, ad una velocità spaventosa. A Rotterdam, ad esempio, l’Erasmus MC in stretta collaborazione con Harvard University sta utilizzando i dati dello studio prospettico “Rotterdam Study” per “insegnare” alle macchine a riconoscere precocemente condizioni psichiatriche, neurologiche, endocrine e cardiovascolari.

Con l’avvento dell’AI nella clinica, diventa necessario ripensare la figura degli operatori sanitari, e degli specialisti. Tutto questo non è più il futuro. Ormai è (quasi) presente. In questo contesto, come è possibile che si continui a formare la futura classe medica come se niente fosse?

In Italia, nonostante qualche segno incoraggiante sul fronte della pratica, formiamo ancora la futura classe medica come aveva senso formarla diversi decenni fa, quando l’unico modo di aver una risposta sempre con sé era averla memorizzata anni prima.
Ieri la Medicina era basata sulla conoscenza enciclopedica del medico, che conosceva tutto lo scibile, e che se non lo faceva nessuno poteva dimostrarlo. Inoltre, in passato la parola del medico non era esser messa in discussione da nessuno. Ma i tempi sono cambiati. E con loro, deve cambiare la figura del medico. E per far raggiungere questo, bisogna che cambi il modo in cui formiamo la classe medica.

Con l’aumento esponenziale della conoscenza e l’avvento delle tecnologie, la medicina è diventata sempre più un lavoro di squadra portato avanti con approccio multidisciplinare. Il successo diagnostico e terapeutico sono spesso il risultato della cooperazione tra diversi professionisti con diverse mansioni e competenze, e dipendono sempre più dall’utilizzo di tecnologie sempre più avanzate.
La conoscenza è la base della competenza, ma il nostro obiettivo è migliorare il Servizio Sanitario, non è la conoscenza fine a se stessa. Il nostro obiettivo non è formare figure professionali obsolete che abbiano una conoscenza sconfinata costruita in maniera poco efficiente in termini di tempo a discapito dell’acquisizione di altre competenze. Parallelamente alla comprensione e alla conoscenza medica che, sia chiaro, devono sempre restare la base della formazione medica, si dovrebbe accettare il fatto che oggi è possibile reperire informazioni sempre aggiornate in pochi istanti. Dovremmo insegnare a reperirle rapidamente ed utilizzarle correttamente. Anche perché le informazioni richiedono un costante e sempre più rapido aggiornamento. Nelle università italiane inoltre, in parte a causa della mancanza di risorse, in parte a causa della superficialità con la quale viene vissuto il ruolo dell’insegnamento in tante università, spesso lo studio nozionistico è basato su dispense e slide datate, o su testi italiani. Questi ultimi, sono spesso il risultato della traduzione di testi in lingua inglese, pubblicati dopo un processo di traduzione accurato, e per questo già datati al momento della loro pubblicazione. Una modalità che andava bene quando la conoscenza avanzava di decennio in decennio, ma oggi alla luce del progresso della conoscenza, forse andrebbe ripensato anche questo, specie nelle discipline più dinamiche.

Dobbiamo formare una classe medica capace di destreggiarsi nella letteratura scientifica e nella sempre maggiore mole di dati disponibili affinché questi possano guidare correttamente la pratica clinica. Invece sforniamo ancora professionisti con lacune evidenti in lingua inglese, madre lingua della ricerca scientifica. Sforniamo inoltre troppi medici senza la benché minima competenza statistica e metodologica di base, incapaci di leggere criticamente i risultati di uno studio scientifico nella propria disciplina. In letteratura ancora sono adottati metodi statistici obsoleti per il semplice fatto che altrimenti buona parte dei medici sarebbero stati incapaci di leggerli e comprenderli, e dunque metterli a frutto. Senza parlare degli studi basati su scelte metodologiche errate e per questo almeno parzialmente imprecisi, o inattendibili.

