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Umile recensione del primo libro di Paolo Palladino, “L’amore è uno stato d’alcol”

Quando ho deciso di scrivere un’umile recensione sul libro di Paolo Palladino, non ero certa di riuscire ad esprimere compiutamente a parole quello che ho provato nel leggerlo, l’emozione di sapere che si trattava del frutto del lavoro poetico di un ragazzo della mia età, che stimo e di cui apprezzo da sempre la scrittura. Mi sono ripromessa, pertanto, di restare oggettiva e analizzarlo come si trattasse di una delle raccolte poetiche che ho avvicinato nel corso degli anni. Ho iniziato a leggerlo a marzo, mentre si stavano avvicinando la primavera, le giornate miti, e l’odore dei fiori, e forse è anche per questo che mi è sembrato essere una carezza. Paolo mi ha consigliato di leggere tre o quattro poesie alla volta, così da poterle apprezzare un po’ alla volta, senza divorare il libro, e così ho fatto. 

L’amore è uno stato d’alcol, edito dalla casa editrice Edizioni Efesto, è una raccolta di poesie, la prima raccolta di poesie di Paolo, che, precisamente, ne contiene 38. Inizialmente ho curiosato nell’indice, come piace fare a me, per leggere i titoli. Alcuni di essi sono più canonici e fanno pensare ad una scrittura romantica e tradizionale, come Se per ogni volta che ti penso, Amara pioggia, Prima di liberare la tua voce; altri invece, più freschi e ironici, come Mojito ito, Checkpoint Charlie Chaplin, Non so scrivere poesie d’amore. In realtà, Paolo le sa scrivere eccome le poesie d’amore, e questo libro ne è la dimostrazione. Andando avanti con la lettura ho potuto individuare due filoni di scrittura. Uno più pensato, basato sui giochi di parole che tanto piacciono a Paolo, e su rimandi ai grandissimi scrittori, come Baudelaire e Francis Scott Fitzgerald:

«Maudite la nuit / Diable en peluche
Il buio è tua assenza e non quella di luce
Ma tenera è la coltre
che stempera la tenebra,
Ogni stella è un albatro che strappa
i fiori del mare di tormenti.»

Maudite la nuit

L’altro filone, più libero, spontaneo, quasi come se ad esprimersi fosse il Paolo bambino:

«Se un giorno non potremo più guardarci negli occhi
ci incontreremo là
dove volano gli ornitorinchi.»

Dove volano gli ornitorinchi

La cosa bella è che, in questa raccolta, l’amore è descritto in tutte le sue facce, come se, in preda ad “uno stato d’alcol”, Paolo le avesse viste tutte, e ce ne potesse ora riportare una testimonianza. L’amore come attesa perenne di chi ama e non è più ricambiato:

«Ma forse non eri te,
il suo sorriso era un taglio
e il suo braccio tutta una cicatrice
Una Triste mietitrice
che ha giocato con la falce
Il suo bacio bruciava come calce,
il tuo sguardo è più terso
Ora che ci penso probabilmente era tutto diverso.
L’attesa però è proprio questa
Identica
È sempre lo stesso il peso nel cuore di chi aspetta.»

In questo stesso posto, in questa stessa ora

L’amore dei fraintendimenti:

«Non so dirti di preciso quando ci sia entrato, mi sia trovato perso.
Forse un tuo sguardo, un tuo cenno d’assenso,
un tuo nulla che per me valse ogni parola, ogni promessa, ogni nave persa
e mai più tornata aspettando
qui invano di trovare la strada
per giungere a te.»

Alla piantata di Nasso

Ma anche l’amore delle coincidenze, delle promesse fatte e poi disfatte, l’amore dichiarato ma non recepito. La paura di cogliere “il loto sfiorito nel momento in cui sboccia”, o di “perdersi varcando la soglia di casa” (Danza macabra).

Alla fine è vero, come dice Paolo che “l’amore è verbale”, e io ho visto il cuore laddove c’è soltanto un verbo. Nell’attesa del prossimo libro di Paolo, consiglio a tutti di leggere questo, non ve ne pentirete.

                                                                                                                      Giorgia Andenna

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Ti ringrazio, Antonia, «anima palpitante, ridente, nostalgica e appassionata» della poesia italiana

È strano come alle volte ci imbattiamo in qualcosa che non ci saremmo mai aspettati di scoprire, proprio nei luoghi più impensabili, nelle situazioni più ordinarie. Nel mio caso, ho conosciuto Antonia Pozzi in un banale pomeriggio primaverile all’Università della Terza Età. Ebbene sì,  accompagnando mia nonna più per amore che per interesse, ho avuto la fortuna di assistere ad una lezione incentrata su una poetessa (semi) sconosciuta di Milano, vissuta nella prima metà del novecento. 

Come introdurre un personaggio del genere? Beh, Antonia Pozzi è il soggetto perfetto per un film biografico, uno di quelli in costume che mi fanno impazzire, con Keira Knightley ad interpretarla e una fotografia dai colori pastello (“Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino potrebbe essere un esempio).

Nasce in una famiglia della Milano bene, il padre è un facoltoso avvocato, la madre ha il sangue blu e una dote cospicua. Conduce una vita perfetta, fatta di cultura, viaggi e sport che solo le signorine di una certa elevatezza sociale possono permettersi. Fin da subito risulta portata per la scrittura e riempie diari interi di pensieri e versi; pare aver assorbito come una spugna il fermento culturale della sua epoca e così compone con disarmante naturalezza poesie che risentono dello stile crepuscolare, introspettive ed ermetiche, che però, al contempo, sono forti come quei sentimenti angosciosi propri dell’espressionismo tedesco, specie per quel mal di vivere che colpisce i giovani. Del resto, il male di vivere e la morte sono temi ricorrenti nelle pagine di un’adolescente un po’ asfittica, timida, che sogna in una gabbia d’oro di potersi perdere tra le montagne di Pasturo, Lecco. 

Gioia di cantare come te, torrente;
gioia di ridere
sentendo nella bocca i denti
bianchi come il tuo greto;
gioia d’essere nata
soltanto in un mattino di sole
tra le viole
di un pascolo;
d’aver scordato la notte
ed il morso dei ghiacci.

Il grande Thomas Stearne Eliot ne apprezzerà «la purezza e l’onestà d’animo» che non può non emergere da delle poesie così acerbe, una sorta di escamotage per cogliere il senso delle cose che, come da manuale, sfugge sempre. Non è un caso che ci sia qualcosa di incompleto nella vita come nei versi di Antonia, un’incompiutezza che la rende ancora più attiva e prolifica nei suoi splendidi vent’anni. Ho sempre pensato che la poesia nascesse da qui, da un sentimento non ben identificato di nostalgia, di tensione, di ricerca, forse quell’Eros di cui parla Platone o se vogliamo rimanere sul quotidiano, quella sensazione che si ha quando un amore non è stato ancora palesato, ma si intuisce. Questo strano moto, forse, ha condotto la giovane poetessa a cercare nella realtà ciò che riusciva a delineare nella mente, nei versi delle sue poesie. 

Dopo un amore spirituale, ambiguo e contemporaneamente morboso con il suo insegnante di Latino e Greco del Liceo, un certo Antonio Maria Cervi, Antonia non riesce a far breccia nel cuore di nessuno e quell’incompiutezza divenne fossile, greve come un macigno sul suo petto. Montale d’altro canto, definirà le sue parole come “asciutte e dure come i sassi”. Ciò che mi ha più colpito di questa giovane donna è la consapevolezza dei suoi stati d’animo, della sua condizione, del suo essere mancante, desiderosa di amore, così come risulta evidente in questa poesia. 

Guardami: sono nuda. Dall’inquieto
languore della mia capigliatura
alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
palpito azzurro sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m’inarco nuda, nel nitore
del bagno bianco e m’inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.

A scuola non si cita nemmeno, in libreria ci sono pochissime antologie, i suoi testi sono ancora oggetto di lunghe indagini filologiche e di archivio, e non importa se è colpa di una famiglia che ha cercato di mascherare il suo suicidio a soli ventisei anni, assieme ai suoi versi più espliciti sull’amore e sulla morte, Antonia c’è stata e rimarrà sempre una voce chiara e limpida della lirica del suo secolo. 

La ringrazio per avermi insegnato che la letteratura va oltre il Baldi, il Luperini o la prima prova d’esame “bossettico”, perché non ci sono solo categorie dove accatastare tutti gli autori da portare all’esame, ci sono storie e parole che valgono la pena di essere conosciute. 

Iris Furnari