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Gli ultimi ai tempi del corona virus (ma anche in tempi normali)

Giorno x della quarantena. La pandemia sul Covid-19 impera sulla nostra vita quotidiana. Anche se “la primavera non lo sa”, siamo testimoni e attori di un momento mai visto nelle vite di nessuno e nemmeno nella storia recente del nostro Paese e dei nostri vicini. 

Sulla condizione di quarantena e isolamento che stiamo vivendo, la prima cosa che colpisce è sicuramente la risposta delle persone. La richiesta di cambiare le proprie abitudini e di chiudersi in casa, di separarsi dai propri cari e dai propri legami, non era una richiesta da poco. Eppure, la risposta dal basso è stata forte se pur con anziani in stato di negazione, lombardi in giro per le seconde case in Sardegna e qualche cane finto al guinzaglio. In nome del bene comune, della protezione dei nostri anziani e delle persone più a rischio, a supporto dello sforzo del personale sanitario, ci siamo effettivamente chiusi in casa. Per altro, cantando canzoni dai balconi e spendendoci in gesti di solidarietà a distanza che fanno pensare davvero che andrà tutto bene.

Da qui, il primo pensiero va proprio a quanto facile sia stato convincerci a cambiare le nostre abitudini ed adattarci ad una restrizione delle libertà fondamentali come mai, per la mia conoscenza, era successo sotto un regime democratico. Per altro, in nome di una lotta contro un nemico che nemmeno possiamo vedere (toccare sì, per cui ricordiamoci di lavarci le mani più volte possibile); eppure, nemmeno l’impossibilità di fare come San Tommaso, ci ha impedito di credere nell’emergenza e unirci tutti assieme in questa guerra. 

Ma si sa, il cammino più difficile è sempre quello verso la (ri)concessione delle libertà che quello verso la sospensione o l’abolizione e c’è da tenere tutti i sensori di pericolo ben accesi su quello che succederà dopo la fine della pandemia, su come i nostri movimenti e contatti saranno autorizzati o riformati. D’altronde, il concetto di bio-politica non è certamente nuovo e gli sforzi per controbilanciarlo non hanno mai fermato l’affinamento degli strumenti a disposizione del potere. La sicurezza è uno di questi.

Quella del Covid-19 è un’emergenza, una pandemia dai numeri mai visti in nessuna delle vite dei nostri contemporanei in Italia ma anche in molti altri Paesi del mondo, una questione di sicurezza sanitaria vera. Ma la sicurezza è un tema molto delicato e complesso sul quale è bene domandarsi, poiché è un tema che ha a che fare principalmente con la pancia, da cui vengono generati pensieri di paura che generano azioni violente. A volte, senza nessun motivo fondato.

Quanto è giusto intervenire nella libertà delle persone, in nome della sicurezza? Oltre alla sicurezza sanitaria, esistono la sicurezza energetica, la sicurezza economica, la sicurezza sociale. Già abbiamo sentito parlare di sicurezza quando a metterla a rischio, si diceva fossero i migranti. Considerato quanto già lo facesse, quanto il tema della sicurezza governerà le agende politiche e le nostre vite quotidiane nel prossimo futuro? E quando siamo disposti a lasciarlo succedere? 

Quando poi parliamo di sicurezza sanitaria e di stare tutti a casa, di godere del tempo in casa, di dedicarci alle cose che ci piacciono e ai nostri cari, ci scordiamo di un sacco di cose. Ci scordiamo di chi una casa non ce l’ha, di quelle per cui stare a casa non è una sicurezza, di quelli che a casa propria non ci possono tornare, di quelli che in “casa”, in rivolta, ci hanno lasciato la vita. Ci ricordiamo che stare dentro casa a godersela è un privilegio.

Sono almeno 51 mila i senzatetto soltanto a Roma, loro che assieme ai piccioni popolano le strade e le piazze deserte della capitale, esposti più di tutti al contagio della malattia, con nessun mezzo per contrastarlo. Alla dott.ssa Lucia Ercoli, presidentessa della Onlus Medicina Solidale, che cercava di raccomandare tutti di stare a casa, è così che hanno risposto in tanti “dottoressa, io una casa non ce l’ho”.