Dobbiamo ripensare completamente alla formazione medica. Dobbiamo formare figure dinamiche, capaci di adattarsi ad un mondo e ad una sanità in continua evoluzione, che insieme alla competenza clinica sviluppino altre capacità. Si lavora sempre più in termini di prevenzione, e per prevenire, specie nella prevenzione primaria (quella che previene l’insorgenza delle malattie) bisogna agire su individui sani, e che in quanto sani non si rivolgono frequentemente al sistema sanitario fino al momento dell’insorgenza di un disturbo. Per prevenire, comunicare è fondamentale. Ciò nonostante, a nessun medico è insegnato a comunicare, a nessuno è richiesto farlo. Tantomeno, anche in questo caso, si insegna a sfruttare gli strumenti offerti dalla tecnologia, come ad esempio i social media, che oggi rappresentano la principale fonte di informazione nella popolazione generale. Questi potrebbero esser usati in maniera sistematica e diffusa per promuovere corretti stili di vita e diagnosi precoci. Invece, questi hanno spesso aiutato la crescita di movimenti no-vax e altre forme di scetticissimo e sfiducia verso la scienza. Esistono esempi di medici impegnati sui social, come Burioni. Come lui, tanti altri esperti della propria disciplina comunicano senza avere alcuna preparazione in termini di comunicazione. Per questo commettono errori evitabili come quello del “blastare”, comportamento denunciato non solo come inefficace ma anche come controproducente dagli esperti in comunicazione. Ed è comprensibile che questi errori vengano commessi dal momento che manca la formazione.

In altri ambiti formativi il processo di innovazione è iniziato. L’avvento di AI e Big Data sta facendo la fortuna di matematici, statistici e programmatori, oggi sempre più ricercati dai centri medici universitari per maneggiare la mole di dati disponibili. E alcune università lo hanno capito, inserendo corsi all’interno di piani di studi esistenti, o creando nuovi piani di studio che formino profili specializzati nell’utilizzo di dati in contesto biomedico. Sono due esempi i Corso di Laurea Magistrale in “Mathematics and Statistics for Life and Social Science” e in “Quantitative and Computational Biology” attivati dall’Università di Trento, in lingua inglese. Questo nella formazione medica, forse per il fatto che classe medica italiana è estremamente conservatrice, forse perché siamo ancora innamorati della figura tradizionale del medico, non sta succedendo. E dove si fiuta aria di cambiamento, l’innovazione non avviene comunque abbastanza rapidamente da tenere il passo con i tempi che corrono.

Abbiamo bisogno di figure competenti che lavorino in sinergia con la tecnologia, sfruttandola a proprio vantaggio per massimizzare il proprio potenziale. Questo non significa formare medici privi di conoscenza e “servi” delle macchine, privi di capacità senza di queste, che passino le proprie giornate su internet. Significa massimizzare quello che la tecnologia ha da offrirci, adattandoci alla società attuale, puntando sulle capacità “umane”. Ad esempio, sin dal primo giorno di università, parallelamente allo studio, ad ogni futuro medico dovrebbe esser insegnato a praticare una rianimazione cardio-polmonare e ad utilizzare un defibrillatore automatico, e questo allo stato attuale non succede. Entrambe sono competenze di vitale importanza in cui nel contesto attuale nessuna macchina non può sostituire l’umano, almeno per ora. Il defibrillatore automatico è l’esempio per eccellenza. Si tratta di un dispositivo salvavita che richiede di esser applicato correttamente e attivato, indipendentemente dalla competenza in ambito medico dell’operatore che lo aziona. Il dispositivo è stato programmato per esser in grado di analizzare i dati ricevuti e intervenire in maniera adeguata, facendo talvolta la differenza tra vita e morte. Ogni studente di medicina, in un contesto di emergenza, potrebbe e dovrebbe già dall’inizio del proprio percorso accademico esser in grado di fare la differenza in una situazione di emergenza.

Bob Dylan nel ’63 ci invitò ad ammettere che le acque crescevano, ad accettare il cambiamento, a reagire. Suggeriva di cominciare a nuotare, perché i tempi stavano cambiando.

Chi si oppone a questi cambiamenti rischia di apparire come apparirebbe ai nostri occhi, oggi, un camice bianco che assaggia l’urina per diagnosticare il diabete mellito.
Non è che Thomas Willis fosse un pazzo o avesse torto.

Ma i tempi sono cambiati.

Fabio Porru

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References:
– A comparison of deep learning performance against health-care professionals in detecting diseases from medical imaging: a systematic review and meta-analysis (2019) Xiaoxuan Liu et al.
– International evaluation of an AI system for breast cancer screening (2019) McKinney et al.
– An artificial intelligence-enabled ECG algorithm for the identification of patients with atrial fibrillation during sinus rhythm: a retrospective analysis of outcome prediction (2019) Attia et al.
– Rotterdam Study (http://www.erasmus-epidemiology.nl/research/ergo.htm)

«Ma secondo te si può suicidare chi ha un sogno? Chi ha un obiettivo?»

È successo, ancora. La notizia non è uscita sui giornali, ma qui è arrivata comunque.

La settimana scorsa un collega ha deciso di farla finita.

E lo ha fatto.

«Ma secondo te si può suicidare chi ha un sogno? Chi ha un obiettivo?»

Uno degli errori è pensare che questo non potesse succedere che a lui. Lui che aveva alle spalle una lunga storia di depressione.
La depressione spesso è vista da tanti come una “eccessiva debolezza”, come “un mazzolino di scuse”, o “una marea di cazzate”. Ma non sempre.

A volte alla depressione è riconosciuta la dignità di malattia. Tipicamente, questa dignità è riconosciuta quando la malattia ci permette di estraniarci da eventi che non vogliamo sentire vicini, perché fanno paura o perché non ci interessano.
Un po’ come quando in seguito ad un attacco terroristico, viene fuori che magari vent’anni prima la persona aveva fatto uso di benzodiazepine, e allora da malato di niente era all’improvviso un «malato di mente», uno «squilibrato», la colpa era sua, della sua malattia, e basta.
È più semplice darci questa risposta, invece di chiederci cosa possa aver spinto una persona, emarginata come l’Arthur Fleck del Joker di Todd Phillips. Potremmo scoprire che forse la società avrebbe potuto fare qualcosa di più per impedirlo.

Quando vogliamo liquidare rapidamente qualcosa su cui sarebbe bene fermarsi a riflettere, perché dobbiamo tornare alla nostra vita, è malattia mentale. In questo caso, è depressione.
Quando ci serve per giustificare qualcosa che altrimenti non riusciremmo a capire, la depressione diventa all’improvviso reale, ed è un’ottima spiegazione.

Credere all’improvviso che i disturbi mentali siano qualcosa di reale, a prescindere da quali siano e dalla loro intensità, ci permette di andare avanti, senza fermarci un attimo a capire cosa sia successo, e come sia potuto succedere. Possiamo voltare pagina, senza neanche chiederci come sia possibile che un ragazzo con una vita davanti e tutte le possibilità del mondo abbia scelto di farla finita.

Su cosa sia andato storto.
Su cosa si potesse fare per impedirlo.
Su cosa si possa fare per evitare che vada storto ancora, ancora ed ancora.
Su cosa si debba fare per evitarlo.

La depressione ci permette di includere questo evento nel cassetto di tragedie che ci colpisce, e sì, per carità, ci dispiace anche, ma che non è ci tange per davvero. Un po’ come quando qualche disastro si verifica dall’altra parte del pianeta, e ci dispiace anche per quello. Ma domani è un altro giorno, buongiorno che è mattino.

Poniamo l’etichetta,
causa del decesso,
caso risolto, caso chiuso,
il prossimo.

