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La rotta dei Balcani: un viaggio pericoloso che inizia da lontano

Il 23 dicembre scorso, a seguito di un incendio all’interno del campo migranti di Lipa, nella città di Bihać, una cittadina della Bosnia al confine con la Croazia, 900 persone sono rimaste sfollate, prive di acqua, elettricità e un tetto per ripararsi dal freddo. L’inverno in quelle zone è rigido e i boschi non  possono essere un adeguato rifugio per un essere umano. Eppure, da quel giorno, centinaia di uomini,  donne e bambini continuano a vivere in condizioni disumane. Il 3 gennaio la Commissione Europea  ha annunciato lo stanziamento di 3,5 milioni di euro di aiuti umanitari per i migranti rifugiati nel  territorio della Bosnia-Erzegovina.

Tuttavia, pensare di poter risolvere una crisi umanitaria di tale  portata senza coinvolgere i territori ai confini dell’Unione Europea è inverosimile e non tiene conto della complessa rete di attori presenti all’interno di questo scenario.  

Le storie dei migranti nel campo di Lipa sono diverse tra loro e allo stesso tempo unite da un unico  filo conduttore. Sono persone provenienti da paesi che a noi sembrano lontani, immaginabili solo osservando una cartina geografica; territori come l’Afghanistan, l’Iran, l’Iraq, la Tunisia, l’Etiopia,  l’Eritrea. Il loro viaggio non è unidirezionale e non prevede un’unica meta, ma tante discese e talvolta  fermate a lungo termine. È come ritrovarsi su un binario, senza sapere se giungerai al punto di  partenza, di arrivo o di stallo perenne. Molte di queste persone decidono di fuggire dal loro paese a  causa della guerra, della fame, della povertà o per andare alla ricerca di un futuro migliore. Si affidano a trafficanti di esseri umani per poter raggiungere i paesi dell’UE, visti come un’isola felice, dove i loro diritti verranno rispettati. Cercano di trovare delle rotte che possano portarli al sicuro e dove  invece, spesso, incontrano la morte. Le loro vite, spezzate via dalle onde del mare, dalle ruote dei  camion, dalle sevizie delle polizie di frontiera o dai governi dittatoriali, vengono raccontate in  continuazione, eppure nessuno sembra volersene occupare.

Per alcuni politici sono persone di serie  B che devono essere respinte a priori nei loro paesi di origine, per altri sono comuni mortali che  potrebbero essere aiutati, ma sempre con cautela, relegandoli, di fatto, in una categoria inferiore. È quello che è accaduto al campo di Lipa, nel momento in cui, nonostante le condizioni di difficoltà in  cui riversavano centinaia di migranti, le autorità locali e la popolazione di Bihac si sono opposte ad ospitarli nell’altro centro di accoglienza della città, vuoto e pronto per essere utilizzato. In un articolo  dell’Internazionale, di Annalisa Camilli, risalente a novembre del 2019, viene affrontata la questione  della migrazione in Bosnia e le sue parole sembrano annunciare la recente tragedia. “In Bosnia dal  2018 hanno transitato 40 mila persone e circa seimila sono bloccate nel cantone di Una-Sana,  intorno a Bihać, mentre aspettano di provare ad attraversare la frontiera con la Croazia, primo  avamposto dell’Europa. Ma al confine, nei boschi, è alta la probabilità che i profughi incontrino i  manganelli e la violenza dei poliziotti croati e che siano rimandati indietro in quello che è diventato  una specie di stato cuscinetto ai margini dell’Europa, la Bosnia Erzegovina.” Tale situazione di  emergenza umanitaria poteva dunque essere evitata se si fossero prese misure adeguate.

I Paesi  dell’UE non possono continuare a voltarsi dall’altra parte, né a chiudere le frontiere. Il rischio, infatti, è quello di incentivare il lavoro dei trafficanti e delle organizzazioni criminali che si occupano di  organizzare viaggi rischiosi e interminabili.

