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Seid, lo specchio di una società?

Seid Visin aveva poco più di vent’anni, viveva a Benevento e giocava a calcio.  

Una persona normalissima o almeno così pare. Un essere umano come tutti noi, né troppo simile, né troppo differente. Semplicemente un prodotto della società duemila. Seid nasce in Etiopia nel 2001, si trasferisce in Italia (precisamente Nocera, Salerno) da giovanissimo e sfoga la sua passione più grande: il calcio.

Abbandona così tutto quel poco che aveva: genitori, amici, parenti, scuola per giocare a calcio. Un amore incontrastato e che i genitori fortunatamente comprendono. Egli ama il calcio, lo sport più seguito in Italia e in Europa, lo sport più bello al mondo che unisce culture, continenti e mondi diversi. Il ragazzo non è malaccio e se la cavicchia discretamente, facendo provini per squadre dal calibro di Inter e Milan. Due potenze assolute del nostro calcio pronte ad accoglierlo.

All’Inter l’avventura non è particolarmente lunga, al Milan è diverso. Seid ha amicizie, nuovi compagni, un nuovo mister e soprattutto una nuova maglietta. Sarà rivelata una cosa: Seid è stato a lungo compagno di stanza di un certo Gigio Donnarumma, oggi portiere dello stesso Milan e della Nazionale. Ma qualcosa cambia. C’è qualcosa che cambia nell’aria e Seid lo percepisce. Diventato stretto amico di Mino Raiola che ad oggi è reputato come il procuratore calcistico più ricco al mondo, Seid vuole smettere di giocare a calcio e cade in un periodo buio pesto, oscuro e tempestoso. Sarà lo stesso Mino a confortarlo, rincuorarlo e ricaricarlo trasmettendo al giovane talento la grinta e la determinazione giusta per ricominciare.

Il baby Van Basten (era stato il secondo giovane più forte a passare così rapidamente i test abilità a Milanello) si lascia così trascinare dal procuratore-amico, che lo esorta ad avvicinarsi nuovamente alla famiglia. Alla tenera età di sedici anni, Visin è nuovamente nella sua regione d’adozione, questa volta però a Benevento e non nel salernitano. Più vicino alla famiglia, Seid prova a ripartire vestendo la maglia giallorossa della Strega e rilanciarsi nel calcio che conta. Ma nulla da fare anche in quest’occasione.

Dopo nemmeno sei mesi la decisione di smettere con il calcio professionistico e di concentrarsi solo ed esclusivamente al liceo. Un ambiente tossico o quasi, un ambiente che era considerato indigesto e semplicemente non adatto al sedicenne italo-etiope. Un contesto grande e complesso in cui Seid si sentiva troppo piccolo per farne parte. Sarà l’Atletico Vitalica a convincerlo nel ritornare alla pratica, almeno a livelli amatoriali. In maniera sciolta, senza pressioni né ambizioni, ma con talento, Seid era tornato a fare ciò che veramente gli piaceva. Finora una storia normalissima che però è macchiata da una lettera.

Una lettera datata febbraio 2019 e pubblicata dal “Corriere della Sera”, in cui il giovincello di Nocera esprimeva la propria amarezza, il proprio rancore e la propria tristezza nel vedere un ambiente che lo disprezzava perché non di pelle bianca, perché etiope o qualsiasi altra baggianata. «Ricordo che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, tutti si rivolgevano a me con gioia, rispetto e curiosità. Adesso sembra che si sia capovolto tutto». «Ero riuscito a trovare un lavoro», scriveva, «che ho dovuto lasciare perché troppe persone, specie anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non mi sentissi già a disagio, mi additavano anche come responsabile perché molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro».

