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MUSE: ci adattiamo e gli album impegnati non li facciamo?

C’è un posto particolare per tutti i ricordi: c’è il secondo cassetto del comodino, c’è il baule in soffitta, c’è il libro che hai letto centinaia di volte e si è guadagnato l’onore di preservare lettere e bigliettini che rappresentano drammi e sciocchezze della vita adolescenziale e oggi, ieri, dopodomani sarà sempre così. Tuttavia, nel mondo che ci accoglie oggi non c’è tempo per il sentimentalismo, per i piccoli segreti, per quei momenti dove sei solo tu e i tuoi pensieri travestiti da simpatici amici invisibili. Vuoi mettere!? Dovrei staccare la wifi? E poi come posso controllare tutto ciò che devo assolutamente controllare? 

Rispondere su whatsapp, scorrere il feed di Instagram o la home di Facebook, no, queste strane pratiche obsolete che ti portano ad essere un tantino più introspettivo e calato nel mondo non fanno proprio per me. 

Pensate che solo un anziano signore possa criticare i giovani d’oggi? O solo nostra madre ossessionata dall’idea che gli smartphone siano la prima causa del cancro? Ebbene, vi sbagliate. 

Il batterista di una delle band più apprezzate di questo secolo, Dominic Howard dei Muse, ha regalato alla stampa dichiarazioni piuttosto forti su quanto il modo di ascoltare musica sia totalmente cambiato, soprattutto per i giovani. 

Effettivamente io ho Spotify, più duecento canzoni scaricate illegalmente sul cellulare e a volte acquisto un brano su ITunes solo per sentirmi una brava persona. Perché ti lamenti tanto Dominc? E tu, Matthew Bellamy? E non iniziare papà a mostrarmi ogni tuo vinile come fosse un cimelio di famiglia. Davvero ti ricordi il momento in cui lo comprasti? No papà, non ho un negozio di dischi preferito. Non esiste più. 

“Il modo di ascoltare musica è drasticamente cambiato da 10 anni a questa parte, è folle! E lo vedo in prima persona! Persino io non ascolto più album come facevo un tempo. Così abbiamo pensato che, visto che stavamo pubblicando un nuovo album, sarebbe stato giusto che avesse un senso dall’inizio alla fine. E’ molto più giusto fare qualcosa di questo tipo, che ascoltarne solo due/tre tracce!”

I servizi “On the demand” che usufruiamo tutti senza nemmeno battere ciglio ci danno ampia scelta: tutti i generi, tutte le playlist, tutte le epoche.  Proprio in questi casi, però, si perde di vista una delle nobilissime prerogative della musica: raccontare. Sì, perché se gli Aedi si accompagnavano con la lira ci sarà stato un motivo, o i trovatori in Provenza, o De André con le sue ballate.

Ammettiamolo non c’è quasi più la concezione materiale del CD, figuriamoci quella “concettuale”, e continuando così galleggeremo tra canzoni autonome, singoli e hit dell’estate. Non è già successo? 

Non fatevi ingannare solo perché Spotify ve le mette nella raccolta accattivante “Top 50 global” con una bellissima e coloratissima foto di Dua Lipa sopra, quello non è un album, è un distillato, un’edizione dell’Odissea ridotta e semplificata. Perché? La semplificazione da quando può arricchirci? Almeno la musica lasciamola complessa, come noi… Anche perché, non sarà forse per questo che non possiamo farne a meno? 

Per quanto ogni Album (con A maiuscola non casuale) dei Muse racconti una storia, solitamente distopica e agghiacciante, ho pensato di menzionarvi non solo l’ultima fluorescente opera,  che si è animata davanti ai miei occhi esattamente un anno fa allo stadio olimpico (20 luglio 2019), ma Drones, il loro settimo album che ha un che di capolavoro.

In “Drones” si raccontano addirittura due storie: in un’intervista il frontman Matthew Bellamy ha spiegato la precisa divisione per cui  da “Dead inside” a “Aftermath”, è la storia di un individuo privo di speranza, a tal punto da trasformarsi in uno psicopatico,  ma che sul finale ritrova la forza di reagire e scopre l’amore. E in tutto ciò si respira tutta l’inquietudine che si prova durante la visione di un film di fantascienza, oppure leggendo 1984 di Orwell. Poi c’è “The Globalist” che è la storia inversa di un individuo che non riesce a trovare quella forza e finisce per distruggere il mondo. Una sorta di scelta, la distruzione porta all’oblio e il coraggio di reagire alla rivoluzione.

