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Morire migrando: la banalità dell’esclusione come male morale

Mediterraneo. Un piccolo mare, percorribile dalla sponda Sud alla sponda Nord a bordo di un
gommone alla deriva. Un mare grande abbastanza da nascondere i suoi naufraghi e da separare
due diverse rive, due mondi distinti.
L’Africa, il Terzo Mondo piagato dalle guerre e dai soprusi, dalla miseria e dall’assenza di
prospettive, dall’Europa, il Vecchio Continente, il continente dei vecchi che vegliano sulle
bandiere dei diritti dell’individuo, sulla giustizia sociale e sul benessere diffuso.
Tra questi mondi, delle figure tentano la traversata da una spiaggia opposta all’altra: da Sud
verso il Nord, da Est verso l’Ovest. Vedendosi il passaggio ostruito il più delle volte.
Individui che intraprendono rotte “illegali”, andando incontro alla morte tra le onde o alla fortuna
di una accoglienza “esclusiva”, o ancora al trattenimento sul suolo d’approdo in attesa del
respingimento. Strategia applicata in Libia, in Africa, ma anche a Lesbo, in Europa, dove i centri di
identificazione trattengono in condizioni disumane migliaia di persone, riducendo drasticamente
il numero degli arrivi sul continente.
Una soluzione “eliminatrice” che scopriremo, attraverso Arendt e Kant, essere il prodotto della
deresponsabilizzazione dello “spettatore” che guarda dalle rive del Vecchio Mondo alle mani
che chiedono aiuto, sommerse dal mare, e che coincide con il punto (forse) di non ritorno della
banalizzazione del male morale dietro cui prende forma l’inumano.

Rotte, accoglienza esclusiva, internamento
La prima ad essere chiusa è stata la cosiddetta rotta occidentale: quella che dal Marocco,
attraverso Ceuta e Melilla, portava alla Spagna, cioè all’Europa. Quella stessa Europa che,
attraverso l’agenzia Frontex, ha sottoscritto lo sbarramento delle frontiere.
Seguì la rotta balcanica, circondata di filo spinato dalla Macedonia all’Ungheria, alla Serbia, alla
Slovenia, alla Croazia: la rotta orientale sarà serrata nel marzo 2016 tramite un accordo tra
Turchia e UE che impedisce il filtraggio dei migranti in Grecia.
Salvo alcune “isole di sosta”, tra cui Lesbo, destinate a centri di riconoscimento temporanei, e
divenute invece un limbo infernale di baracche e tende, che il recente incendio, a Moira, ha solo
reso più visibile.
Per quanto riguarda la rotta centrale, l’assenza di un interlocutore statuale affidabile in Libia ha
portato in molti, provenienti dall’Africa subsahariana, dal Sudan, dall’Eitrea e anche dal Medio
Oriente siriano e afghano, ad affidarsi alle maglie dell’economia dei traffici di esseri umani,
stretta nelle mani di cartelli criminali d’accordo con le milizie locali.
Dopo la breve parentesi di (apparente) solidarietà europea, seguita alla decisione della Germania
merkeliana di aprire le porte ai profughi siriani, rifugiati soprattutto in Ungheria, e che ha portato
alla firma, nel settembre 2015, di un accordo di equa ripartizione dei migranti trattenuti in Italia e
in Grecia tra tutti i Paesi dell’Unione, l’Europa ha optato per la politica del respingimento. Anche
detta strategia del “contenimento dei flussi”.
In Italia, Paese d’approdo d’Europa, una simile strategia viene incarnata, nel giugno 2017,
dall’allora Ministro dell’Interno Minniti: il numero degli arrivi crolla vertiginosamente, da un giorno
all’altro, nel luglio della stessa estate.
Si era verificato, infatti, un cambio di paradigma politico, e al respingimento in Europa era stato
preferito il contenimento in Libia dei flussi: non è difficile immaginare un accordo, patrocinato
e finanziato dall’Italia, tra le milizie del non-Stato nordafricano, con obiettivo l’adozione di una
comune linea di contrasto dei traffici. O, meglio, di riconversione dell’economia basata sul
traffico dei migranti in una basata sul doppio sfruttamento di questi, giunti in Libia pagando e qui
rinchiusi in vere e proprie prigioni, in condizioni disumane.
Occasione, questa, per acquisire una immagine di affidabilità agli occhi delle potenze europee e, magari, un’investitura di legittimità politica nella costruzione del Paese lacerato.
Veniva inaugurata la strategia dell’internamento. Ne seguì un’ancora più netta riduzione delle
partenze, ed un riassorbimento della conclamata emergenza migratoria, cui, in tempi successivi,
hanno fatto eco le politiche di criminalizzazione delle ONG e di smantellamento degli Sprar,
operate dal Ministro Salvini sotto la Presidenza Conte, e già preannunciate nelle campagne
elettorali di altri partiti e movimenti.
Così ci avviamo a festeggiare, il 27 settembre prossimo, la Giornata mondiale del Migrante e del
Rifugiato.