Tante donne sono costrette dentro le mura domestiche, le stesse mura da cui cercando di fuggire o che temono tutti i giorni, quelle che condivido o dove hanno luogo violenze fisiche e psicologiche di ogni genere. La violenza domestica riguarda 5,3 milioni di donne che ogni anno subiscono violenza soltanto da parte dei partners. E queste, al momento, sono tutte costrette a casa.

Il primo caso di corona virus è scoppiato anche a Moria, in uno dei più grandi campi profughi in Europa: la prigione di Lesbo, in Grecia. Teatro di botte da parte della polizia, un’Unione Europea assolutamente assente, gruppi fascisti che bruciano le derrate alimentari e le tende delle Ong presenti in soccorso ai migranti. A Moria vivono 14 mila di persone. Con la crescita esponenziale del contagio, quanti di loro moriranno senza che nessun decreto venga varato e nessuno hashtag venga lanciato in loro difesa?

E ancora, 12 sono i morti in carcere tra Modena e Rieti. Secondo fonti ufficiali, non più credibili nemmeno da un bambino, sarebbero morti d’overdose. Tutti quanti assieme. In due carceri diverse. Casualmente, durante le proteste contro le misure restrittive contro il Corona Virus. In condizioni di vita e di utilizzo della prigione in senso completamente anti-costituzionale, il carcere si è trasformato, ormai da tempo in tutto il contrario di quello che dovrebbe essere: invece che un luogo di rieducazione, un luogo dimenticato da dio e dai cittadini dove se si vive in condizioni di sovraffollamento (la popolazione è di circa 60mila persone per un totale di meno di 50mila posti letto). Nel contesto di questa pandemia, il carcere è quel luogo dove non esiste modo per isolare i malati e costruire condizioni igienico-sanitarie adatte alla situazione, dove ai carcerati sono concessi solo contatti virtuali ma dove non esistono abbastanza o per nulla postazioni skype e strumenti di comunicazione per tenersi in contatto con le proprie famiglie ma si interrompono comunque tutti i contatti con l’esterno (senza ovviamente interrompere quelli del personale penitenziario).

La malattia, si sa, non guarda in faccia nessuno. Ricchi e poveri, giovani e meno giovani, senza tetto e calciatori miliardari. La malattia sta colpendo in maniera indiscriminata con quel potere che solo la natura ha di non preoccuparsi minimamente della vita che si sta per riprendere e delle conseguenze che quella morte avrà. La malattia, e poi la morte, colpisce e basta.

Ma lo Stato, lo Stato non colpisce mai indiscriminatamente. O meglio lo fa, consapevole del fatto che il suo ruolo dovrebbe essere quello opposto e il suo modo di agire quello di guardare in faccia, di mirare le politiche, di controbilanciare la vulnerabilità che esiste in uno stato di natura e nelle nostre società. Lenire le conseguenze di una natura che non guarda in faccia l’uomo e di una società che ha creato il privilegio come fondamento della propria esistenza. Rimediare al fatto che dove nasciamo non dovrebbe significare partire più o meno svantaggiati degli altri. 

Lo Stato che dovrebbe prima di tutto guardare agli ultimi, perché sono loro quelli che meno ce la fanno, si tappa gli occhi. Tutti a urlare che dobbiamo difendere gli anziani del nostro Paese. Ma non dimentichiamoci che gli anziani solo la fetta più numerosa della popolazione e questo fatto soltanto li rende più forti. Ma tutti gli altri ultimi, chi penserà a loro?

Francesca Di Biase

SITOGRAFIA:

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Di cioccolato, premi Nobel, depressione, rifugiati e fattori confondenti

I profughi hanno aumentato il tasso di reati nel 2016 in Germania? Sì, l’hanno fatto.

Mentre in Germania il totale dei reati è diminuito nel 2016, il numero di reati da parte dei profughi è aumentato.

È però necessario, per capire questi risultati, introdurre quello che in statistica è chiamato fattore confondente.

In statistica, un fattore confondente è una variabile che influenza sia la variabile indipendente che la variabile dipendente andando ad alterare l’associazione tra queste due.

Uno degli esempi più utilizzati per spiegare questo è l’associazione tra premi nobel vinti e il consumo di cioccolato.

