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Il fiore del mio segreto

Leocadia Macìas (Marisa Paredes) è la protagonista del film che precede immediatamente l’opera della svolta di Almodovar, cioè Carne tremula del ‘97. Il regista costruisce sulla sua interprete Il fiore del mio segreto, che vale forse più come magazzino di idee e spunti che come film in sé. Continua a leggere

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A volte ritornano: Volver

Almodóvar parla meglio di sé quando si nasconde. Volver è un film dove l’Io del narratore è fatto a pezzi e usato come struttura portante: c’è più sincerità autobiografica nei fatti minimi che costellano le vicende della trama, nei rapporti, nei dettagli delle scene che in tutto Dolor y gloria.

Tutta la storia vive del contatto quotidiano del regista con il mondo femminile, riceve la linfa dai dialoghi che tradiscono più di quanto dicano. È una storia di provinciali, che si dividono tra una Madrid periferica ed il paese natìo. Raimunda (Penelope Cruz), sua sorella Soledad (Lola Dueñas) e la figlia della prima, Paula (Yohana Cobo), sono originarie di Alcanfor de las Infantas nella Mancha, dove non mancano mai il vento e la follia.

Si portano dietro affetti intensi e dolorosi, un passato di violenza incestuosa che si ripete come se fosse una riemersione del rimosso. Il trauma ripetuto, quasi un’opera di sciamano, sembra rievocare un fantasma benigno che ha il sorriso ironico e la sensibilità dell’Irene di Carmen Maura.

Il riferimento a Mildred Pierce, fatto dallo stesso regista, sfiora appena il film, non lo definisce se non in superficie. Citazioni assai più importanti, già a livello visivo, sono quelle che portano Almodóvar ad incorniciare nel contesto trash della tv il viso di Blanca Portillo come una Giovanna d’Arco di Dreyer o d’inquadrare nonna Irene e la nipote Paula con un taglio perpendicolare alla Bergman.

C’è il sospetto, vedendolo, che questo sia uno dei pochi film di Almodóvar destinati a durare la prova del tempo. È pure più bello di Tutto su mia madre: in quel film si sentiva ancora il bisogno di esprimere una diversità, un bisogno, che è tipico degli adolescenti, di distaccarsi da una tradizione, di prendere partito; in Volver gli affetti e le passioni dominano con una simbologia serena, un’ideologia forte della propria naturalezza, hanno davvero una grazia primitiva.

Il passo qui scorre limpido: lo si sente dalla facilità con cui le parole rendono perfettamente l’ambiente sociale delle protagoniste e le fanno muovere tra gli spazi e i ricordi. Trasportare il film in Italia non sarebbe difficile, proprio per quel sapore mediterraneo delle tradizioni che il film mostra con padronanza e disinvoltura.

Al contempo però, è incredibilmente spagnolo senza accarezzare l’idea del pittoresco e del turistico. Merito sommo del regista è di aver scelto i visi giusti: le sue protagoniste furono premiate a Cannes insieme alla sceneggiatura. La Cruz, che avrebbe poi vinto l’Oscar grazie a Woody Allen, perse la nomination con una stella che in un altro festival (Venezia) aveva fatto centro: Helen Mirren, che brillava in The Queen di Stephen Frears, film non alla sua altezza ma scrittole su misura.

Antonio Canzoniere

 

Dolor y gloria

Almodóvar ritorna in sala giocando le carte del passato: il re di cuori sul tavolo è Antonio Banderas, uno dei suoi attori-feticcio degli anni ‘80, ritornato già nel 2011 sotto la regia del suo scopritore in La pelle che abito.

Ora è la volta di Dolor y gloria già in sala dal 17 maggio, in cui la lezione di 8 1/2 è più che esplicita: Almodóvar ha creato su misura per Banderas il ruolo del regista Salvador Mallo, suo Guido Anselmi, caricandolo di malattie, inquietudini e dipendenze. Il Pedro nacional è un grande cinefilo e sfrutta a pieno la retorica della settima arte come salvezza, unica via di espressione e riconciliazione con sé stessi e gli altri.

La base del film è questa, intrecciata con un autobiografismo sornione che sa quali tasti premere, a cosa appellarsi per raccontare il malessere dell’artista. Il problema è che questa traccia non è stata creata da Almodóvar e sempre più si ha il sospetto che gli emuli di Fellini si rifacciano all’esempio del mitico riminese in assenza di alternative.

A questi seguaci mancano però la levità quanto la capacità di costruire una narrazione senza scadere nel manierismo. Il senso di dejà-vu è forte, in Dolor y gloria: se il film è amabile, lo è a tratti, perché risultano interessanti dei pezzi sparsi in un film che punta più al testo che non all’immagine.

Lo stile si fa semplice, controllato, a volte freddo e laddove il regista potrebbe caricare l’importanza o certe emozioni di alcune scene (come nei flashback che flashback non sono), i toni chiari di Alcaine ostacolano l’empatia con una secchezza anche eccessiva dei posizionamenti di camera.

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Banderas conferma le sue qualità di attore: le dimostra nei passaggi tra le sfumature, nel mantenimento di un fascino da divo che non si perde nemmeno nei momenti più antipatici del personaggio.

Come gli altri attori, che pur non sono al suo livello, è servito male da dialoghi che sarebbero stati più adatti ad un romanzo che ad una sceneggiatura. Resta il fatto che la ricostruzione del passato di Salvador è effettivamente la parte più riuscita, quella dove si percepiscono di più le note della tenerezza, della malinconia: sono scene dove tutto è all’inizio e tutto è già chiaro, per il piccolo e colto sognatore.

Sarà anche per il fatto che è in quei ricordi ricostruiti che il tono didascalico del resto del film è attenuato. Almodóvar si mette in mostra riguardandosi, trasformando e dilatando ricordi ed esperienze filmiche passate, ma non rimane che la maniera mischiata all’astuzia. C’è, alla fine dei conti, poco dolore nel film, cui di certo non è mancata gloria: basti vedere il successo di critica e botteghino per farsi un’idea.

Antonio Canzoniere