L’idea di un gesto tanto estremo da una persona “normale”, che affronta le stesse difficoltà che affrontiamo tutti noi “normali”, è scomoda. E allora sì all’improvviso, quella che fino al giorno prima era tutt’altro, diventa improvvisamente una malattia. Una malattia che lo allontana da noi.

«Era malato.»
«Soffriva di depressione.»
«Eh, quando sei depresso purtroppo…»

È per questo che è successo.

Soffrire di depressione aumenta il rischio di suicidio, ma non tutti i depressi si suicidano. Perchè il suicidio è qualcosa di molto più complesso. La depressione non è sufficiente per spiegare quello che è successo. Sarebbe un punto di partenza nel provare a spiegarselo, semmai. Perché anche le ragioni di quella depressione dovrebbero essere tirate in ballo.

Qualche anno fa, abbiamo perso una collega. Sebbene la conoscessi appena, il funerale è stato straziante. Una parte di quella sofferenza, lungi dal voler colpevolizzare qualcuno, venne anche dal vedere che tanti di quelli che sedevano accanto a lei fino a pochi giorni prima avessero disertato il funerale per andare a lezione o per studiare in biblioteca.
Se non possiamo permetterci di fermare
le lezioni e lo studio in biblioteca,
neanche per due ore,
neanche per una cosa del genere,
non stiamo perdendo qualcosa di fondamentale lungo strada?

E allora io lo capisco che in un contesto simile qualcuno si possa sentire alienato.
Capisco che possa sentirsi come un vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro.
Capisco che possa non tollerare le proprie debolezze, che debolezze non sono ma è solo un fermarsi ad ascoltare in mezzo a questa corsa folle ed insensata. Io capisco che in un contesto simile uno possa sentirsi sbagliato, e possa non intravedere una via di fuga.
Se non quella.

«È la malattia che lo ha portato a questo.»
«La malattia lo ha reso malato.»
«La malattia gli ha fatto dimenticare il valore della vita.»
«La malattia gli ha fatto dimenticare i suoi sogni.»

È per questo che è successo.

«Non potevo essere io perché non sono malato.»
«Non potevo essere io perché conosco il valore della vita.»
«Non potevo essere io perché io ho dei sogni.»
«È per questo che non è successo a me.»

E invece no.

Lui aveva sogni, e obiettivi.

Era prossimo a finire gli esami,
per i quali chiedeva informazioni ai compagni di classe.
Lavorava alla tesi che avrebbe presentato nell’ultimo giorno di università,
per sancire la fine del suo ottimo percorso accademico e conferirgli il titolo di dottore in medicina e chirurgia.
Si informava sulle opportunità post-laurea all’estero sui vari gruppi Facebook appositi, dicendosi disposto ad impegnarsi al 100% per raggiungere i requisiti, per sapere cosa fare per conquistarsi il posto in qualche centro prestigioso e costruirsi una carriera.

La Macchina di Galton è formata da un piano verticale, sul quale sono piantati dei chiodi. Lasciando cadere delle palline dalla parte alta, queste andranno a sbattere sui chiodi. Ogni volta che incontrano un chiodo, si trovano ad un bivio. Ogni pallina, davanti ad ogni bivio, può dirigersi verso destra o verso sinistra. Al chiodo successivo, lo stesso. E così via. La sequenza di direzioni prese ai vari bivi porta la pallina a compiere il proprio percorso, fino a raggiungere il fondo. Le palline giunte sul fondo, si accumulano andando a formare delle pile. Il teorema del limite centrale e della distribuzione normale dimostra che le pile assumono approssimativamente la forma di una curva a campana, tipica delle variabili casuali normali. La maggior parte delle palline tendono a collocarsi al centro. Mano a mano che di spostiamo dal centro, dalla media, le palline son sempre meno numerose. Ma ci sono. E sono più di quanto non si pensi.

