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Il NO come rifiuto alla cultura della semplificazione

Il 20 e il 21 settembre si vota il referendum per approvare o respingere la legge di revisione
costituzionale dal titolo “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di
riduzione del numero dei parlamentari”.
Non vi siete ancora decisi?
Non avete avuto tempo e modo di informarvi?

Il Sì vi tenta perché in fondo sono brutti e cattivi e punire tutti i parlamentari è cosa buona e
giusta perché se lo meritano?
Facciamo ordine.

Sappiamo che quella del taglio dei parlamentari sia una battaglia storica del Movimento 5
stelle, ma a volte è difficile vedere altro al di fuori della richiesta esclusivamente ideologica
che propongono. Spieghiamo quindi alcune delle motivazioni che ci fanno convintamente
votare NO al Referendum costituzionale.

Minore rappresentatività
Quando viene tagliato il numero dei rappresentanti in Parlamento, ma il numero dei
rappresentati non varia, si ha una riduzione di rappresentatività. Se il taglio venisse
confermato quindi ogni elettore italiano eserciterebbe una minor influenza col proprio voto su
ogni singolo deputato o senatore.
Oggi abbiamo un deputato ogni 96 mila abitanti e un senatore ogni 188 mila abitanti. Con il
taglio ci sarebbe un deputato ogni 151 mila abitanti e un senatore ogni 302 mila.
Questa riduzione altera moltissimo i meccanismi di rappresentanza, senza in alcun modo
migliorare le qualità e tempistiche per la formazione ed approvazione delle leggi che
resterebbero come sono, lunghissimi. Portiamo anche alcuni dati a livello regionale,
l’Abruzzo perderà il 38,10 per cento della rappresentanza in Parlamento, il Friuli Venezia
Giulia il 40 per cento, la Basilicata addirittura il 46 per cento. Questo non farà che aumentare
il divario tra la politica e l’elettorato, seppur c’è da dire che rimarremmo nella media europea.

Risparmio irrisorio
Quante volte abbiamo sentito parlare della necessità di ridurre gli altissimi costi della
politica? Innumerevoli. Secondo l’Osservatorio dei conti pubblici italiani di Carlo Cottarelli, i
risparmi sarebbero non di 100, ma di 57 milioni l’anno, vale a dire una cifra nettamente
inferiore a quella enfatizzata dai sostenitori della riforma, pari allo 0,007 per cento della
spesa pubblica italiana. Dividendo il risparmio annuo per tutta la popolazione italiana,
l’Osservatorio ha fatto sapere che si tratterebbe dell’equivalente di un caffè (95 centesimi)
all’anno per ciascun italiano. Qualcuno potrebbe pensare che il risparmio va sempre bene,
ma forse stavolta non ne vale tanto la pena.

A quando la legge elettorale?
Come sappiamo è una riforma che nasce dalla storia e dalle battaglie del Movimento 5
stelle. Con un accordo di governo il Partito Democratico ha promesso di sostenere la causa
in cambio di alcuni interventi, quali una nuova legge elettorale (sistema proporzionale con
sbarramento al 5%) e riforme costituzionali (modifica della base elettorale per il Senato ed
equiparazione dell’elettorato attivo e passivo tra le due Camere), giustificandolo con “è punto
di partenza di un processo riformatore”. Interessante anche la proposta di reintrodurre le preferenze di Giuseppe Brescia, deputato del M5S. Nei sondaggi di opinione commissionati
a vari istituti è infatti emerso che una percentuale maggioritaria degli italiani vorrebbe la
reintroduzione delle preferenze nel nuovo disegno di legge elettorale, in quanto garantirebbe
una maggiore partecipazione dell’elettorato al processo decisionale. Il piano del Segretario
dei Dem era quello di avviare un percorso parallelo tra legge elettorale e taglio dei
parlamentari. Purtroppo non sarà così.

Le Commissioni parlamentari
La vera vita legislativa e politica avviene nelle commissioni parlamentari. Spesso si fa
l’errore di pensare che avere meno parlamentari servirà a rendere il Parlamento più
efficiente. Ma i lavori delle commissioni non saranno affatto facilitati, sotto il profilo
dell’organizzazione delle Camere, ma è soprattutto la composizione delle commissioni
parlamentari permanenti a destare preoccupazione. Le commissioni sarebbero articolate da
26-36 esponenti alla Camera e da 13-16 componenti al Senato. Così composte verrebbe
meno la rappresentanza di tutti quei gruppi politici piccoli, caratterizzati da un numero di
membri inferiore a quello delle Commissioni. In particolare, ai gruppi politici di opposizione
sarebbe preclusa l’attuazione delle proprie funzioni informative, ispettive e di controllo.