Una lettera di due anni fa che fornisce tutte le indicazioni possibili per trovare la causa del suicidio avvenuto qualche giorno fa. Non secondo i familiari, convinti che il ventenne si sia suicidato per cause differenti dalle accuse razziste. Questo mai lo sapremo, ma di quello che siamo certi è che questa lettera sia stata composta per rabbia, sfogo e disperazione non contro un individuo, ma contro una società. Roberto Saviano scrive l’ennesimo messaggio contro Salvini e Meloni invitandoli a riflettere sulla questione razzismo e immigrazione. La pensa come Saviano qualche esponente di sinistra, diversamente qualcuno di destra, una via di mezzo altri ancora. Nemmeno in questa circostanza si riesce a trovare un punto in comune. Neppure di fronte alla morte di un ventenne che due anni fa denuncia di non essere incluso, di non essere accettato solo perché di un’altra carnagione.

Walter Izzo

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La crisi continua: il tramonto della rappresentatività politica italiana

Votare ai tempi del Covid. Quei tempi in cui ogni gesto che facevamo quasi in automatico ci
sembra un po’ meno scontato, figuriamoci quelli che già da tempo lamentavano una carenza di
senso.
Quei tempi in cui proprio quei gesti che manifestano segni di crisi andrebbero per primi
interrogati, ascoltati, risolti.
Dicevamo, votare. Ai tempi del Covid, ma già da un’era. Un gesto che appare a molti privo di
senso, perché incapace di incidere veramente sulla realtà.
Al di qua dei risultati (che spesso sono confusi con la realtà, appunto)- del referendum
costituzionale, delle regionali, dei passati, presenti e futuri appuntamenti elettorali- è evidente la
distanza che oggi separa l’apparato amministrativo del Paese, e la classe politica che lo popola,
dalla società civile.
Una distanza dalle origini lontane, che tanto il “populismo” consolidato quanto il “trasformismo”
riscoperto non fanno che velare, essendo entrambi modi di non-rappresentatività politica.
Da cosa deriva la “crisi della rappresentanza” della classe politica? C’è un’alternativa percorribile?
Sono domande fondamentali, che non possiamo ignorare o pensare di seppellire nelle urne,
perché solo la loro coscienza può far luce sull’abisso nel quale sprofondiamo.


Dal populismo al trasformismo e ritorno
Nel microcosmo Italia il rapporto tra società civile e classe politica si è rotto già da tempo, dal
cruciale 1992 almeno. E qui, da tempo, sono stati elaborati metodi politici capaci di sostituire la
rappresentatività.
Il figlio più illustre di questa stagione è il populismo ultra-contemporaneo, che al “popolo”
come massa indistinta e consenziente ha sostituito il Consumatore, soggetto collettivo
indifferenziato dotato di una volontà univoca e passiva (o re-attiva). Una reinterpretazione della
volontà collettiva di Rousseau in cui la volontà ha perso ogni razionalità, per divenire assenso
all’immagine proposta.
Il contatto politico della rappresentanza, fondato sul concetto di responsabilità o,
kantianamente, sul “rispetto” per il “dovere morale”, stabilisce un rapporto di attribuzione del
potere politico dagli individui alla classe politica, definendo il carattere repubblicano della “forma
di governo”: la costituzione repubblicana, nel pensiero illuminista, è quella che prevede una netta
distinzione dei poteri dello Stato, e non può fare a meno della rappresentanza, secondo Kant,
perché se così fosse assisteremmo all’assunzione di tutti i poteri da parte di un medesimo
soggetto politico. Se il popolo, sovrano in quanto legislatore, diviene anche esecutore, la forma
di governo è dispotica.