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Due anni fa, solo nell’ospedale dove lavoro, quattro studenti si sono tolti la vita. In Italia, negli ultimi mesi, questo è l’ennesimo caso. E per ogni persona che lo fa, gli studi dicono che ve ne sono dieci che lo pensano. Il suicidio è la seconda causa di decesso tra i giovani adulti dei Paesi Occidentali.

Che davanti ad un bivio, la pallina vada a destra o a sinistra, è del tutto casuale. Ogni pallina, all’inizio del proprio percorso, potrebbe finire nella parte più a sinistra, in quella più a destra, o nella zona centrale. Nella vita è tutto molto meno ideale, e molto più complesso. Ma penso che in buona parte valga lo stesso. E ognuno di noi può intraprendere innumerevoli percorsi diversi, e arrivare a bivi differenti sulla base del percorso intrapreso al bivio precedente. Ognuno di noi sarebbe potuto andare a destra o a sinistra. A volte per volontà nostra, a volte per caso o volontà esterna a noi.

Non lo conoscevo, e non sapevo niente di lui. Ma chi lo conosceva mi ha raccontato qualcosa.
Era una persona attiva che si dava da fare su tanti fronti.
Era una persona con tantissime passioni.
Si interessava al cambiamento climatico.
Faceva rappresentanza studentesca.
Aveva fatto l’Erasmus.
Aveva la passione per la psichiatria.
Cercava un dottorato all’estero.

Proprio come me.

Non so cosa passasse per la sua testa quel giorno, in quelle ultime ore. Non so cosa lo abbia portato a quella decisione. Non so davanti a quali bivi la vita lo abbia portato, e quali percorsi si sia trovato a percorrere. Quando mi è stata raccontata la sua storia, il pensiero è stato invece uno solo.

Forse quella pallina,
potevo essere io.

Fabio Porru

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UPDATE – Dove chiedere aiuto:
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il 118. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 199 284 284 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.

Puoi anche chiamare i Samaritans (http://www.samaritansonlus.org/chi-siamo/) al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.
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Post correlati:
– Eravamo centottanta
(https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10215092647742827)

La risata incontrollata: il disturbo neurologico del Joker di Joaquin Phoenix esiste davvero?

Piangere e ridere sono reazioni normali nella vita, tutti hanno pianto e piangono, così come a tutti capita di ridere. Tuttavia esistono risposte improvvise e incontrollate che non riflettono uno stato d’animo, ma sono sintomo di altro.

Arthur Fleck, il Joker dell’omonimo film di Todd Phillips interpretato da Joaquin Phoenix, soffre di una risata incontrollata che rende difficile la relazione con gli altri. Questo è uno dei tratti più indimenticabili e agrodolci della storia. Il doloroso paradosso che ne deriva è che Joker ride anche se non vorrebbe e al tempo stesso vorrebbe far ridere gli altri ma non ci riesce.

Durante una scena del film, mentre è in viaggio su un autobus, una mamma stronca il suo tentativo di far ridere il figlio facendo facce buffe. Lo stress causato dall’equivoco gli scatena una delle sue irrefrenabili risate e per scusarsi Arthur deve estrarre dal taschino della giacca un biglietto plastificato in cui è spiegata la sua patologia.

Viene quindi spontaneo domandarsi se questo disturbo neurologico sia reale o se si tratta di una forzatura plasmata sul film.

La risposta è che il disturbo esiste davvero e lo stesso Joaquin Phoenix ha raccontato che per rendere al meglio la natura patologica della sua risata ha studiato video di persone che ne sono affette.

La patologia in questione è la Pseudobulbar Affect (Sindrome Pseudobulbare).

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SINTOMI

  • I pazienti che sono affetti da sindrome pseudobulbare possono presentare i seguenti sintomi:
  • Pianto e risate inadeguate alla situazione
  • Episodi che durano più a lungo del previsto
  • Scoppi di frustrazione e rabbia
  • Espressioni del viso che non corrispondono alle emozioni

I sintomi non sono legati all’umore, quindi il paziente potrebbe essere felice, ma piangere senza potersi fermare. Oppure al contrario essere triste e non riuscire a smettere di ridere.