Lo spettatore senza responsabilità
Eliminare. Tener fuori, espellere da un limes: un’azione unilaterale, per definizione non condivisa,
che marca una separazione ontologica sulla base di una distinta collocazione geografica. Chi è
eliminato, dunque, è esterno al novero di chi vediamo con familiarità, di chi sappiamo che esiste
e di cui ci curiamo.
Eliminare significa anzitutto cancellare dall’ambito della nostra responsabilità, che segna il primo
confine umano, quello della persona. Sottrarre al giudizio.
Conviene recuperare un’opera postuma lasciata incompleta dall’autrice, Hannah Arendt, e
leggerne in particolare la parte conclusiva, appena abbozzata, dedicata all’atto di “giudicare”.
Punto intermedio che lega il “pensare” e l'”agire”, cioè il riflettete estraniandosi del filosofo e
l’occuparsi politico di chi si immerge nell’attualità: è l’assunzione di una prospettiva d’insieme,
che consente di definire l’ambiente entro il quale inscrivere la propria attività. Ma due caratteri
connotano questa operazione: la temporalità e la condivisione.
La prima da leggere in senso esistenziale, come tratto del modo d’essere dell’essere umano che
ne permette l’esistenza, e non la rifiuta o la rimanda. La seconda da intendere in senso kantiano,
come università presupposta nella razionalità della formulazione del giudizio.
Lo spettatore, anzi, gli spettatori sono testimoni di ciò che accade, ne colgono il destino e
s’impegnano affinché la loro azione possa essere efficace in direzione di un ampliamento
sempre maggiore del senso del giudizio che motiva le loro scelte: potremmo dire, al di qua di
ogni metafisica, che essi si protendono al miglioramento dell’umanità dell’uomo. Humus di ogni
azione veramente politica, secondo una posizione aristotelica.
Dall’altro lato, invece, sta l’opzione del disconoscimento. È sempre Arendt a parlarcene:
la “banalizzazione” della rinuncia volontaria al giudizio, la “banalità del male” che è già
deresponsabilizzazione, fa da chiave di volta dello scritto su Eichmann e delle riflessioni sui
campi nazisti (e non solo nazisti).
L’idea del campo, che secondo Primo Levi non abbisogna di altro che di “un terreno e un filo
spinato”, è il prodotto eminente della deresponsabilizzazione: elimina infatti alla vista, perciò
da qualsiasi riferimento e connessione, i suoi detenuti, della cui esistenza sospesa, invisibile e
silenziosa non si sa più niente. È una concezione che ha diversi gradi di applicazione (Arendt
riconosce tre diversi tipi di campo) ma che si fonda su un’immagine che attraversa le tipologie in
un crescendo di gravità nel trattamento dei detenuti, muovendosi nel solco di una unica strategia
politico-esistenziale: l’eliminazione, appunto, solo declinata in diversa maniera.
È ciò che fa del campo un istituto moderno, connaturato con il mondo degli Stati nazione, perciò
tanto con l’era delle democrazie quanto con quella dei totalitarismi. Perché finché v’è un limes,
v’è necessariamente un’eliminazione.

La banalità del male morale
Banale è il male. Lo compie Eichmann, un uomo del tutto normale, noioso, morbosamente
comune.

Lo compiono gli impegati del Reich tedesco che firmano le carte per il viaggio verso i campi
tanto quanto i soldati che si occupano dello svuotamento dei vagoni e le squadre speciali
deputate a prelevare i corpi dalle camere a gas e bruciarli nei forni. Non è un fatto straordinario,
non è un’epifania del demonio: è l’occupazione del padre di famiglia, un lavoro come un altro.
Ripetitivo, addirittura poco entusiasmante.
Ma la banalità non assolve il carattere malvagio del colpevole: il male, anche così, è una scelta.
Direbbe Kant un cedimento alla propensione naturale umana alla disobbedienza alla legge
morale, nella voluta ignoranza del suo contenuto universale, in nome di interessi particolari,
contingenti, ipotetici.
Disconoscere la legge universale della ragione, l’imperativo categorico, significa rinunciare
all’unico sentimento che Kant ammette nel novero della morale in senso stretto: il rispetto, che si
dà nell’attribuzione all’altro della nostra stessa moralità, dunque la nostra stessa libertà, essenza
dell’umano. Significa, perciò, negare in noi l’essere umani, perché la legge è morale se si applica
all’umanità, e non ad una parte di essa; così il rispetto non è riferito ad un uomo, ma all’uomo in
generale.
Nessuna benevolenza, dunque, è dovuta a chi chiede che gli venga riconosciuta eguaglianza
in diritti, libertà ed opportunità, ma il rispetto: non un gesto super-erogatorio, ma un atto
eminentemente legale, formalmente necessario.
Non farlo, è cedere al male. Cioè essere inumani, conservando un’apparenza di ciò che non siamo
nella banalità smunta della nostra dedizione quotidiana al nulla.

Lorenzo Ianiro

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Rencontre avec des jeunes érythréens en route vers l’Angleterre

Mon père est ce qu’on appelle un « navteur », c’est à dire une personne qui prend le train tous les jours pour se rendre au travail. Lors d’une journée de juillet caniculaire, alors qu’il était dans le train pour rejoindre Liège, ses yeux ont croisé le regard de quatre jeunes migrants qui se dirigeaient vers l’arrière du train dans le but de se cacher du contrôleur. Quelques dizaines de minutes plus tard, alors que le contrôleur revient du sas dans lequel les jeunes s’étaient cachés, mon père le voit saisir son téléphone.

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