Ciò che che caratterizza il populismo è proprio questa- per il momento ancora virtuale-
assunzione della sovranità popolare, che sta nella facoltà dei cittadini di darsi le proprie leggi, tramite il Parlamento, da parte dell’esecutore governativo che si erge a incarnazione
della consensualità collettiva. Con risultato la perdita di autonomia della popolazione.
Quell’autonomia il cui esercizio, in sistemi politici complessi quali sono quelli moderni, è
possibile tramite il principio di rappresentanza.
Ma la “responsabilità” può essere infranta anche appellandovisi in nome della “ragion di
Stato”. Nasce, così, un altro abominio figlio del vuoto di rappresentatività politica italiano. Un
mostro per la verità antico, proveniente almeno dall’era dei primi vagiti dello Stato unitario: il
trasformismo.
Così definito dalle parole del suo più celebre interprete, Agostino Depretis, descrive una
strategia tesa a mantenere un certo asset istituzionale, internazionale e storico-politico
attraverso l’invenzione, da parte di un soggetto governativo immobile, di intese politiche e
commistioni anche contraddittorie e incoerenti. Un’applicazione circoscritta agli equilibri politici del motto del Gattopardo “cambiare tutto perché nulla cambi” che, piuttosto che interpretare
le rivoluzioni sociali, si assicura il controllo della sfera politica assicurandosi l’interesse della
maggioranza degli eletti. Anche a costo di dover modificare, in questo tentativo, lo statuto e gli
indirizzi del proprio schieramento.
Sono modalità collegate, molto spesso in reciproca dipendenza, emblematiche di una crisi che
esse sono chiamate a nascondere, come ideazioni di una classe politica che trae la propria
legittimità ora evocando, ora gestendo un presunto popolo italiano.

Il sacrificio della formazione personale
Platone, nel Menesseno, fa dire a Socrate che la democrazia ateniese è “una aristocrazia con
l’approvazione dei più”. Formula scimmiottata dal celebre discorso di Pericle agli ateniesi.
L’idea è quella che, più avanti nel tempo, sarà formalizzata da Aristotele: la politeia, il governo
dei molti, è la migliore forma di governo perché si dà come il giusto mezzo tra il governo di
tutti (democrazia) e il governo di pochi (oligarchia), e di entrambi corregge le storture. In essa,
infatti, a governare è una moltitudine sufficientemente agiata da potersi permettere di servire gli
interessi della cosa pubblica. Una moltitudine di aristoi.
Ora, la questione è come individuare il carattere degli aristoi, dei “migliori”: un problema
etico-politico, che per Platone prima e per Aristotele poi non può essere risolto delegando alla
massa del “popolo” il compito di scegliere la sua classe dirigente tramite consenso.
Affidare un ruolo simile alla massa, infatti, per i due filosofi, significa spianare la strada al
governo dei demagoghi, coloro i quali sanno su quali corde suonare per accattivarsi il favore dei
più.
La soluzione individuata da Platone è la definizione preventiva del complesso della società
secondo tre gruppi determinati: i produttori, i guerrieri e i governanti. Una partizione che opera
innanzitutto una distinzione secondo le qualità naturali degli individui, e in secondo luogo che
metta in atto una loro formazione completa che gli permetta di sviluppare al massimo le proprie
capacità: così emergono le classi della struttura politica, e tra queste quella dei filosofi, che
ricopre la funzione di governo.
L’intera comunità è coinvolta nelle maglie di un sistema per certi versi rigido, per altri
interconnesso e collaborativo, in cui il criterio discriminante, in base al quale si riconoscono
i gruppi sociali, è il grado di razionalità degli individui, generato dalla natura e formato
dall’educazione.
Ciò che filtra del discorso di Platone in un sistema repubblicano in cui “la sovranità appartiene
al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, è il problema della
identificazione delle persone adatte a guidare lo Stato: gli aristoi, eletti dalla totalità dei cittadini
come rappresentanti in Parlamento, ai quali è affidata la responsabilità di interpretare le
istanze sociali, tradurle e farne delle leggi, le quali dovranno essere attuate dal Governo, la cui
formazione e il cui operato passa al vaglio delle camere, sotto la supervisione dei garanti della
carta costituzionale.
Il sistema si regge su una serie di responsabilità intrecciate, la prima delle quali è quella degli
eletti nei confronti dei cittadini. Come può prodursi una frattura tra questi soggetti? Da cosa
deriva lo iato tra classe politica e società civile?
Volendo dare una risposta sintetica: dalla crisi degli strumenti di formazione della
rappresentanza. Dalla corruziome e dal crollo del soggetto politico moderno, il “moderno
Principe” nelle parole di Gramsci: il partito.
Non il partito in sé si è esaurito, ma il compito che gli conferiva senso e levatura; o meglio, ad
essersi affievolite fino quasi a scomparire sono le capacità di interpretare un simile compito, che
è anche un destino.
La formazione dell’individuo (abbandonati i platonici retaggi innatistici), l’educazione morale cui
si accompagni una produzione etica: è quanto ha perso di importanza, venendo trascurato, e lasciando un vuoto di significato tra l’esistenza di una società civile e la presenza di una classe
politica.
Questo vuoto viene rienpito di vacuità, necessaria, tuttavia, a misurare il gradimento del leader,
unica fonte di legittimità cui questi possa aggrapparsi: è la pubblicità che il leader, l’incarnazione
della classe politica, fa della sua persona, perché questa venga notata, quindi elevata a
“migliore”, aristos.
Da questo processo di spettacolarizzazione, per dirla con Debord, emergono non dei
rappresentanti, ma dei “naturali candidati” sempre in cerca di approvazione e di riconoscimento.

Nuove strutture, vecchia politica
Concezione, produzione, vendita. Sono i tre momenti del processo di immissione di beni sul
mercato.
Mentre il capitalismo moderno, nel suo sviluppo fino alla caduta del Muro e al termine della
Guerra fredda, si concentrava per lo più sulla produzione, in una continua gara a rendere
più concorrenziale la merce abbattendo i costi della sua realizzazione, l’era successiva,
dell’unificazione pressoché totale dei mercati e, oltre, dello sviluppo impetuoso e della diffusione
delle tecnologie, ha il suo fulcro altrove. Nella concezione e, soprattutto, nella vendita.
Tali mutamenti riguardano l’Economico, quel complesso di rapporti sociali finalizzati alla
gestione della circolazione delle merci e al rafforzamento del mercato: quello che, al tempo
di Marx, era un Economico-industriale, oggi è un Economico-pubblicitario. Ciò che conta,
nell’odierna competizione per l’incremento della propria incidenza sulla realtà economica e
sociale, è il bisogno che riesce a creare l’immagine pubblica di una merce.
Intuire il cambiamento sul piano della produzione può essere utile per chiarire la genesi della
crisi della formazione politica dell’individuo, e per immaginare prospettiva differenti.
Per quanto riguarda la crisi, possiamo azzardare brevemente un parallelo tra il tramonto della
centralità del sistema-fabbrica e l’avvizzimento del soggetto partitico: entrambi, pur non avendo
esaurito il proprio ruolo produttivo, vedono disciogliersi il loro senso sociale ed esistenziale.
Alla perdita di importanza della lavorazione di un bene, corrisponde una perdita di rilevanza
del processo di formazione della persona in rapporto al ruolo che essa andrà a occupare nel
sistema sociale.
Ed i luoghi di quella lavorazione e formazione permangono come involucri vuoti, ancora utili al
consumo.
Un’alternativa politico-sociale, perciò, non solo è possibile, ma è anche necessaria. Anzi,
kantianamente, proprio perché è un dovere è una possibilità.
Le proposte che seguono sono solo accennate, e meriterebbero forse maggiore spazio
espositivo. Ma tentano, comunque, di definire tre linee sulle quali una politica consapevole
dovrebbe orientarsi: la ridefinizione dello Stato nazione, la ridefinizione del paradigma
democratico, la ridefinizione dello strumento partitico.
Innanzitutto, ripensare il paradigma Stato-nazionale. Farlo alla luce di un contesto globale in
cui il sistema economico e le sfide politiche sono gestite da centri di potere geograficamente
interni ai confini statuali, ma molto spesso indipendenti dalle politiche nazionali, perché connessi
in reti che ridefiniscono il limes: è il caso delle “città globali” di cui parla Saskia Sassen. Reti
internazionali di denaro e potere in cui ogni città che ne è attraversata ha un suo ruolo specifico,
indipendentemente dalla distanza.
In secondo luogo, comprendere il modello politico del presente come repubblicano prima e
più ancora che come democratico. Kant prima e Habermas poi riconobbero nella repubblica
una forma di governo incentrata su una Legge fondamentale e sulla condivisione di una cultura
politica: questo è un sistema compiutamente aperto di cittadinanza, integrabile a livello
macroregionale, europeo.
Democrazia è, invece, un modo di governare, affidando la sovranità al demos: ma la determinazione di questo “popolo” è naturalmente problematica e storicamente esclusiva.
La nostra costituzione è già chiara su questo: l’Italia è una repubblica in cui la sovranità
popolare si esercita secondo la legge, cioè secondo la Costituzione stessa, e lo fa attraverso il
Parlamento, assemblea dei rappresentanti eletti dai cittadini.
Infine, reinventando un soggetto politico sensato, cioè utile alla mediazione tra società civile
e classe politica, che sappia evolversi verso una connessione tra il piano transnazionale e la
dimensione locale, e che impari ad operare su scale diverse dell’amministrazione di una entità
politica unitaria: il livello confederativo, il livello macroregionale, il livello regionale e il livello
locale.

Lorenzo Ianiro

De Luca – Caldoro – Ciarambino: la nuova stagione di una sfida che non fa più audience

Domani e lunedì si vota in tutta Italia: i cittadini saranno chiamati ad esprimersi in primis sul Referendum Costituzionale, mentre altri anche per rinnovare il proprio Consiglio Regionale.

Tra questi cittadini ci sono anche gli abitanti della Campania. Chi l’avrebbe mai detto.

Già, perché la regione del Mezzogiorno non fa più audience ormai da mesi: complici i sondaggi che non danno molte chance ai competitor del presidente uscente Vincenzo De Luca, la partita politica in Campania sembra essersi chiusa in netto anticipo rispetto alle altre regioni che possono ancora regalare qualche sorpresa.

Ma in fondo quale attrattiva poteva mai avere una competizione politica tra personaggi che si sfidano a ripetizione in ogni tornata elettorale? Io, ad esempio, sono molto annoiata dal dibattito politico regionale che è stato portato avanti dai candidati al ruolo di presidente. Tutti, nessuno escluso.

Stefano Caldoro, candidato del centrodestra, paga l’eredità della sua amministrazione del quinquennio 2010-2015, per cui ha e aveva nella sua manica pochi assi da giocare già ben prima della crescita di popolarità di De Luca.

Valeria Ciarambino espressione campana del M5S è anche lei alla seconda candidatura (per gli altri due è la terza), ma non è mai stata una figura che potesse rappresentare al meglio il MoVimento in una regione dove, all’indomani delle elezioni politiche del 2018, è stata designata come la prima forza politica.

Eppure, il momento storico delicato e l’importanza assunta dalle regioni avrebbero dovuto sensibilizzare maggiormente i cittadini che vivono abbastanza passivamente questo momento elettorale: poteva essere questo un punto di non ritorno per rinnovare e, oltre a tirare le somme, si poteva pensare di cambiare paradigmi locali che si sono cristallizzati nei decenni.
Vincenzo De Luca, d’altronde, sta sbaragliando la concorrenza proprio perché è riuscito a gestire una situazione senza precedenti che ha, di fatto, ribaltato la percezione della stragrande maggioranza degli elettori campani che solo fino a qualche mese fa non avrebbero riconfermato il governatore uscente a Palazzo Santa Lucia, ma a mio avviso non è riuscito appieno a dare la giusta risposta ad un momento che si presenta epocale.

L’aggressività comunicativa coadiuvata dalla prontezza dimostrata dalla Regione Campania durante i mesi italiani più difficili dell’epidemia da Covid-19, devono dar spazio a proposte innovative e a una visione di insieme che non si leghi solo alla forte personalità del Presidente.