CAUSE

Gli scienziati ritengono che la sindrome pseudobulbare possa derivare da danni e lesioni vascolari al livello della corteccia prefrontale, la zona del cervello che controlla le emozioni. Un forte trauma dovuto ad un incidente automobilistico o una malattia che colpisce il cervello possono portare all’effetto pseudobulbare. Ad esempio, circa la metà delle persone che hanno avuto un ictus possono esserne affetti. Anche cambiamenti nel cervello dati da sostanze chimiche legati alla depressione e iper stati d’animo potrebbero svolgere un ruolo importante nella patologia. Altre condizioni comunemente legate alla sindrome pseudobulbare includono:

  • Tumore al cervello
  • Demenza
  • Sclerosi Multipla
  • Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA)
  • Morbo di Parkinson

FATTORI CHE AMPLIFICANO LA SINDROME PSEUDOBULBARE

Il disturbo tende a peggiorare e si accentua nelle situazioni sociali e in generale in quelle che provocano ansia.

È POSSIBILE BLOCCARE QUESTO DISTURBO?

La PBA, proprio come i tic, non è controllabile. È un disturbo che grava pesantemente sul morale dei pazienti i quali devono spesso scusarsi, dicendo che non era loro intenzione. Il riso e il pianto non sono affatto liberatori in questo caso.

ESISTONO DELLE CURE?

In parte sì. Sono disponibili dei farmaci in grado di ridurre la frequenza e la gravità degli episodi. Si tratta di tipologie di antidepressivi, come i triclici (TCA) e gli inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI). Spesso viene anche consigliato alle persone affette di reagire agli episodi in questa maniera:

  • Tentare di distrarsi
  • Respirare profondamente
  • Rilassarsi tramite tecniche di meditazione
  • Cambiare posizione.

Giorgia Andenna


SITOGRAFIA

Mai parlare di suicidio (soprattutto se ne hai bisogno)

Ieri mi ha scritto un’amica. Mi ha chiesto del materiale sul suicidio tra gli studenti. Vorrei dirvi che lo ha fatto per pura curiosità, ma la verità è un’altra. Per parafrasare le sue parole, invece, è successa una di quelle cose che non pensiamo possano succedere a qualcuno che conosciamo. Ma che invece succede.

Ormai è da oltre un anno che utilizzo i social per parlare di salute mentale. Parlando di salute mentale, specie tra i giovani, si finisce necessariamente per l’arrivare, prima o poi, al trattare il tema del suicidio.

Qualche mese fa pubblicai su Facebook e Instagram una serie di post e sondaggi su questo tema. Non capita spesso che pianifichi gli argomenti che tratto. Di solito, qualcosa nel corso della giornata, lavorativa o personale, mi fulmina, e vado. Ma quando un tema è delicato, tendo a prendermi del tempo. Perché per trattare temi delicati, ci vuole la giusta delicatezza e la giusta competenza.
Ma quel giorno ero nervoso, e mi sono lanciato. Anzi, ho lanciato due sondaggi.
“Ti mette a disagio che una persona ti dica di aver pensato al suicidio?”
“Pensi che parlarne aumenti il rischio che altri possano farlo?”

Ero molto nervoso. E il motivo era che, facendo un giretto alla ricerca di progetti, mi misi a dar uno sguardo alla struttura di alcune delle miriadi di gruppi di sostegno per persone che se la vedono con disturbi mentali. Ce ne sono tanti.
Purtroppo.
Per fortuna.

Tempo fa ho creato un gruppo con quello stesso fine, e su questo gruppo decine di persone si son aperte, cercando e dando supporto. In quei giorni ho assistito a diversi momenti davvero emozionanti, e ho per questo deciso di cercare altre realtà virtuose come quella. Ho fatto domanda di accesso per alcuni gruppi su Facebook, per curiosarci un pochino e osservarne le dinamiche. Imparare qualcosa per migliorare la realtá di cui mi stavo occupando.