Perché sia nella musica, che nei romanzi, che nella vita, è sempre una questione di scelta, scelta della via: la via dell’amore e dell’umiltà o della rabbia e della paura? All’uomo l’atavica scelta. 

“In futuro, visto come è cambiato il nostro pianeta, e quanto al giorno d’oggi la gente sia troppo distratta, sarà difficile che faremo nuovamente qualcosa come “Drones”. Il modo di consumare musica è cambiato, ed anche noi potremmo cambiare il nostro modo di produrre musica. Pensavamo di rilasciare piccoli gruppi di tracce, o solo singoli, tra questa parte e qualche anno”. 

La scelta giusta e controcorrente del “Concept Album” è apparsa come uno degli ultimi spasmi del grande estro artistico che questa band c’ha mostrato negli anni. Per i prossimi progetti si opta per l’adattamento all’ultima frontiera del mercato musicale, anche se l’ultimo album penso abbia tenuto la sua struttura densa e riflessiva, ma adottando tinte più estetiche e punk, alla blade runner 2049. (Simulation Theory, 2019) E ai concerti funziona a meraviglia! Non scorderò mai un alieno gigante sbucar fuori dal palco, mentre Bellamy impazza con un assolo di chitarra sulla punta più estrema del palco, con sotto le mani e le urla dei suoi amici adoranti. Sì, ormai i Muse si sentono a casa a Roma. Si prendono il gelato all’angolo del gelato e ridono parlando in italiano con una pronuncia impeccabile. Non sapete quanto vi mancheranno dopo essere stati ad un loro concerto! 

Come cerimonia d’addio alla musica concettualizzata e agli album pink floydiani,  direi di sdraiarci tutti sul pavimento della stanza e lasciar scorrere i dodici brani nella speranza che un po’ di superficialità si lavi via.  È un cocktail di Drones e di Simulation Theory. Maneggiare con cura. 

Playlist della settimana:

Iris Furnari

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Poca favilla gran fiamma seconda: nel dantesco Paradiso di NewAir

Si può dire che io e Gabriele Carone, almeno negli ultimi tre anni, siamo cresciuti insieme. Ben tetragoni ai colpi di ventura, i nostri lavori si sono spostati di pari passo, così dopo l’intervista che ha fatto seguito all’uscita del primo EP Animae e l’intervista fatta dopo l’uscita del secondo EP Redemptio, per l’uscita dell’EP Eden non potevamo esimerci dal ritrovarci. Questa volta però la quarantena e i suoi strascichi ci hanno impedito di incontrarci in uno dei quartieri di Roma che prendono nome da un santo, e ci siamo dovuti limitare a un’intervista telematica. Già che la sorte ci aveva portato in dote una differenza rispetto alle precedenti due ed essendo così la nostra rigorosa metodicità interrotta, perché non aggiungerne un’altra? Ecco allora che questa intervista non ha luogo il giorno dopo l’uscita dell’EP, bensì il giorno prima. Nessuno fino a ora sa qualcosa di Eden, tranne chi ha letto l’intervista.

Ovviamente, lascio ESATTAMENTE QUI il link dove troverete dapprima tutti i riferimenti utili, e poi dalla mezzanotte del 12 giugno anche il nuovo EP.

Per il terzo anno di fila eccoci qui. Con l’uscita di “Eden” si chiude un percorso musicale ma forse anche personale. Come ti senti al termine di questo viaggio nell’aldilà della musica?

Incredibile come sia passato già tutto questo tempo. Sembrava ieri che iniziavo i primi lavori dell’EP “Animae”, seguito poi da “Redemptio”. Con “Eden” termina il percorso triennale “Divina Commedia Dantesca” e posso sentirmi sul piano personale e musicale molto più completo. Ovviamente, la parte artistica vive in simbiosi con quella musicale, e quindi le varie esperienze vissute, in entrambe le parti, mi hanno dato quella “scintilla” per poter vivere al meglio il “me stesso” e le relazioni esterne. Infatti, questo percorso dantesco è stato per me un tutt’uno; nulla di tutto ciò è stato distaccato dalla vita quotidiana.

L’evoluzione musicale è palese: dalle sonorità cupe e introspettive e dal rap aggressivo del primo EP, Animae, a quelle aperte del synthpop dell’ultimo, passando per le graduali fusioni del secondo, Redemptio. Questo cambiamento è stato esattamente come lo avevi programmato o qualcosa è cambiato in corso d’opera?