Taglio dei parlamentari ≠ superamento del bicameralismo
Una caratteristica elettorale di questo appuntamento referendario è che riesce a mettere
d’accordo – sul No – il più temerario difensore della Costituzione italiana con chi era
d’accordo con la riforma di Renzi del 2016. Il che non è poco.
Questo ci racconta che tagliare il numero dei parlamentari in entrambe le camere ha ben
poco a che fare con il superamento del bicameralismo perfetto e quindi con una (forse
auspicabile) riforma strutturale dell’iter legislativo. Quanto proposto da questa riforma, è un
taglio netto, orizzontale, che non garantirà in nessun modo maggiore agilità al
funzionamento delle Camere.

Quantità è diverso da qualità, ridurre il numero non aumenterà la qualità dei
restanti parlamentari

Sfatiamo un mito. Il taglio dei parlamentari non aumenta l’autorevolezza dei politici e non
garantisce una rappresentanza di qualità. La competenza e l’esperienza di un politico non
avranno maggiore peso se ci sono meno poltrone da riempire. Quantità è diverso da qualità.
Siamo noi ad avere la responsabiità, in quanto elettori, di scegliere e votare
coscienziosamente. Sta a noi pretendere di più dalla nostra classe politica e da chi ci
rappresenta. Scegliere meglio, non scegliere meno.

In conclusione, ostacolare questo tentativo non ci impedirà di scegliere – se non proporre –
riforme migliori in futuro. Il risparmio, poco, non vale lo squilibrio rapresentativo. Il taglio non
punirà i politici che non ci piacciono, probabilmente renderà più difficile a quelli che
preferiamo prendere parte alla vita parlamentare. L’approccio qualunquista non può essere
a capo di un cambiamento sostanziale come quello proposto da questa riforma. Riteniamo
quindi che votare No sia un rifiuto alla cultura populista della semplificazione.

Bianca Motawi

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God save the House

Boris Johnson ha chiuso il Parlamento del Regno Unito per poter concludere questo dramma shakespeariano della Brexit il 31 ottobre 2019, con o senza accordo (il famoso no-deal) in un atto che è stato definito un attacco vero e proprio ai principi costituzionali britannici.

Posta in questi termini, può sembrare a tutti gli effetti un coup d’état, un golpe della peggior specie, quello che dovrebbe portare le persone nelle piazze per dare fuoco ad un pupazzo con le fattezze di Johnson davanti le porte del Parlamento il 5 novembre. Non è esattamente così.

La chiusura del Parlamento è in realtà una pratica abitudinaria nel Regno Unito che simboleggia la chiusura di una sessione dei lavori della Camera dei Comuni, una breve pausa nella quale si cessano i lavori che poi verranno ripresi successivamente con l’inizio di una nuova sessione. Generalmente la sessione dura un anno e questa chiusura avviene verso autunno. Quest’azione è definita Prorogation. Esso prende la forma di un annuncio, per conto della Regina, letto sia alla Camera dei Lord che alla Camera dei Comuni dai rispettivi Speaker. In questa dichiarazione vengono elencate le leggi e gli atti che sono stati approvati nella sessione in conclusione. Completato il rituale, le Camere vengono sospese fino alla loro ripresa successiva, definita State Opening. 

Lo State Opening invece segnala la ripresa dei lavori. È un momento molto importante e solenne, nel quale la Regina veste la corona e gli abiti da cerimonia e si presenta all’interno della Camera dei Lords. I deputati della Camera dei Comuni attendono invece seduti nella rispettiva sala in attesa che il funzionario della Regina li vada a chiamare. Questi viene definito Black Rod e trova davanti a sé la porta dei Comuni chiusa: questo è un simbolo che deriva direttamente dalla guerra civile per sottolineare l’indipendenza del Parlamento dalla Corona. Il Black Rod bussa tre volte prima che la porta gli venga aperta. Alla sua entrata, invita i Membri del Parlamento a seguirlo e assieme a loro si avvia verso la Camera dei Lords per ascoltare il discorso di Sua Maestà. Questo è l’unico momento regolare in cui le tre parti costituenti il Parlamento sono riunite assieme: Sovrano, Camera dei Lords e Camera dei Comuni. Qui, la Regina legge il discorso che il governo stesso ha preparato, nel quale andrà ad elencare le future azioni che l’esecutivo intende attuare nella prossima sezione. Terminata la lettura, la Regina si riavvia verso Buckingham Palace e le Camere iniziano ufficialmente i lavori della nuova sessione.