“Rispondi a queste domande e leggi le regole per aiutare gli amministratori a controllare la tua richiesta di iscrizione. Le tue risposte saranno visibili solo a loro.”

Che palle.
Ma ci sta.

Per la prima volta nella mia vita, ho davvero letto il regolamento prima di entrare in un gruppo.
Copio-incollo una delle regole che ho trovato su due diversi gruppi.

Primo gruppo:
“NON si parla di suicidio; non iscrivetevi a questo gruppo se avete intenzione di parlare o discutere di suicidio. Il post verrò eliminato e l’utente segnalato alle autorità competenti a fine di prevenzione. Quest’ultima operazione è un dovere da parte di tutti i membri che leggano post inerenti.”

Secondo gruppo:
“Nessun riferimento al suicidio.
Le allusioni al suicidio saranno eliminate e segnalate alle forze dell’ordine da qualsiasi utente del gruppo che ne verrà a conoscenza. Non abbiamo gli strumenti per gestirle in un gruppo facebook.”

Io non voglio fare il drammatico. Però…

Immaginate una persona nella sua ora più oscura.
Immaginate che stia pensando proprio a quello.
Che forse sarebbe meglio così.
Per tutti.
Che non ce la fa
davvero
più.

Immaginate che non avendo nessuno con cui parlare decida di confidarsi nell’unico posto dove negli ultimi mesi ha trovato comprensione.

Quel gruppo di supporto dove ogni giorno si confrontava con altri impegnati nella stessa lotta, altri colpiti dallo stesso male.

Immaginate che digiti tra le lacrime alcune parole forse per qualcuno troppo drammatiche ed eccessive, ma non ai suoi occhi.

Immaginate dopo l’invio finale, l’attesa di una notifica.
Immaginate la disperazione mista alla speranza.
E immaginate che aggiornando la pagina,
non riesca più a visualizzare il gruppo.
Non ne fa più parte.

Perché in quel gruppo, nato per ascoltarsi e supportarsi l’un l’altro nei momenti bui, non si può parlare del momento più buio.

Prima regola del gruppo di supporto: non parlare del momento in cui si ha più bisogno di supporto in assoluto.

“Fanno bene. Perché parlando di suicidio, il rischio è quello che a qualcuno venga in mente di farlo.”

Certo. Infatti una persona con depressione non ci penserebbe mai da solo ad una cosa del genere, nel caso. Aspettava voi. Abbiamo visto tutti quanti Harry Potter. Non dire il nome di Voldemort non ha mai significato che Voldemort sparisse, né che risparmiasse le sue vittime.

Suicidio.

Suicidio.

Suicidio.

È la seconda/terza causa di morte tra i giovani dei Paesi Occidentali, ma non se ne può parlare.

“E allora perché quando una star si suicida aumentano i suicidi?” (cit.)

Perché quella è una cosa diversa, legata spesso alle modalità con cui se ne parla più che al fatto in sé. È un fenomeno descritto in letteratura come “Effetto Werther”, così chiamato in quanto in seguito alla pubblicazione del libro “I dolori del Giovane Werther” seguì un brutto picco di suicidi in emulazione.

Non è parlar di suicidio, il problema.

Ma parlarne come se fosse un evento spettacolare. È la narrazione che viene costruita attorno al fatto, il problema. O addirittura parlarne come di una via di uscita dai problemi. In seguito al suicidio di Robin Williams, quelli dell’Academy pubblicarono un tweet che diceva così:

“Sei libero, genio”.

Questo è il problema.
Robin Williams è morto. Non libero.
Si è ucciso. Non si è liberato.