Uno studio, “Chocolate Consumption, Cognitive Function, and Nobel Laureates” pubblicato da Franz H. Messerli, mostra come il consumo pro capite di cioccolato sia positivamente associato al numero di premi Nobel vinti. L’articolo è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine.

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Come spiegare una simile associazione?

– Possibilità #1: L’autore suggerisce la possibilità che il cioccolato possa aumentare la prestazione cognitiva degli individui e dunque aumentare la loro probabilità di vincere il Premio Nobel.

Diciamocelo sarebbe molto bello.

– Possibilità #2: C’è una terza variabile, che comporta sia l’aumento del consumo di cioccolato che di Premi Nobel vinti. Per ipotizzarne una, guardiamo i 20 Paesi a più alto consumo di cioccolato pro capite nel 2017: Svizzera, Austria, Germania, Irlanda, Regno Unito, Svezia, Estonia, Norvegia, Polonia, Belgio, Finlandia, Slovacchia, Paesi Bassi, Nuova Zelanda, Danimarca, Australia, Repubblica Ceca, Russia, Stati Uniti, Francia. A parte l’elevato consumo di cioccolato, cosa potrebbe accomunare questi Paesi?

Il cioccolato è maggiormente consumato nei Paesi Occidentali dove il grado di istruzione e gli investimenti nel mondo della ricerca sono decisamente più alti.

È chiaro che in questo caso il grado di istruzione e gli investimenti nell’ambito della ricerca sono fattori confondenti.

In medicina fattori come sesso, età e livello educativo influenzano l’insorgenza di tanti disturbi.

Il mio capo mi ha chiesto di confrontare la frequenza della depressione in Olanda e in Italia. Ho raccolto 200 questionari per Paese. Non avendo troppo tempo, ho deciso di andare a caccia di persone in posti affollati.

Per il campione olandese, son andato al centro commerciale.

Per il campione italiano, quando son tornato a Cagliari, ho raccolto i dati allo stadio, visto che passavo di lì per vedere la partita de’ su Casteddu (Cagliari in sardo, ndr).

Dal mio studio è venuto fuori che nella popolazione olandese c’erano il doppio dei depressi.

Gli olandesi son più depressi, concludo.

Scrivo la mia analisi, la mando al mio boss. Che giustamente mi licenzia. Perché?

Perché nel campione olandese il 70% delle persone erano di sesso femminile, in quello italiano l’esatto contrario: il 70% dei rispondenti erano uomini. Le donne hanno quasi il doppio della probabilità di andare incontro a depressione. In realtà la frequenza della depressione non dipendeva dalla nazionalità ma dal sesso.

Il sesso in questo caso era un fattore confondente.

Ora torniamo in Germania.

I profughi hanno aumentato il tasso di reati nel 2016 in Germania? Sì, l’hanno fatto.

Mentre in Germania il totale dei reati è diminuito nel 2016, il numero di reati da parte dei profughi è aumentato.

Tuttavia, il criminologo Pfeiffer si rifiuta di collegare direttamente i rifugiati alla criminalità. Infatti, c’è un altro fattore che spiega il motivo per cui il tasso di reati tra i profughi è più alto che tra i nativi.

In tutto il mondo, il gruppo di popolazione responsabile per la maggior parte dei reati è quello composto da maschi tra i 16 e i 30 anni. In Germania nel 2010 il 70% della popolazione aveva un’età superiore a 30 anni (oggi molto probabilmente ancora di più), mentre tra i rifugiati una maggioranza (37%) è composta da maschi con età tra i 16 e i 30 anni.

I profughi aumentano il tasso dei reati? Sì, lo fanno. Ma la situazione sarebbe molto diversa se si confrontassero i tedeschi nativi e i profughi a parità di età e genere. L’età e il genere sono le due chiavi di lettura. I profughi hanno aumentato il tasso di reati perché hanno aumentato la percentuale degli individui inclusi nel gruppo di popolazione con il più alto tasso di reati.

In questo caso età, sesso e livello educativo sono tutti potenziali fattori confondenti che andrebbero presi in considerazione.

Associare l’essere profughi alla criminalità è come associare il mangiare cioccolato al vincere premi Nobel.

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(E se qualcuno grida al pregiudizio perché ho messo più donne al centro commerciale e più uomini allo stadio non sarà fattore confondente ma solo gente confusa).

Fabio Porru

Fonte: