È strano come alle volte ci imbattiamo in qualcosa che non ci saremmo mai aspettati di scoprire, proprio nei luoghi più impensabili, nelle situazioni più ordinarie. Nel mio caso, ho conosciuto Antonia Pozzi in un banale pomeriggio primaverile all’Università della Terza Età. Ebbene sì, accompagnando mia nonna più per amore che per interesse, ho avuto la fortuna di assistere ad una lezione incentrata su una poetessa (semi) sconosciuta di Milano, vissuta nella prima metà del novecento.
Come introdurre un personaggio del genere? Beh, Antonia Pozzi è il soggetto perfetto per un film biografico, uno di quelli in costume che mi fanno impazzire, con Keira Knightley ad interpretarla e una fotografia dai colori pastello (“Antonia” di Ferdinando Cito Filomarino potrebbe essere un esempio).
Nasce in una famiglia della Milano bene, il padre è un facoltoso avvocato, la madre ha il sangue blu e una dote cospicua. Conduce una vita perfetta, fatta di cultura, viaggi e sport che solo le signorine di una certa elevatezza sociale possono permettersi. Fin da subito risulta portata per la scrittura e riempie diari interi di pensieri e versi; pare aver assorbito come una spugna il fermento culturale della sua epoca e così compone con disarmante naturalezza poesie che risentono dello stile crepuscolare, introspettive ed ermetiche, che però, al contempo, sono forti come quei sentimenti angosciosi propri dell’espressionismo tedesco, specie per quel mal di vivere che colpisce i giovani. Del resto, il male di vivere e la morte sono temi ricorrenti nelle pagine di un’adolescente un po’ asfittica, timida, che sogna in una gabbia d’oro di potersi perdere tra le montagne di Pasturo, Lecco.
Gioia di cantare come te, torrente;
gioia di ridere
sentendo nella bocca i denti
bianchi come il tuo greto;
gioia d’essere nata
soltanto in un mattino di sole
tra le viole
di un pascolo;
d’aver scordato la notte
ed il morso dei ghiacci.
Il grande Thomas Stearne Eliot ne apprezzerà «la purezza e l’onestà d’animo» che non può non emergere da delle poesie così acerbe, una sorta di escamotage per cogliere il senso delle cose che, come da manuale, sfugge sempre. Non è un caso che ci sia qualcosa di incompleto nella vita come nei versi di Antonia, un’incompiutezza che la rende ancora più attiva e prolifica nei suoi splendidi vent’anni. Ho sempre pensato che la poesia nascesse da qui, da un sentimento non ben identificato di nostalgia, di tensione, di ricerca, forse quell’Eros di cui parla Platone o se vogliamo rimanere sul quotidiano, quella sensazione che si ha quando un amore non è stato ancora palesato, ma si intuisce. Questo strano moto, forse, ha condotto la giovane poetessa a cercare nella realtà ciò che riusciva a delineare nella mente, nei versi delle sue poesie.
Dopo un amore spirituale, ambiguo e contemporaneamente morboso con il suo insegnante di Latino e Greco del Liceo, un certo Antonio Maria Cervi, Antonia non riesce a far breccia nel cuore di nessuno e quell’incompiutezza divenne fossile, greve come un macigno sul suo petto. Montale d’altro canto, definirà le sue parole come “asciutte e dure come i sassi”. Ciò che mi ha più colpito di questa giovane donna è la consapevolezza dei suoi stati d’animo, della sua condizione, del suo essere mancante, desiderosa di amore, così come risulta evidente in questa poesia.
Guardami: sono nuda. Dall’inquieto
languore della mia capigliatura
alla tensione snella del mio piede,
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
palpito azzurro sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m’inarco nuda, nel nitore
del bagno bianco e m’inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra,
starò, quando la morte avrà chiamato.
A scuola non si cita nemmeno, in libreria ci sono pochissime antologie, i suoi testi sono ancora oggetto di lunghe indagini filologiche e di archivio, e non importa se è colpa di una famiglia che ha cercato di mascherare il suo suicidio a soli ventisei anni, assieme ai suoi versi più espliciti sull’amore e sulla morte, Antonia c’è stata e rimarrà sempre una voce chiara e limpida della lirica del suo secolo.
La ringrazio per avermi insegnato che la letteratura va oltre il Baldi, il Luperini o la prima prova d’esame “bossettico”, perché non ci sono solo categorie dove accatastare tutti gli autori da portare all’esame, ci sono storie e parole che valgono la pena di essere conosciute.
Iris Furnari