Nel libro “La frontiera”, scritto da Alessandro  Leogrande, scomparso nel 2017, viene analizzata la situazione del fenomeno migratorio attraverso  una pluralità di voci che narrano in prima persona l’agonia del “viaggio” sia via mare che via terra.  È il caso di Aamir, un ragazzo afghano che nel 2010, a soli 16 anni, ha scelto di partire insieme ad  altri suoi compagni. “Aamir è stato uno dei primi a percorrere la rotta dei Balcani. È andato dalla  Grecia in Turchia, senza passare dall’Italia”. Il giovane, infatti, dopo essere riuscito a raggiungere  la Grecia, aveva tentato più volte, senza ottenere successo, di saltare sui camion all’imbarco delle  navi che da Patrasso si dirigono verso l’Italia. Un “gioco” pericoloso che ogni anno causa la morte  di decine e decine di persone, asfissiate o schiacciate dalle ruote del mezzo pesante. Aamir ha deciso  così di studiare un percorso alternativo, ricorrendo all’aiuto di Google maps. Lui e altri ragazzi sono  riusciti a stampare la mappa che li avrebbe portati in territorio europeo. Hanno camminato centinaia  e centinaia di chilometri, attraversato Grecia, Macedonia, Serbia, Ungheria. Per notti non hanno  dormito, accampandosi tra i boschi dei Balcani, in alcune zone popolate dai lupi. Sono stati catturati dalla polizia serba e sbattuti in carcere per mesi; dopo aver raggiunto l’Ungheria, invece, sono stati inviati in centri per rifugiati. La polizia di confine non si è accertata che fossero minori, destinandoli  nel centro di accoglienza per adulti di Debrecen. Alcuni dei ragazzi con cui Aamir aveva iniziato il lungo viaggio durato 6 mesi, sono stati rispediti in Grecia in quanto le loro impronte digitali erano  finite nei database della polizia a Patrasso.

Secondo l’accordo di Dublino, entrato in vigore per la  prima volta nel 1997, infatti, si può fare richiesta di asilo solo nel primo paese di arrivo. I nuovi scenari geopolitici, tuttavia, richiederebbero una revisione dell’accordo che non riesce più a gestire il  flusso di migranti provenienti da diversi paesi. La soluzione si può trovare solo in una cooperazione all’interno dell’Unione Europea per evitare un “lavaggio delle mani” generale. Ad esempio, in alcuni  casi, potrebbe essere fornita la concessione di “più visti di lavoro temporanei”, offrendo così per  coloro che sono dei “migranti economici” un’alternativa al diritto di asilo, andando a contribuire all’economia di paesi, come l’Italia, che tendono all’invecchiamento.

Ovviamente, occorre  distinguere chi fugge per mancanza di prospettive lavorative da chi invece è costretto a causa della  guerra. Ciò tuttavia, non significa che entrambe le situazioni non debbano essere trattate con la medesima cura, semmai con approcci differenti. I corridoi umanitari possono essere un buon metodo  per fare entrare in Italia, legalmente e in sicurezza persone in “condizioni di vulnerabilità” come  bambini, ammalati o vittime di persecuzioni. Lo ha capito subito la comunità valdese, memore di una  storia di fughe e persecuzioni che oggi aiuta i profughi provenienti da diverse parti del mondo. Infatti, “dal 2016 i corridori umanitari hanno aiutato circa duemila profughi siriani ad arrivare in Italia”.  I valdesi sono stati costretti a scappare per secoli, da quando Papa Leone III li aveva dichiarati eretici e sanno bene cosa significa essere rifiutati dal resto della popolazione.

A Bihac, dove si trovano attualmente i migranti sfollati, tra il 1991 e il 1995, durante il conflitto in Bosnia-Erzegovina , sono state uccise 4856 persone. Un territorio, quello bosniaco, che durante quegli anni ha visto la fuga di  più di un milione di persone. Come a voler confermare il meccanismo per cui nel corso della storia  alcuni tendono a dimenticare gli eventi traumatici, gli abitanti di questo tratto dei Balcani non  riescono ad empatizzare con i migranti nel campo di Lipa. Eppure basterebbe ricordarsi che siamo  tutti esseri umani con la voglia di scoprire nuovi mondi e con il diritto a vivere dignitosamente, aldilà  di ogni infondata pretesa di superiorità etnica o religiosa. L’orrore del mondo si insidia nel silenzio  di chi non vuole vedere la violenza, non la accetta o peggio la giustifica.

Nel capitolo finale del suo libro, Alessandro Leogrande analizza il dipinto di Caravaggio “Il Martirio di San Matteo”. Senza saperlo, ancora prima di arrivare alla fine del suo racconto, sono stata alla Chiesa di San Luigi dei  Francesi, dove se si lascia un’offerta in moneta, il quadro del Martirio si illumina in tutto il suo  splendore. Un uomo sta per uccidere il vecchio che non ha scampo di fronte alla morte certa, intorno  a lui i personaggi si dileguano dal centro della scena, impauriti o indifferenti; l’unico che guarda  impietosito la povera vittima è un uomo con la barba, che secondo gli esperti rappresenta Caravaggio stesso. “Dipingendo il proprio sguardo, Caravaggio definisce l’unico modo di poter guardare  all’orrore del mondo. Stabilisce geometricamente la giusta distanza a cui collocarsi per fissare la  bestia. Dentro la tela, manifestamente accanto alle cose, non fuori con il pennello in mano. Eppure  sa anche che tale sguardo è inefficace, non cambierà il corso delle cose”. Forse, in un mondo  costituito da una molteplicità di culture che si intrecciano le une alle altre, l’unico modo per vivere in armonia è quello di vedere la realtà accettandone i suoi lati oscuri. Punto di partenza per cercare di  collaborare senza erigere muri, ma porte comunicanti che consentano di conoscersi senza paure e chissà anche di amarsi.

Irene Pulcianese

BIBLIOGRAFIA: 

  • “La frontiera”, di Alessandro Leogrande
  • Internazionale, 5 Novembre 2019 
  • Internazionale, n 1377, 25 settembre 2020
  • Internazionale, n 1391, 8 gennaio 2021

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22 luglio | Migrazioni – podcast

Il 22 luglio si è tenuto il primo incontro di “La Disillusione – le realtà in un mondo che cambia”. Abbiamo parlato di migrazioni, un fenomeno che caratterizza la società umana fin dai suoi albori, ma che negli ultimi anni è stato strumentalizzato e reso un “problema”. Ci siamo chiesti perché è necessario pensare al ruolo della migrazione in modo diverso e come ci si approccia alle richieste che migrare porta con sé insieme ai nostri ospiti:
Soumaïla Diawara, Hilarry Sedu, Giovanna Cavallo, Luca Attanasio e Fabio Gianfrancesco.

Nel podcast puoi trovare:

  • 0 – 2:30 Introduzione
  • 2:32 Soumaila Diawara
  • 9:56 Hilarry Sedu
  • 18:36 Luca Attanasio
  • 36:00 Giovanna Cavallo
  • 49:00 Fabio Gianfrancesco
  • 56:30 Domande dal pubblico
  • 1:15:00 Lettura di una poesia di Soumaila Diawara

22 luglio | Migrazioni

Roma, 22 luglio, Parco Schuster, il sole è in procinto di tramontare, una leggera brezza accompagna le persone a sedersi davanti al palco dove si terrà il primo dei cinque incontri organizzati da La disillusione. Gli ospiti sono pronti per iniziare e allo stesso modo gli spettatori. Sul palco sono presenti Soumaila Diawara, attivista politico e poeta; Giovanna Cavallo, responsabile dell’area legale di Baobab Experience; Hilarry Sedu, avvocato; Luca Attanasio, giornalista e scrittore; Fabio Gianfrancesco, attivista per Mediterranea Saving Humans  e Esc Atelier e Claudio De Angelis, mediatore dell’incontro. Il tema centrale è l’immigrazione. 

Dopo una breve introduzione del topic centrale di questo primo incontro, Soumaila Diawara per primo risponde alla domanda del mediatore sulla sua esperienza personale del viaggio per arrivare in Italia e che tipo di ambiente ha trovato in Italia. Soumaila in poche parole descrive la sua esperienza personale per raggiungere le sponde europee e nel mentre la sua espressione lascia intendere le sofferenze a cui è stato sottoposto. Attenzione particolare viene rivolta al suo vissuto in Libia, dove tuttora vengono maltrattati e sfruttati migliaia di migranti, costretti alla mercé dei trafficanti di uomini. Successivamente, per rispondere alla parte della domanda inerente al nostro Paese, Soumaila si sofferma e richiama la nostra attenzione sul problema integrazione in Italia, di quanto questo sia un vero e proprio fallimento della politica e alla base per l’inserimento sociale di immigrati nel territorio nazionale. Un problema che aveva affrontato in modo approfondito e lucido il numero di Febbraio di Limes parlando della mistificazione che i politici e mass media propongono alla massa. Persino papa Francesco ha dichiarato in un intervista che “un Paese che non ha la possibilità di integrare i migranti, non dovrebbe nemmeno accoglierli”, difatto nelle società multiculturali odierne l’unico modo per garantire la sicurezza e salvaguardare la coesione sociale è l’integrazione. Soumaila ne è un perfetto esempio, passato da una residenza ad un’altra ha continuato a studiare per non perdere la sua identità. Per non essere estraneo nella ragnatela sociale, ma straniero.

Hilarry Sedu, collegandosi al discorso sull’integrazione di Soumaila, sottolinea come la barriera linguistica in primis sia un ostacolo enorme per l’integrazione in Italia. L’incapacità di poter esprimere la propria personalità e creare interazioni rende impossibile l’inserimento in una qualsiasi società moderna. I mezzi sicuramente non vengono a mancare, il problema è la volontà e l’organizzazione nell’utilizzarli nella maniera più consona. Lo stesso articolo 10 della costituzione italiana, da lui citato, tutela la condizione giuridica dello straniero in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Il fatto che alcuni immigrati non vengano minimamente considerati come soggetti giuridici è un oltraggio alla Costituzione italiana e alle leggi internazionali. Successivamente Hilarry riporta una comparazione con la legge sull’omicidio d’identità su cui il Senato sta lavorando, un esempio per dimostrare che quel tipo di omicidio non è solamente previsto dal punto di vista estetico, ad esempio nei casi in cui viene gettato acido sul volto, ma può essere utilizzato anche verso i migranti. La capacità di reprimere e negare ad un individuo la possibilità di essere è una privazione alla sua identità e va contro ogni diritto umano. Hilarry non è solo un uomo di parole, lo dimostra il fatto che sia uno degli autori dello Ius Culturae, ovvero un principio a metà tra lo Ius Soli e lo Ius Sanguinis che vede come soggetto i minori nati in Italia con origine straniera. Quest’ultimi potranno acquisire il diritto di cittadinanza a patto che abbiano frequentato scuole o vi abbiano compiuto percorsi formativi equivalenti per un determinato numero di anni. L’azione di Hilarry punta a migliorare il benessere della società civile italiana attraverso leggi e diritti. Il nostro diventa così un DOVERE CIVICO; lo stesso Damilano nell’articolo “Il dovere di tenere la rotta” nel numero dell’Espresso “Capitani e no”, sottolinea l’importanza e la bellezza della parola dovere verso lo Stato: una parola scansata e denigrata dalla destra, una parola dimenticata dalla sinistra. Il dovere significa rinunciare a qualcosa di personale per il benessere comune, “la risposta a una domanda della coscienza prima che ad una esigenza della politica”, il dovere di rispettare le regole dello Stato per vivere civilmente. Il nostro dovere di cittadini, ad oggi, è quello di salvare vite umane, anche a costo dell’impopolarità. Il nostro dovere non consiste soltanto di salvarli dalla morte, ma anche dall’alienazione  e dalla ghettizzazione sociale che condurrà ad una frattura della società occidentale odierna.