In tutta sincerità avevo programmato di realizzare i tre EP fin dall’inizio, ma le sonorità sono tate lavorate solo durante la messa in opera. Giustamente, considerando il Rap un genere che arriva immediato al pubblico, ho pensato che fosse più idoneo a lavori “cupi” come Animae e Redemptio. Un anno fa, dopo l’uscita del secondo EP, mi sono soffermato a pensare allo stile di Eden e vedendo che, il nome riporta al “Paradiso”, ho ritenuto idoneo passare a generi con sonorità più aperte come il Synthpop e il Pop. Non nascondo che in questi due generi mi ci rispecchio di più, ma con la volontà di abbattere le barriere e a creare fusioni di “mondi” e ampie sperimentazioni.

Hai in programma di riunire i tre EP in un’unica pubblicazione? Dobbiamo aspettarci sorprese da NewAir nel futuro?

Bisogna sempre aspettarsi di tutto da NewAir! (ride) Comunque al dì là delle battute non voglio dare dei “spoiler”… Qualcosa avverrà e sarà utile per vedere tutto il lavoro nella sua interezza.

Anche in questo EP hanno partecipato un gran numero di artisti, si può ormai definire un tratto distintivo del progetto: una sola musica, tante voci. Tanti volti nuovi, ma anche qualcuno che già avevamo sentito nei tuoi brani. Come è stato lavorare con loro?

Personalmente credo moltissimo nelle collaborazioni e questo rafforza ulteriormente il mio credo nell’arte condivisa. Infatti è stato incredibile lavorare negli anni con rapper e cantanti di universi musicali completamente diversi, che però hanno saputo integrarsi nel mio mondo “elettronico”.  Tutta questa “grande famiglia allargata” mi ha permesso di fare nuove conoscenze e importanti esperienze musicali e non; devo a tutti loro tantissimo e spero nel prossimo futuro di continuarci a collaborare.

So che è come chiedere a un genitore quale preferisce tra i suoi figli, ma quale dei tre EP senti ti abbia dato di più, e perché?

Mi volete mettere in difficoltà eh? (ride) Credo che, al termine di questo percorso, posso affermare con certezza che tutti e tre i lavori sono importantissimi per la mia crescita personale. Vanno infatti ascoltati e compresi gli EP in ordine e ognuno mostra una fase della vita. Si passa, infatti, dalle difficoltà viste in “Animae” allo stato di incertezza-limbo di “Redemptio”. “Eden”, invece, vive in uno stato di liberazione, ma con la consapevolezza che nella vita ci saranno sempre momenti di difficoltà. Ciò che voglio mostrare è che al termine del viaggio bisogna essere consapevoli che la felicità non è eterna e che quindi bisogna saper “combattere” anche i momenti di difficoltà, ma con un’esperienza sempre più in crescita.

Al termine del viaggio musicale nei tre Regni dell’Oltretomba, hai trovato la Beatrice che cercavi? Ti senti soddisfatto di questo percorso o tornando indietro avresti cambiato qualcosa?

Assolutamente soddisfatto della riuscita musicale e molto sorpreso nel vedere come questi tre lavori mi abbiano affiancato nella vita quotidiana. Ho vissuto in parallelo, durante la composizione e la produzione, momenti difficili sia esteriori che interiori. Non nego, infatti, che le sonorità e i testi mi sono stati molto “suggeriti” dallo status di quei periodi. “Eden” devo dire che è il mio periodo più felice e dove sono riuscito a ritrovare, in primis, me stesso e concludere la mia ricerca della Beatrice terrena. Spero che questa “linea” possa durare al più lungo possibile, con la consapevolezza che sempre ci saranno momenti in cui dover “combattere”.

Come chiusura, torniamo a prima dell’inizio: come mai scegliere di riscrivere in chiave musicale proprio la Divina Commedia?

Anche la Disillusione cerca il “Cerchio della Vita”? Scusate se ti rispondo con una domanda, ma voglio ricordarvi il motto uscito nella prima intervista con voi: “Possiamo continuamente cercare di avere un equilibrio, ma rimarremo in eterno in uno squilibrio passando tra Inferno, Purgatorio e Paradiso.”

