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Ponyo sulla scogliera

Questa “sirenetta”, o meglio, pesciolina miyazakiana è tutt’altra cosa rispetto alle sue sorelle maggiori. È quella più lontana dalle crudeltà inflitte da Andersen nella fiaba originaria, non si perde nei toni da musical dell’Ariel della Disney e non ha l’ingenuità di entrambe.

Miyazaki sceglie come fulcro del film non l’amore dell’esotico, frequente nell’adolescenza e cardine per le prime due principesse del mare, ma la socialità infantile. Ecco quindi che alla luce di questo nucleo il bisogno di Ponyo risulta più profondo, perché corrisponde ad una spinta essenziale verso il confronto con l’altro, il definirsi nel rapporto con ciò che si sente o in questo caso, si vuole essere.

Il sangue è un fluido assai speciale” (Goethe) ed è proprio leccando il sangue fuoriuscito per guarire una ferita di Sosuke, il suo “principe”, che Ponyo riceve lo stimolo per definirsi.

Questo episodio non fa che sottolineare la ‘femminilità’ in nuce di Ponyo, dimostrando quanto il suo sesso ed il suo legame col mare siano lo scheletro del film: è già in questo un esempio del Femminile che si definisce nella relazione, come l’acqua rimane coerente a sé stessa pur a contatto con ciò che l’attraversa o la contiene.

È una delle protagoniste più riuscite di Miyazaki, non solo per la predisposizione del regista verso la psicologia infantile: in fondo non è diversa da una bambina reale bloccata da un padre apprensivo, una madre lontana (magari scomparsa), delle sorelle più piccole e grande voglia di socializzare.

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Miyazaki sfrutta questo sostrato e questa corrispondenza realistica come carburante del lirismo del film. Liberatasi dalla casa del padre, assorbito un quantitativo immenso di potere magico, Ponyo cerca il suo Sosuke scatenando una tempesta, con meravigliosa e solare ingenuità.

La meraviglia della sequenza è che la violenza della natura sia all’unisono con l’euforia di lei che ha il candore e l’innocenza di una bambina che corra con trasporto verso il suo compagno di giochi.

Si sente eccome che questo film, con Il mio vicino Totoro (1987), sia nel corpus di Miyazaki quello più strettamente diretto al pubblico dei più piccoli, calibrato su di loro nel tono come nel disegno, con la grazia e la semplicità delle matite e degli acquerelli: qui l’intensità del contenuto e del bisogno espressivo è ancor più letteralmente metabolizzata dalla leggerezza e dalla grazia dello stile; in Totoro la commozione dava invece spazio a toni più dolenti, riuscendo pienamente su un’altra strada, facendo sentire la paura di una malattia pronta a colpire la madre delle protagoniste, instillando la paura della perdita.

Per questo la divinità del film, la Granmammare madre di Ponyo e la presenza prima violenta poi pervasiva e placida della acque, capaci di far assomigliare il Giappone alla Louisiana post-tornado, risultano così familiari, piene di calore, piacevoli per l’occhio. Siamo parecchio lontani dalla violenza delle forze umane, naturali e divine che attraversava la Principessa Mononoke (1997).

Antonio Canzoniere

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