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C’è pace all’inferno: perché secondo Kant il conflitto israelo-palestinese è tutt’altro che finito

Era “The Deal of the Century”: Trump lo diceva, e nessuno gli credeva.
Tanto declamato fin dalla campagna elettorale, annunciato dal senior advisor Kushner a
Manama, capitale del Bahrain, un anno fa, ora, nuovamente in tempo di elezioni, sembra più reale
che mai.
Il piano di “the Donald” per risolvere il decennale conflitto tra Israele e il popolo palestinese a
colpi di sussidi economici, abbandonata ogni velleità politica, aveva bisogno di una sola cosa
per prendere il volo: un accordo con le altre nazioni arabe. Quanto si sta delineando proprio in
questi giorni.
Una strategia che si rifa apparentemente a quella tradizione filosofico-politica di cui Kant
è illustre esponente, che vede nell’interconnessione delle economie la precondizione della
concordia globale.
Dietro le apparenze, tuttavia, covano i germi di una nuova fase di un conflitto che è ben lungi
dall’essersi concluso.

Accordi del secolo
In principio fu il “patto del secolo”, annunciato fin dalla campagna elettorale per le presidenziali
2016 e più volte evocato, sempre nel mistero, da Trump e dal suo entourage. Un’idea, per
molto tempo, un astratto disegno strategico che sembrava anche stentare a decollare, data
la repulsione del popolo palestinese per un compromesso che offre soldi in cambio della
sostanziale rinuncia ad uno Stato palestinese, e dato l’attaccamento ad interessi iperpersonali
manifestato dalle varie potenze mediorientali che si affacciano sull’abisso palestinese.
Nello specifico, il progetto (per quel che ci è dato sapere) è quello di dedicare corposi
investimenti economici alle aree abitate dai palestinesi e de facto controllate da Israele dal
1967, così da risolverne i problemi più pressanti (le condizioni di vita degli abitanti di quei
territori, già tragiche e se possibile in peggioramento) e da promuovere uno sviluppo economico
e sociale della zona.
Per conoscere gli aspetti politici della strategia, invece, abbiamo imparato già da più di un anno
a interpretare gli indizi lasciati dalle mosse geopolitiche dell’America di Trump in Medio Oriente,
mosse solo all’apparenza casuali e frammentarie.
Ultima delle quali è una trattativa con gli Emirati Arabi Uniti e con il Bahrain che ha portato ad
un’intesa tra i due Paesi arabi e Israele, sotti l’egida statunitense: l'”Accordo di Abramo”, con il
quale le potenze arabe (quasi sicuramente dirette dall’Arabia Saudita) riconoscono ufficialmente
lo “Stato degli ebrei”. E sanciscono una traslazione delle priorità: dalla lotta arabo-israeliana alla
lotta arabo-iraniana.
Un piano, quello trumpiano, che ruota intorno ad uno dei più ambigui ed importanti principi
sanciti prima della e con la nascita di Israele: già presente tra le righe della Dichiarazione di
Balfour, ripreso nella Dichiarazione di Indipendenza del ’48 e fissato nei cardini della Legge
fondamentale approvata nel luglio 2018. Quel principio che sancisce che l’autonomia, cioè il
riconoscimento della dignità di soggetto morale, di Stato, è in Israele propria del solo popolo
ebraico. Ai palestinesi è concessa la condizione di minoranza governata dalla sovranità
israeliana.
È questo il principio che la strategia di Trump riconosce.
È questo il principio che l’assenso dei due Paesi arabi ratifica.
È questo il principio che i palestinesi (che assistono in questi giorni alla storica riappacificazione
delle due “guide”, Hamas e Fatah, in nome della causa anti-israeliana) rifiutano.

Garanzie per la pace
Il pensiero non nasce come i funghi. Altrettanto i pensatori.
Quando parliamo di Kant dobbiamo riferirci ad una stagione precisa della riflessione
filosofico-politica europea: un’epoca contraddistinta dall’esigenza di giustificare l’assetto
politico esistente e immaginarne i possibili sviluppi futuri.
Il punto di partenza, per molti di questi pensatori, tra cui Kant, è la concezione archetipica della
guerra nella storia e nella natura umane. Guerra che, in “Per la pace perpetua”, Kant descrive
come lo strumento di cui la natura si serve, nell’ambito della teleologia della specie umana, per
popolare di esseri umani la terra in ogni angolo. Guerra che, per il filosofo, è connaturata nel
soggetto umano, così come in altri scritti kantiani lo è il male, detto appunto radicale, radicato.
Assunto questo dato, era diffusa comvinzione, al tempo di Kant, che il commercio stesse
intessendo una rete di relazioni tra gli Stati, estesa quasi a livello globale, tale da risultare come
l’immagine di un complesso di interdipendenze che legavano ciascun soggetto politico agli altri
ed al sistema tutto.
Su una base economica, insomma, si stringono gli accordi di collaborazione tra nazioni e tra
popoli.
Per il filosofo prussiano lo “spirito del commercio” è ciò che garantisce, secondo natura,
la necessità della concordia tra entità morali, gli Stati, tanto distanti per culture quanto
fastidiosamente vicini per spazi occupati su un medesimo globo finito.
L’interesse egoistico spingerebbe gli Stati ad accordarsi, fornendo una condizione fondamentale
per la pace, così come, in un momento antecedente nella storia dell’umanità, aveva spinto gli
individui a riunirsi in una organizzazione statale.
Insomma, sembra che “The Deal” sia stato scritto da Kant. Perché, allora, dovremmo essere
lontani dal raggiungimento di una “pace perpetua” tra Israele e palestinesi?

Kant e Abramo
Si danno delle condizioni, nello scritto kantiano, preliminari “per la pace perpetua tra gli Stati”.
Esse devono essere rispettate da ciascuno di essi nei confronti di ciascun altro, a partire dal suo
vicino più prossimo e potenzialmente più ostile.
Due sono, in particolare, quelle trascurate nel “patto” a stelle e strisce: si dà la possibilità di una
pace solo tra Stati che si riconoscono reciprocamente come tali, cioè come enti morali cui deve
accordarsi il rispetto. Fondamentale è, infatti, l’autonomia dello Stato in quanto soggetto morale,
riconosciuta dall’avversario anche in guerra (se così non fosse, non si darebbe alcuna possibilità
di una pace duratura, ma solo di una tregua).
La seconda condizione, legata a quest’ultimo aspetto, impone che uno Stato terzo possa
intervenire nelle vicende interne di un’altra entità politica solo nel momento in cui questa si sia
già divisa in due realtà politico-morali distinte.
Se la seconda condizione è stata violata fin dal momento della creazione dello Stato di Israele,
ed ancora prima con la promessa dell’impegno inglese nei confronti della sua fondazione,
attraverso un’operazione geopolitica arbitraria, la prima è formalmente preclusa dalla
“costituzione” stessa di Israele, che non può riconoscere nel suo “spazio vitale” entità statali altre
da sé.
Intanto, una dichiarazione ONU ha stabilito ormai un anno fa che il territorio della Striscia di Gaza
sarebbe stato da considerare invivibile già nell’anno in corso. E ancora nessuna pandemia s’era
abbattuta sul mondo.
Forse, il “patto” trumpiano, vista l’impossibilità allo stato attuale dei fatti di assicurare una pace
duratura alla regione, sta giocando sulla volontaria ambiguità insita nel concetto kantiano: cerca
la pace, sì, ma quella eterna dei morti.

Lorenzo Ianiro

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