Le urne, però, non sono ancora aperte e tutto effettivamente potrebbe essere messo nuovamente in discussione, complice anche una legge elettorale non propriamente intuitiva ed immediata. 

La sfida, però, per chi avrà l’onere e l’onore di guidare la regione per i prossimi cinque anni è quanto mai importante: nel caso in cui dovesse venir confermato Vincenzo De Luca, la partita sarà tutta dedicata a mettere ordine nelle variegate liste di chi ha, quasi al fotofinish, appoggiato questa candidatura.

Una forte eterogeneità di parti politiche e visioni del futuro potrebbe precludere alla Campania di affrontare i problemi globali del decennio, iniziato con lo scossone della pandemia, che potrebbero aggravare ancora di più quelle che sono le endemiche problematiche di un territorio vasto e diversificato nelle varie provincie.

Ogni segmento di quella che è una delle regioni più grandi e densamente popolate d’Italia ha delle peculiarità che devono trovare una risposta ad hoc e sarà compito degli eletti nelle circoscrizioni provinciali portarle in un progetto più generale che possa aiutare tutti i territori nella giusta misura.

Staremo davvero a vedere, ma spero che la politica territoriale riprenda lo spazio dialettico che deve essere costante e non acceso soltanto in campagna elettorale, ma ancor di più mi auguro che quel senso di apatia dell’elettore scompaia e veda tutti, eletti ed elettori, ad una voglia vera e viva di cambiamento che deve essere il faro della Regione Campania. Ora più che mai.

Lucilla Troiano

Pesi e misure: qualche considerazione sugli eventi ungheresi

Le ultime notizie dall’Ungheria risuonano sinistramente, provocando non poche apprensioni a livello nazionale e internazionale. Le parole “pieni poteri” sono pregne di una memoria storica che riporta ai decenni più bui dello scorso secolo, due parole che iniziano ironicamente per suoni “plosivi”, quasi a monito della portata esplosiva intrinseca nel loro accostamento. La richiesta e l’ottenimento dei pieni poteri da parte del Primo Ministro ungherese Viktor Orbán, sebbene giustificata dalla straordinarietà dell’emergenza sanitaria globale, presenta però alcuni caratteri “super-straordinari” rispetto al novero delle reazioni dei governi nazionali alla pandemia, che vale la pena di considerare.

La prima questione è quella dell’assenza di un limite temporale all’esercizio dei pieni poteri. A livello europeo, la facoltà di applicazione di misure di contenimento straordinarie da parte dei governi è stata concessa dai parlamenti nazionali sotto la necessaria menzione di un limite temporale, una specificazione di vitale importanza per scongiurare il rischio di derive autoritarie. La durata dello stato d’emergenza è stata fissata per sei mesi nel caso italiano, due mesi per quello francese, ed è stato stabilito un limite massimo di due anni per quanto riguarda l’Inghilterra, con l’obbligo di rinnovo periodico ogni sei mesi. Una richiesta in tal senso era arrivata anche dall’opposizione nel parlamento ungherese, che si era espressa a favore della concessione di poteri straordinari ad Orbán, a condizione che questi fossero ancorati ad una data di scadenza a novanta giorni. Il Primo Ministro ha invece fatto leva sulla maggioranza parlamentare del suo partito sovranista Fidesz, strappando i voti necessari per l’approvazione della legge e assicurandosi la possibilità di by-passare completamente il controllo del parlamento. Orbán detiene ora la facoltà di governare per decreto, sospendere le elezioni e abrogare le leggi già in vigore. A completare il quadro si aggiunge il fatto che la Corte Costituzionale, unico organismo competente per la revisione dell’operato governativo, è composta da membri fedeli allo stesso Orbán, il che contribuisce ad alimentare le perplessità riguardo le dichiarazioni del leader ungherese circa l’assenza di rischi per la democrazia nel paese.

Una secondo punto problematico risiede nella disciplina dei comportamenti perseguibili a seguito dell’applicazione della “Legge di autorizzazione”. Secondo quanto stabilito dalla normativa, i trasgressori del coprifuoco rischiano fino ad otto anni di carcere, ma quello che più balza agli occhi è la pena detentiva da uno a dieci anni per i colpevoli di diffusione di notizie false che “creino interferenze con le misure di protezione del popolo, o che lo pongano in stato di allarme o di agitazione”. L’utilizzo di formule vaghe, combinate all’esclusiva discrezionalità nel processo di definizione delle notizie false in capo ad Orbán, si traduce in un margine di manovra alquanto preoccupante, che consentirebbe al primo ministro di imprigionare i cittadini in disaccordo con le politiche governative anche al di fuori della sfera sanitaria.

L’ultima considerazione riguarda i commenti dell’ex Ministro dell’Interno Matteo Salvini, ed in particolare la strumentalizzazione implicita dei concetti di fake news e democrazia. A poche ore dalla diffusione della notizia degli eventi in Ungheria, il leader leghista salutava i nuovi poteri ottenuti da Orbán con il seguente tweet:

“Poteri speciali a Orban per combattere con forza il virus? Saluto con rispetto la libera scelta del parlamento ungherese (137 voti a favore e 53 contro), eletto democraticamente dai cittadini. Buon lavoro all’amico Viktor Orbán e buona fortuna a tutto il popolo di Ungheria”

Decostruendo la narrazione, il significato di queste parole sembrerebbe attribuire caratteri di democraticità alla sospensione stessa della democrazia. Salvini cerca quindi di far leva sulla manifesta indifferenza del bersaglio elettorale medio riguardo alla curiosità di comprendere le implicazioni degli avvenimenti, bollando il proprio messaggio con i sigilli della democrazia e della libertà di scelta e riferendosi ad un provvedimento che difficilmente potrebbe essere qualificato come “libero” o “democratico”.

Cosa direbbe, il nostro ex-ministro, se si trovasse in una realtà in cui la distorsione selettiva delle informazioni per fini di propaganda fosse perseguita con l’arresto?

Marco Tumiatti

SITOGRAFIA:

L’eredità retorica di Ronald Reagan

Sono passati ormai quasi quarant’anni dal discorso di insediamento alla Casa Bianca di Ronald Reagan, e cinque altri presidenti si sono succeduti alla guida degli Stati Uniti d’America. La vittoria di Reagan alle presidenziali del 1980 contro la seconda candidatura del Presidente democratico in carica Jimmy Carter e l’indipendente John Anderson significò molte cose per la nazione, e per il mondo intero. Esponente di spicco della corrente neo-conservatrice americana, che sul finire degli anni ’70 aveva guadagnato un’influenza crescente nel dibattito politico americano, Ronald Reagan seppe sfruttare prima – e meglio – di chiunque altro le abilità maturate durante un’esperienza che per l’epoca si poteva considerare quantomeno singolare per una figura politica. Prima di divenire uomo politico, infatti, Reagan conobbe un discreto successo nel mondo del cinema, prendendo parte a una serie di pellicole per la Warner Bros a partire dal 1937, per poi passare al mondo della televisione negli anni ’50. L’esperienza di attore avrebbe consegnato al futuro Presidente degli Stati Uniti gli strumenti fondamentali per la costruzione e il consolidamento di un livello di consenso pubblico mai sperimentato prima di allora. Inoltre, dopo il ritiro dalla carica di governatore della California (1967-1975), Reagan rimase sotto i riflettori nazionali tramite la conduzione di programmi radiofonici, che gli permisero di raggiungere un pubblico smisurato  (secondo le stime, tra i venti e i trenta milioni di ascoltatori settimanali tra il 1975 e il 1979). L’utilizzo del tono della voce, le pause sapientemente inserite tra una frase e l’altra, l’ironia, la mimica facciale, l’agio di fronte ad una telecamera e ad un pubblico furono ingredienti fondamentali per il successo politico di Ronald Reagan, tuttora ricordato come uno dei Presidenti più amati – e controversi – della storia degli Stati Uniti d’America.