Paolo Palladino

 

E quindi uscimmo a riveder le stelle: intervista a Newair

Quando terminammo la prima intervista, io e Gabriele Carone del progetto NewAir ci lasciammo con la promessa di riaggiornarci dopo la pubblicazione del secondo EP. L’inverno è passato, e con l’uscita da dietro le nubi del sole è uscito anche Redemptio, con il medesimo effetto sul panorama musicale.
Ci incontriamo per il secondo atto nella pittoresca cornice del Parco Schuster, nel cuore di Roma sud e, dopo qualche considerazione su quanto sarà difficile rimanere seri su una panchina circondata da bambini che giocano e cani che corrono, ci accingiamo a parlare di purgatorio sotto la mole imponente della Basilica di San Paolo fuori le mura.

È la seconda volta che ci vediamo nell’ultimo anno. La prima eri sempre solo tu, ma parlavi a nome di entrambi i componenti di NewAir. Adesso parli a titolo personale. Cos’è successo?

Essenzialmente, nella vita accadono miriadi di cose e nell’ultimo anno a parte il cambio di line-up con cui ci eravamo lasciati nell’ultima intervista è successo che è stato necessario che NewAir diventasse un progetto solistico, dove io sono la figura di riferimento. Però con me collabora uno staff, anche perché la musica elettronica è un genere abbastanza ampio, che permette di avere collaborazioni e collaboratori interni. Ci sono persone che collaborano con me nella co-composizione, persone che lavorano con me nella gestione del progetto a livello manageriale e di marketing. È un progetto che per me è la seconda pelle, però vive anche grazie ad altre persone.

Quanto ha influito questo cambiamento  tra il primo e il secondo EP?

Poco e nulla. Perché comunque sia la persona, Francesco Massa, che era presente con me nel duo ufficiale rimane nella sua figura di co-compositore dei pezzi, quindi in realtà nell’atto pratico la scia creativa di NewAir continua a essere assolutamente la stessa.

Il primo EP rappresentava un po’ quello che è l’Inferno dantesco, questo secondo EP è il Purgatorio, quindi?

Esatto.

Come ben sappiamo il Purgatorio dantesco è una traccia di passaggio. Si può dire lo stesso del tuo EP?

Assolutamente sì, perché la Divina Commedia si sviluppa come sappiamo tra Inferno, Purgatorio e Paradiso, e anche i miei EP seguendo questa scia dantesca hanno uno sviluppo interno, che è dato sia dalla parte testuale sia dalla parte del sound. Il sound partiva a livello infernale, con un mood molto chiuso, quasi “ostile”, che metteva un po’ con le spalle al muro l’ascoltatore; il Purgatorio invece apre a profili molto più paradisiaci.

La prima traccia, “Memoria Animae”, mi ha colpito particolarmente, con il suo suono di vinile, un po’ sporco, che è veramente suggestivo. Che cosa rappresenta di preciso?

A me come produttore prima di arrivare alla composizione effettiva del brano piace “filmicamente” pensare a come l’EP si possa sviluppare a livello di concept. Per me le tracce devono essere collegate tra di loro, perché questo è un viaggio. Per me la musica è un viaggio. Quindi essenzialmente quel vinile lega i due EP, perché il nostro personaggio, che possiamo essere noi stessi, riascolta le proprie memorie, riascolta ciò che è stato dell’Inferno. Quel vinile riporta indietro. Infatti il tema iniziale del pianoforte è il tema di “Animae”, la quarta traccia dell’EP precedente. Poi si sviluppa si apre all’EP del Purgatorio.

Quest’EP, come anche il precedente, vede la partecipazione di diversi artisti. Come sei entrato in contatto con loro e che apporto hanno dato al progetto?

La musica vive di collaborazioni. Per me un progetto che non collabora con altri progetti tende a isolarsi. Artisticamente se ti isoli ti perdi, perché rimani nella tua nicchia, non apri ad altri paesaggi, altri mondi. La musica elettronica, per come la vedo io, è un qualcosa di aperto: io stesso mi sono aperto al rap, al pop, che personalmente non erano generi contemplati prima di questo EP. Io ho cercato di entrare proprio in questi ambienti, trovandomi con Frabolo, con Fabio D, con Giama. Sono entrato nel campo pop: c’era stata Lisa Luperini nel precedente EP, qui abbiamo Valentina Principi, che ha una voce per me spettacolare a livello del soul, Federica Glovi, che anche lei si indirizza molto bene in quest’ambiente, e Oscar Nini, che tra l’altro ha fatto parte del cast del Notre-Dame de Paris di Cocciante. Sono figure fondamentali, che hanno arricchito il mio EP. Mi hanno fatto, a livello “esperenziale”, affrontare nuove strade. Io credo che l’esperienza sia appunto l’aprirsi.

Paolo Palladino

 

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