Questo è quello che è sempre avvenuto nel Parlamento Inglese e quello che avverrà anche quest’autunno. Ma cos’è allora che genera così tanto clamore?

Le date per la chiusura e la riapertura del Parlamento sono stabilite dal Consiglio Privato di Sua Maestà che è formato da alcuni membri del governo. Da luglio 2019, il Conservatore Jacob Rees-Mogg ne è il Presidente come rappresentante dell’esecutivo Johnson. Generalmente il lasso di tempo che passa dalla Prorogation fino alla State Opening  è di pochi giorni, una settimana. 

Il problema è che Johnson ha deciso di prorogare il Parlamento per ben cinque settimane, la tempistica più lunga di questa sospensione dal 1945. Tutto ciò accade proprio a ridosso di uno degli eventi più importanti della Storia del Regno Unito, il 31 ottobre 2019, giorno nel quale la Gran Bretagna dovrebbe uscire dall’Unione Europea definitivamente. Boris Johnson ha dichiarato che è intenzionato a far uscire i britannici a tutti i costi entro la data stabilita, con o senza accordo (no-deal). Il Parlamento si è più volte espresso in maniera contraria a questa visione, ponendosi a garante di una fuoriuscita molto meno traumatica. Questa chiusura del Parlamento è però un ostacolo molto importante: secondo questa calendarizzazione, la Camera dei Comuni potrebbe riprendere i suoi lavori solamente il 14 ottobre, con soli 17 giorni di tempo prima dell’uscita, rendendo complicata se non impossibile qualunque azione volta a bloccare le mosse del governo, anche nella speranza di poter posticipare l’uscita per lavorare su un nuovo accordo. Tutto ciò è stato chiaramente dettato dell’intenzione di Johnson di impedire che il Parlamento possa interferire con la sua visione di una hard Brexit, tagliando di fatto le gambe all’organo legislativo in qualunque sua contromossa e minando a tutti gli effetti la funzione dell’organo rappresentante il popolo britannico.

Lo Speaker della Camera dei Comuni, John Bercow, ha definito questo “un affronto alla democrazia parlamentare” e “un’offesa ai principi costituzionali”. Jeremy Corbyn, leader dei laburisti, ha richiamato l’opposizione ad un’azione coesa e alimentato le proteste dei cittadini infervorati per quest’azione politica. Oggi, centinaia di migliaia di persone sono attese nelle piazze di Londra per protestare contro una delle mosse politiche più scorrette che il Regno Unito abbia visto negli ultimi tre anni di Brexit. Anche dai ranghi dei Conservatori la situazione non sembra delle più rosee, con il leader dei Conservatori scozzesi, Ruth Davidson, che annuncia le sue dimissioni immediatamente dopo la decisione della Prorogation contro la prospettiva di una no-deal Brexit portata avanti dal Primo Ministro.

Ciò che ha deluso inoltre molti sostenitori di Sua Maestà è che la Regina avrebbe potuto opporsi a questa proposta e rifiutare una tale Prorogation, che invece è stata accettata come di regola, permettendo a Johnson di portare avanti le azioni del governo per più di un mese completamente svincolato dal Parlamento. Questa scelta di seguire l’esecutivo in questa decisione potrebbe far vacillare ulteriormente il ruolo della Corona nell’opinione pubblica inglese, con una crescente fetta di popolazione all’interno del Regno Unito sempre più anti-monarchica e che non vede più tanto di buon’occhio il ruolo del Sovrano.

Sull’orlo della fine delle trattative Brexit durate più di tre anni, appare davanti il Regno di Sua Maestà un futuro ancora più incerto e probabilmente segnato da molte divisioni interne, soprattutto nel qual caso la Gran Bretagna dovesse uscire senza accordo, con un rischio di un collasso della sterlina, già ai minimi storici, una guerra civile in Irlanda al confine tra le due parti e un isolamento molto maggiore di quello a cui sono abituati i cittadini inglesi, oramai lontani dai tempi dell’Impero Britannico e sempre più vittime di una nostalgia imperialista che rischia di portare a fondo con sé anche la Corona, in un baratro che appare sempre più vicino all’approcciarsi del 31 ottobre. 