Secondo Luca Attanasio il nostro primo dovere è quello di combattere la mistificazione politica riguardo l’argomento migrazione attraverso dati alla mano. Nel 2016 tutti i media, anche quelli più progressisti, parlavano di invasione, così veniva descritto l’arrivo di 180.000 mila migranti che fuggivano dalla guerra e erano pronti a morire in nome della libertà. Nessuno però tiene a sottolineare di come il Mediterraneo sia diventato l’Acheronte, dove il traghettatore non è Caronte ma gli avidi commercianti di uomini verso l’inferno. Si contano all’incirca 37.000 mila cadaveri nel Mar Mediterraneo. Attanasio poi decide di raccontare una delle storie che ha sentito da uno dei ragazzi che ha intervistato. Il nome di questo migrante è Mohamed Keita: all’età di 13 anni Mohamed decide di scappare dalla Costa d’Avorio a causa della guerra civile e la perdita dei propri genitori proprio a causa di questo conflitto. Analfabeta e incapace di riconoscere i confini, quindi con un’inconsapevolezza geografica all’età di 15 anni arriva a Tripoli, lì racconta la crudeltà e la cattiveria dei trafficanti, pronti a privarti di qualsiasi oggetto abbia un valore di mercato. Dopo averlo fatto spogliare prima di imbarcarsi, i trafficanti notano un rigonfiamento nel lato dei pantaloni, pensando fossero soldi ordinano a Mohamed di mostrare il contenuto di ciò che aveva in tasca. Non era un rotolo di banconote, ma le foto dei propri genitori. Un ricordo di dolcezza per restare ancorato alla realtà e non perdere la speranza. In un gesto molto banale, strappano queste foto e le gettano nel mare, dove insieme a cadaveri giacciono le identità di migliaia altri di uomini. Questa storia cruda, Attanasio la racconta per dimostrare cosa devono subire i migranti non solo dal punto di vista fisico ma anche psicologico. Come ragazzi così giovani devono affrontare anni di sofferenza per arrivare in Europa, sofferenze inammaginabili. Ora Mohammed dopo esser arrivato a Termini, è diventato un fotografo di successo grazie all’aiuto di Save the Children e la fortuna di essere stato notato da una famosa fotografa che gli ha permesso di esporre i propri lavori al Metropolitan Museum. In conclusione questa parabola dimostra come da vittime, i migranti si dimostrano superuomini. Proprio dalla definizione di Nietzsche, il primo a criticare la civiltà occidentale, fondata su una cultura di schiavi che privilegia la pseudovirtù dell’umiltà e dell’obbedienza, nega la vita e promuove un camuffamento della realtà dei conflitti. In questo contesto traslato in epoca odierna, l’immigrato si presenta come colui che si assume la responsabilità di affermare valori in assenza di criteri oggettivi, contando solo sulla volontà. L’immigrato è capace di creare il proprio destino nonostante tutto e nonostante tutti.

Infine le parole dei due attivisti di Mediterranea e del Baobab Experience, Giovanna Cavallo e Fabio Gianfrancesco hanno descritto la realtà romana e italiana. La lotta di Giovanna contro le istituzioni e gli enti locali per assicurare un safe space per gli immigrati. La necessità per loro di rivendicare i diritti è essenziale per il discorso sull’identità, loro quindi sono i primi a denunciare le illegittimità e il mobbing da parte delle istituzioni locali. A Roma, i migranti di “transito” impossibilitati ad andare via dall’Italia o bloccato il loro rimpatrio per gli Accordi di Dublino, non vengono considerati soggetti giuridici. Tutti gli individui usciti dal sistema di accoglienza, costretti ad occupare stabili per avere un tetto sotto la testa e i richiedenti di asilo in attesa di un responso del tribunale di Roma. Queste situazioni vengono dimenticate dai cittadini, ma persone come Giovanna combattono quotidianamente per salvaguardare i loro diritti e non vengono spaventate dalla personalizzazione del crimine portata avanti dalla questura per intimidire gli attivisti. I quali continuano nel loro lavoro consapevoli di adempiere al loro dovere civico.

Fabio Gianfrancesco, si sofferma in conclusione sul significato e l’importanza dell’attivismo, di quanto il significato politico lo differenzi dal volontariato. Nella nave che hanno comprato grazie ai fondi di banca etica salvano centinaia di vite in mare. La sua testimonianza ci ricorda di quanto il loro lavoro non sia soltanto quello di salvare vittime dal mare, ma imparare da loro che tutti i giorni lottano per rivendicare la dignità alla vita. L’importanza di una vita che deve essere vissuta. In questa società fatta di immagini, non riusciamo più a riconoscere il loro valore. Benjamin, sociologo della scuola di Francoforte, parlava proprio di crisi dell’esperienza e di quanto le impressioni non penetrino più nell’esperienza stessa. Adorno parlò poi di semicultura, una cultura che ha perso le sue funzioni. L’uomo non è più capace di inserire le notizie in un insieme ampio e definito, ma sono semplicemente frammenti che si ripetono sempre uguali a se stessi. In questo modo l’uomo perde la sua consapevolezza storica. Fabio, invece, grazie alle sue esperienze dirette acquisisce la consapevolezza, una sorta di risveglio di coscienza, il quale gli permette di avere una visione chiara sul dovere di aiutare coloro che si battono per la vita e la libertà.

In conclusione è stato un dibattito pieno di spunti interessanti e stimoli per addentrarsi più profondamente nelle diverse sfaccettature del fenomeno migratorio, partendo dai viaggi intrapresi dai migranti sino alla situazione politica del nostro Paese e dell’Europa. Gli ospiti hanno proposto le loro esperienze e opinioni con pacatezza e argomentazioni precise. Un dibattito privo di retoriche d’odio. Un dibattito che cercava di scattare una fotografia della realtà sociale attuale.

Oscar Raimondi

Corridoi umanitari

Durante la settimana dei Dialoghi sull’Europa al dipartimento di Scienze Politiche Sapienza, in un incontro tenutosi lunedì 19 Marzo 2018, il professore D’Angelo e il giudice Cottatellucci hanno approfondito e analizzato un nuovo progetto nato in Italia nel 2015, un progetto che ha attirato molte attenzioni in tutta Europa per la sua funzionalità: i corridoi umanitari, una nuova via d’accesso legale per l’Europa. Grazie anche alla testimonianza diretta di Dawood Yousefi e del suo viaggio odisseico per arrivare in Italia dall’Afghanistan è stata sottolineata la necessità di progetti nuovi e concreti come questo. Ma cosa sono concretamente i corridoi umanitari? Chi riguardano? E soprattutto: come funzionano?

I corridoi umanitari sono un progetto realizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese in accordo con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale e quello dell’Interno. Il primo protocollo d’intesa è stato firmato il 15 dicembre 2015. Il protocollo consente l’entrata legale e sicura a tutte le persone  in “condizioni di vulnerabilità” (ad es. vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, donne sole, anziani, malati, persone con disabilità) nel territorio italiano attraverso il rilascio di un visto umanitario e successiva presentazione della domanda d’asilo.

La possibilità di ottenere un visto prima ancora di essere in territorio italiano abbatte le barriere territoriali, grande limite delle norme vigenti a livello internazionale. L’art. 33 della Convenzione di Ginevra, così come le direttive europee, vietano fermamente l’espulsione o il rinvio al confine di un rifugiato, a meno che non sia un pericolo per la società. Questa norma, senza ombra di dubbio razionale, comprende dentro di se una grande contraddizione. I rifugiati a cui non viene garantito un visto d’ingresso, procedura regolamentata dal decreto legislativo 286 del 1998, possono decidere comunque di tentare di raggiungere le coste italiane consapevoli del fatto di non poter essere riportati a confine o essere dichiarati automaticamente illegali. Per questo motivo molti rifugiati utilizzano tutti i loro risparmi per intraprendere viaggi pericolosi e sfidare le acque del Mediterraneo, allo stesso modo una soluzione come questa automaticamente porterebbe avanti una lotta contro il business degli scafisti e dei trafficanti di uomini.

Dawood, quando 15 anni fa partì dall’Afghanistan insanguinato dalla guerra per arrivare a Bari, aveva solamente 17 anni. Il viaggio durò 11 mesi e lungo il percorso un suo amico perse la vita. Dawood, ancora minorenne, scappò dal suo paese nativo per raggiungerne un altro dove non gli si negasse il diritto alla vita. La sua testimonianza fa capire quanto occorra un sistema che tuteli delle fasce civili, come i minorenni, in maniera tale che possano trovare rifugio in un paese straniero senza correre il rischio di perdere la vita.