Qualche mese fa una studentessa di medicina ha tentato il suicidio. Sta girando su tutti i gruppi Facebook l’articolo in cui viene descritta la vicenda, con grande attenzione ai particolari della dinamica.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato le linee guida per i professionisti della comunicazione per guidarli nella trattazione di questo argomento complesso. Questa la traduzione dei 10 comandamenti:

1 – spiegare a lettori, ascoltatori e telespettatori le notizie riguardo a un suicidio di cui si parla dando anche delle informazioni sulla prevenzione del suicidio;

2 – non diffondere pregiudizi e leggende metropolitane sui suicidi e non descrivere certi luoghi come posti in cui è comune che le persone si uccidano, né dare molti dettagli sul luogo in cui una persona si è suicidata, specialmente se famosa;

3 – scrivere degli articoli su come si possono affrontare i pensieri suicidi e come si può chiedere aiuto;

4 – non dare eccessivo spazio e importanza alle notizie che riguardano i suicidi;

5 – non usare titoli sensazionalistici quando si parla di un suicidio e non usare l’espressione “suicidio” nel titolo;

6 – non normalizzare o romanticizzare il suicidio quando lo si descrive, non presentarlo come un’alternativa a un problema;

7 – non riportare in modo esplicito il modo in cui una persona si è suicidata;

8 – non diffondere foto o video che mostrano il corpo della persona che si è suicidata e non fornire link ai profili social della persona in questione;

9 – fare particolare attenzione quando si parla del suicidio di una persona famosa;

10 – fare particolare attenzione se si decide di intervistare una persona che conosceva la persona morta o che ne era parente perché queste persone possono essere a rischio di farsi del male a loro volta.

Parlare del suicidio, magari di una persona famosa, rischia di causare emulazione solo se lo si fa male. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, infatti, spiega che in realtà non solo parlarne in maniera appropriata possa non aumentare il rischio, ma possa addirittura ridurlo. Un report responsabile può diventare uno strumento per informare e sensibilizzare sul tema del suicidio e sulla sua prevenzione. Raccontare di strategie di coping a condizioni avverse può proteggere dal rischio di suicidio. È stato descritto un effetto protettivo del riportare sui media notizie di suicidio. Questo effetto è stato chiamato Effetto Papageno, richiamando al personaggio de Il flauto magico di Mozart che, vicino al suicidio in seguito alla perdita dell’amata, all’ultimo momento ricorda delle alternative a disposizione e decide di intraprendere una via alternativa. Sceglie la vita.

Uno studio inglese realizzato dal King’s College e pubblicato nel 2014 sostiene che parlare di suicidio, sia per gli adolescenti che per gli adulti, riduca l’ideazione suicidaria. Chiedere alle persone se hanno pensato al suicidio, sostengono gli autori, era associato ad un miglioramento della salute mentale sul lungo termine.

Questi sono i fatti.

Chi ha in mente il suicidio (che non va confuso con chi usa la minaccia di suicidio per fini di manipolazione) sta mandando una richiesta di aiuto, sta offrendo una possibilità di dialogo, una possibilità di intervento.

Parlarne talvolta può essere una grande liberazione per la persona.

Il problema col suicidio non è quando se ne parla.

Ma quando non se ne parla.

Parlarne è forse la cosa migliore che possiamo fare per evitarlo.

Fabio Porru

Dove chiedere aiuto:
Se sei in una situazione di emergenza, chiama il 118. Se tu o qualcuno che conosci ha dei pensieri suicidi, puoi chiamare il Telefono Amico allo 199 284 284 oppure via internet da qui, tutti i giorni dalle 10 alle 24.

Puoi anche chiamare i Samaritans (http://www.samaritansonlus.org/chi-siamo/) al numero verde gratuito 800 86 00 22 da telefono fisso o al 06 77208977 da cellulare, tutti i giorni dalle 13 alle 22.

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Illustrazione: Baratro, anonimo per il progetto “La mia illustrazione mentale” su In direzione ostinata e curiosa