Probabilmente, nel Regno Unito, Halloween non ha mai fatto fatto così paura come adesso.

 

Matteo Caruso


Sitografia

Foto Ansa/Ap ©

Oligarchia, alleanze improvvise e tentativo di colpo di stato… cosa sta accadendo in Moldavia?

La Repubblica di Moldova in questi giorni sta attraversando uno dei momenti più difficili della sua storia. Da anni questo paese è rappresentato dalla stampa internazionale come uno stato tra i più poveri d’Europa e alla mercé del leader del partito democratico (PDM) Vlad Plahotniuc. Questo personaggio detiene il potere (Corte Costituzionale, Procura, Polizia, Mass Media) grazie a una tecnica ad hoc: assicurarsi il potere tramite la minaccia esplicita di far muovere dossier compromettenti da parte degli organi di Giustizia, da lui stesso controllati, nei confronti di funzionari pubblici che detengono i posti chiave nell’amministrazione dello stato. Quindi gli stessi funzionari pubblici – e non – sono obbligati a subordinarsi ai suoi ordini, per non perdere il posto di lavoro e fare i conti con la giustizia.

Con questo metodo ha controllato il governo e la maggioranza del parlamento fino alle elezioni parlamentari del 24 Febbraio 2019, anche se fino a quel momento “ufficialmente” conosciuto come una persona esterna al processo politico. Così facendo ha esteso la sua influenza con la nomina di parenti stretti o persone fidate persino nella Corte Costituzionale (2018), nel Parlamento e in altre istituzioni di spicco tra cui i servizi segreti e l’organo abilitato all’anti-corruzione. Di fatto ha spianato la strada verso la conquista “legale” del potere, come leader del suo partito, tramite le elezioni parlamentari di febbraio di quest’anno.

Con le elezioni parlamentari del 24 febbraio si aggiudica un seggio al parlamento e il suo partito risulta essere al secondo posto con 30 seggi, dopo il Partito dei Socialisti della Moldova (PSRM) con 35 Seggi e la coalizione pro-europeista ACUM con 26 Seggi.  Dopo circa tre mesi da queste elezioni non si è giunti ad un accordo e quindi non si è creata la maggioranza parlamentare necessaria in grado di formare un governo. Fino all’8 giugno, quando è successo un fatto che ha sorpreso tutti.

Il partito socialista di Igor Dodon (che è anche il Presidente della Repubblica), insieme alla coalizione ACUM tra partiti di centrodestra europeisti e anticorruzione, guidati da Maia Sandu, sono riusciti a trovare un accordo per formare il governo. Questo è stato uno sviluppo inaspettato, perché sono due partiti di orientamenti completamente opposti, senza contare che tra i due leader c’è stata un’aspra competizione nel 2016, dopo che si sono sfidati alle presidenziali dove è risultato vincente Dodon di appena 80.000 voti, accusato dalla stessa Maia Sandu di aver diffuso notizie false e diffamanti sul suo conto e di aver usato i media filorussi nella campagna elettorale.
Hanno accettato di allearsi con l’unico scopo di escludere dal governo il partito di Vlad Plahotniuc, riuscendo ad ottenere così la maggioranza con 61 deputati su 101, la nomina di un nuovo Presidente del Parlamento e delle Commissioni Permanenti, la nomina di Maia Sandu come Primo Ministro e quindi di un nuovo esecutivo, come anche la nomina di nuovi funzionari per il Centro anti Corruzione ed altri. Questo incontro si è svolto in un modo molto spartano, poiché il segretario del Parlamento non si è presentato al lavoro. È stata tolta la luce intenzionalmente all’intera rete del Parlamento, senza contare che c’è stato anche un allarme bomba in precedenza dato dalle forze dell’ordine. Tutto questo solo per rallentare i lavori o fermarli completamente. A questo incontro anche i rappresentanti diplomatici hanno avuto difficoltà ad accedere alla struttura, come nel caso dell’ambasciatore Ue a Chisinau, Peter Michalko.

Russia, Unione Europea e Stati Uniti si sono espressi a favore della nuova coalizione già dall’incontro avvenuto a Chisinau lo scorso 3 giugno tra i principali rappresentati esteri, quando forse per la prima volta nella storia sono riusciti a trovare un’intesa sull’argomento.

Vlad Plahotniuc attualmente detiene il controllo della Corte Costituzionale e degli organi giuridici del paese, come il controllo della polizia e dei Mass Media, soprattutto tv. Tutti questi mezzi sono risultati vincenti per una mobilitazione di persone esortate a uscire e protestare, poiché le stesse persone mobilitate escono sotto la minaccia della perdita del lavoro o degli alloggi per gli studenti. Già da sabato sera le mobilitazioni erano effettive, poiché si vedevano già le prime tende installate davanti alle diverse istituzioni, dove il nuovo governo avrebbe dovuto cominciare il suo lavoro lunedì 10 Giugno. Da notare che la polizia (diversamente dal solito), non ha fatto resistenza rispetto ad altre proteste come quella di Petrenco di qualche anno fa davanti alla Procura Generale, o quella del 26 agosto 2018 dove ha immediatamente evacuato e arrestato i manifestanti, perfino gli stessi Maia Sandu e Andrei Nastase, leader della coalizione pro-europeista ACUM. Si evidenzia come i vari funzionari pubblici non si siano ancora subordinati agli ordini del nuovo governo, ma eseguono gli ordini del vecchio governo di Plahotniuc. Lo stesso Igor Dodon e Maia Sandu chiedono che ci sia una transizione pacifica dei poteri dello stato al nuovo governo.

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Il 9 giugno la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la plenaria del primo Parlamento e la formazione del governo di Maia Sandu del giorno precedente, una sentenza che è stata decretata in un modo sorprendentemente veloce. La stessa Corte ha investito l’ex Primo Ministro del governo di Plahotniuc, Pavel Filip, come Presidente della Repubblica, che a sua volta ha firmato il decreto per lo scioglimento immediato del Parlamento, stabilendo inoltre la data delle prossime elezioni anticipate per il 6 settembre, che è un venerdì e non una domenica come da prassi in Moldavia. Il nuovo governo di Maia Sandu e il Presidente della Repubblica Dodon hanno dichiarato a loro volta l’invalidità dell’investitura del Presidente Filip dalla Corte Costituzionale, poiché la stessa Corte è sotto l’influenza diretta di Vlad Plahotniuc, e quindi ogni decisione da essa presa sarebbe invalida. Su questa posizione è d’accordo l’intera comunità internazionale, tra cui fino ad oggi Unione Europea, Russia, Stati Uniti, Romania, che riconoscono il governo di Maia Sandu come quello legittimo, come lo stesso Presidente della Repubblica Igor Dodon e il Parlamento eletto il 24 febbraio 2019.

In questo giorno Vlad Plahotniuc ha mobilitato molte persone dall’intera Moldavia, sempre con le stesse minacce, ad una grande protesta nel centro della capitale partecipando egli stesso alla manifestazione (mai accaduto) e atteggiandosi da salvatore della patria e inneggiando ad una condanna ai traditori che hanno fatto la coalizione. Per la prima volta sono stati “lanciati” dei tacchini (alcuni vivi, alcuni morti) come atti intimidatori oltre la recinzione della sede del Palazzo del Presidente della Repubblica, soprattutto nei confronti del Presidente della Repubblica che è stato costretto a far ospitare la sua famiglia nell’ambasciata russa per precauzione. Il gesto è stato condannato da un’associazione animalista, ma che comunque pone molti interrogativi su un metodo che è usato principalmente da cosche e Mafia, non da rappresentanti di un partito.

I 61 Deputati che adesso detengono la maggioranza in Parlamento vengono minacciati continuamente già dalla formazione del nuovo governo, principalmente con dossier compromettenti nei loro confronti e dei loro familiari. Per il momento nessun atto intimidatorio così forte è stato fatto nei loro confronti o ai loro parenti, ma si attendono vicissitudini importanti nelle giornate a venire.

In questo momento storico la Moldavia chiede il sostegno di tutta la comunità internazionale, contro questo abuso verso i diritti umani e il tentativo di una minoranza di accaparrarsi il potere e attentare direttamente al sistema delle democrazie liberali.

Dan Munteanu


SITOGRAFIA