Gli anni di Reagan, passati alla storia come “la Rivoluzione Reaganiana” furono un’epoca segnata da profondi cambiamenti a livello economico, politico e sociale. Sono gli anni delle liberalizzazioni economiche adottate dalla piattaforma neo-conservatrice, ispirate alle teorie neoliberiste di Milton Friedman e di Arthur Laffer, e della crescita esponenziale del debito pubblico americano. Sono gli anni del rilancio dello status di superpotenza mondiale per gli Stati Uniti e del ritorno ad un’aperta ostilità con l’Unione Sovietica, seguita da una graduale distensione dei rapporti tra i due blocchi e dalle fasi finali della Guerra Fredda. I meriti di Reagan, considerato da molti il catalizzatore della “vittoria” degli Stati Uniti su quello che lo stesso Presidente arriverà a chiamare, durante le fasi più accese del conflitto, “l’impero del Male”, devono però essere soppesati contro le fasi più critiche dei suoi otto anni a Washington. Il ritorno ad una retorica ferocemente anticomunista fu infatti accompagnato da una linea dura in termini di politica estera: l’appoggio alle oligarchie militari in America Latina, gli interventi militari in Libano, la guerra internazionale al terrorismo collegato alla Libia di Gheddafi, il supporto ai contras in Nicaragua per rovesciare il regime sandinista insediatosi nel 1979 e il successivo scandalo Irangate che rischiò di innescare un processo di impeachment ai danni del Presidente. Decisioni che danneggiarono Ronald Reagan, ma non fatalmente: la capacità di capitalizzare i successi tramite la padronanza delle potenzialità dei media a scopi politici permise al presidente repubblicano di “navigare tra le complessità della politica statunitense”, per mutuare un’espressione dello storico John Ehrman.

Non è un caso che l’attuale amministrazione statunitense si rifaccia all’era Reagan nel delineare la propria strategia d’immagine e di propaganda: anche se l’utilizzo della formula make America great again (che Reagan pronunciò per la prima volta nel 1980) venne rivendicato come idea originale di Trump – tanto da volerlo rendere un marchio registrato ad uso esclusivo – basterebbe una breve visita alla sezione National Security and Defense del sito della Casa Bianca per vedere come l’attuale amministrazione si sia appropriata testualmente di un altro punto cardine della politica estera reaganiana, dichiarando l’intenzione di “preservare la pace attraverso la forza”. E se il revival della Dottrina Monroe dopo l’archiviazione dell’era Obama non bastasse a fornire un ulteriore parallelismo (con la designazione del triangolo degli Stati ostili pressoché identica a quella dell’era Reagan, con Caracas a sostituire Mosca nella rete di relazioni con l’Havana e Managua), il recente riferimento alla creazione della Space Force nell’ultimo discorso di Trump sullo Stato dell’Unione tende un ulteriore filo tra il 2020 e gli anni ’80. Nel 1983, infatti, Reagan annunciava la Strategic Defense Initiative, un grandioso progetto di difesa dall’eventuale aggressione nucleare sovietica, completo di scudo spaziale e sistema di laser per la distruzione preventiva di missili nemici, veicolando l’idea che gli Stati Uniti rivendicassero un primato anche nello spazio cosmico al di fuori del pianeta. Dopo trentasette anni, Donald Trump include nel suo discorso alla nazione una richiesta di finanziamento per il progetto Artemis per assicurare che la prima bandiera su Marte sia quella a stelle e strisce. Nell’epoca del trasferimento del dibattito politico sulla sfera del virtuale e  della comunicazione lampo, l’eredità retorica dell’epoca Reagan risulta ancora di fondamentale importanza nella strategia di comunicazione dell’amministrazione Trump, in quanto testimonianza della prima efficace sintesi tra utilizzo dei mass media e capacità di coinvolgimento delle masse, tanto da riecheggiare a distanza di decenni, e più attuale che mai.

Marco Tumiatti