Nella prima fase del progetto i paesi coinvolti sono Libano e Marocco, nella seconda l’Etiopia. Tra i paesi con il più alto numero di rifugiati nel proprio territorio, il Libano conta 1 milione e mezzo di rifugiati, una buona parte siriani.

L’ex Primo Ministro italiano, Paolo Gentiloni, ha espresso apprezzamento per il rinnovo del protocollo d’intesa che permetterà l’arrivo di 1000 rifugiati anche nel biennio 2018/19. Successivamente ha sottolineato la “proficua sinergia tra società civile e istituzioni”. Il meccanismo del rilascio del visto è azionato da una collaborazione tra le due parti, gli esperti e i volontari dalle società aderenti al progetto contattano le associazioni territoriali che operano nei paesi interessati (ONG, Chiese e organismi ecumenici) per compilare una lista di coloro che possono aderire all’opportunità di ottenere il visto. In un secondo momento la lista, esaminata e controllata, verrà trasmessa alle autorità consolari e al Ministero dell’Interno. Quest’ultimo, secondo il decreto legislativo del 25 Luglio 1998, n. 286 sulle “disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, hanno diritto all’ultima parola.

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Il progetto ha una sua struttura ben precisa, ma la domanda sorge spontanea: ma i finanziamenti? E soprattutto una volta arrivati in Italia quale destino attende i rifugiati? In risposta alla prima domanda il progetto è completamente autofinanziato. I finanziamenti vengono raccolti in larga parte dall’otto per mille dell’Unione delle chiese metodiste e valdesi, ma anche da altre raccolte e donazioni, come la Campagna lanciata dalla Comunità di Sant’Egidio. Analogamente l’accoglienza e l’integrazione sono a carico delle organizzazioni promotrici. Così come i finanziamenti anche l’accoglienza e l’integrazione sono a carico delle organizzazioni promotrici. L’integrazione nel tessuto sociale territoriale e culturale italiano non può che passare dall’apprendimento della lingua italiana e la scolarizzazione dei minori e, ovviamente, altre iniziative.

In conclusione, il progetto illustrato propone un’alternativa valida alle politiche sull’immigrazione europee ed internazionali. Oltre ad aver ottenuto elogi dalle cariche istituzionali italiane più alte, il progetto ha attirato le attenzioni dell’Unione Europea. La Francia e il Belgio hanno adottato lo stesso metodo per accogliere rifugiati nel loro territorio nazionale. I corridoi umanitari rappresentano una proposta alternativa, le organizzazioni realizzatrici del progetto permettono di avere una struttura ben oliata e funzionale. I rifugiati arrivano nel territorio nazionale in sicurezza e legalità, e soprattutto ricevono un’accoglienza adeguata. Infine i corsi di integrazione assicurano loro la possibilità di avere un futuro nel paese ospitante.

Oscar Raimondi

Due di due (a chi resta)

Qualche settimana fa son tornato dopo tanto tempo a Escolca, il piccolo paese in cui é nato mio padre.
Ho rincontrato alcuni dei miei vecchi amici d’infanzia, con cui ero solito passare parte della mia estate.
Alcuni di loro son partiti e andati dall’altra parte del mondo. Letteralmente. Alla ricerca di cosa, se di una esperienza a tempo o di uno spazio nel mondo sul lungo termine, lo sanno solo loro.
Altri son rimasti, invece. Nel parlare con i primi, ho ritrovato parole familiari. Il classico “molto bello” che asseconda l’entusiasmo dell’interlocutore con il successivo “ma però..” a sottolineare che partire non è facile come dicono e non è solo rose e fiori.
Nel parlar con i secondi, ho ritrovato quasi delle scuse. Letteralmente. Sembravano quasi mortificati, quasi dovessero giustificarsi per il loro non esser partiti. Per il loro essersi “accontentati”.

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