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Politica: femminile singolare. Perché le proteste polacche ci mostrano un’alternativa a Hegel e Heidegger

Le proteste esplose il 30 ottobre in Polonia, in seguito alla sentenza della Corte costituzionale
che ha cancellato, di fatto, il diritto all’aborto, sono l’espressione visibile di un fermento interno al
Paese. Un fermento di cui già le elezioni dell’ottobre di un anno fa offrivano un indizio.
Allora, il PiS (“Diritto e Giustizia”) si confermava come il primo partito polacco, difensore di
un’identità indiscussa, dello Spirito assoluto.
Dall’altra parte, sinistre e liberali proponevano un programma di resistenza, nato per essere
d’opposizione. Scritto nella stessa lingua del Soggetto destinato a governare.
Ma, già allora, si prospettava un’alternativa. Femminista. Che in piazza, in questi giorni, ha trovato
il suo terreno politico.

I vincitori, Hegel
Al termine di un’elezione non si dovrebbe parlare di vittoria, concetto guerresco che poco si
addice a un regime democratico. Ma vallo a spiegare a Kaczynski, leader del PiS, principale
destinatario di quel 43,6% di consensi raccolto nella società polacca nel 2019.
A premiarlo, allora, furono le politiche economiche adottate nella precedente legislatura (è al
governo dal 2015): sussidi diretti alle famiglie, soprattutto quelle più povere e trascurate delle
periferie del Paese, e le promesse sul salario minimo e sul sostegno per le spese mediche. A
favorirlo fu una crescita economica stabile, sostenuta.
Ma a catalizzare i consensi è stata la sua idea di Polonia, in cui molte istanze e altrettante paure
popolari hanno trovato ascolto: una comunità di patrioti riunita nella nazione, radicata nella
tradizione e nei valori da essa espressi, che lo Stato ha il dovere di incarnare e difendere. In
stretta collaborazione con il potere religioso, che legittima una certa narrazione etnica ed etica
dei sovranisti.
La difesa dell’identità polacca. L’identico che sfida l’Altro per uscirne rafforzato nel suo essere,
consapevole di sé, autocosciente. Hegel risuona nello spirito di quanti, in Polonia, pongono in
cima alla lista delle proprie preoccupazioni la diffusione del movimento per i diritti LGBT e la
disgregazione della famiglia: timori presenti soprattutto nella popolazione maschile tra i 18 e i
39 anni, come mostravano alcuni sondaggi pubblicati in periodo elettorale. E come le piazze di
questi giorni, riempite di ragazze e ragazzi, sembrano smentire.
La famiglia è il nucleo etico-sociale dello Spirito polacco, l’ultimo baluardo della nazione nei suoi
tratti originali, l’essenza del carattere di una comunità che si sviluppa e si dota di uno Stato. Sono
le relazioni familiari, codificate dalla tradizione, a descrivere l’ethos comune dei rapporti sociali,
da cui una gerarchia di valori e di autorità. Identità è il mantenersi identico proprio di questo
sistema.
E non ingannino le politiche economiche solidaristiche messe in campo dal PiS: lo stesso Hegel,
infatti, nei “Lineamenti di filosofia del diritto”, proponeva un dilemma circa la redistribuzione del
benessere, affermando che essa, se attuata, mentre da una parte mitiga la povertà, dall’altra può
indebolire l’autostima del cittadino.
Lo stesso avverrebbe nel caso di un intervento dello Stato nell’occupazione lavorativa dei
cittadini creata ad arte: ciò produrrebbe sì una redistribuzione del benessere, ma al prezzo di una
forzatura del funzionamento autoregolato del mercato, che solo è in grado di produrre ricchezza.
Un dilemma sul Welfare State risolto da Kaczynski, erede di Hegel, con la scelta di una strategia,
corrispondente ad una precisa idea di Stato.

Gli sconfitti, Heidegger
Al termine di un’elezione non si dovrebbe parlare di sconfitta. Soprattutto quando lo
schieramento penalizzato dai risultati non ha proposto alcuna visione alternativa, a tratti
confondendosi con gli avversari.
La battaglia, se c’è stata, si è giocata tutta sul piano dei principii, e con la dialettica della
contrapposizione: contro il sovranismo, erede dei fascismi, contro la propaganda tradizionalista
e irrispettosa del “diverso”, incapace di fronte alla novità, contro gli scandali, la corruzione degli
uomini delle istituzioni. Che sembravano intoccabili, agli occhi della maggioranza, prima delle
recenti proteste: esplose per protestare contro l’abolizione del delitto all’aborto, infatti, si sono
trasformate in un attacco alla corruzione delle istituzioni.
Alle elezioni del 2019, centristi-liberali e formazioni della sinistra, divisi sul piano politico,
chiamarono la popolazione a raccolta contro il regresso verso forme di politica troppo simili
a quelle dalle quali con tanta fatica, dopo le guerre, si era riusciti ad emergere. Un appello alla
resistenza come conservazione di quel senso più autentico della propria storia scoperto grazie
alla democrazia reale, al prezzo di molto sangue e umiliazione.
Una posizione, pur nelle differenze tra il liberalismo del partito “Piattaforma civica” nella sua
immagine tradizionale, incarnata da Tusk al Consiglio europeo, e il socialismo democratico della
coalizione delle sinistre, politicamente stagnante, senza prospettive originali da opporre alla
retorica della destra sovranista.
Una campagna elettorale volta a nulla di più di un’insistenza su tematiche sdoganate in Polonia
con la fine dela Guerra Fredda: il valore della democrazia per un nuovo (vecchio) protagonista
della Storia, non più assoluto, come il Soggetto hegeliano, ma immerso nel mondo e, anzi,
abbandonato ad esso in un’assenza pressoché totale di significati etici o escatologici capaci
di fare da guida. È la scoperta dell’Esserci heideggeriano, un essere-nel-mondo gettato in una
dimensione di cui non è il creatore, pur essendone responsabile, un essere-con plasmato come
identità nella e dalla relazione.
Questi, per poter recuperare il senso della propria esistenza, deve continuamente emergere dalla
condizione di omologazione totale nella quale si disperde, spaesato, affidandosi alla pubblicità
totalizzante dell’uomo comune (il “Si”): è in questo sforzo che sta la possibilità di recuperare la
propria originalità, e con essa un’identità.
Ma, oltre alla tensione, personale, non è indicata una prospettiva etica cui riferirsi in quanto
collettività fatta di incontri con l’Altro, che spesso impongono una ridefinizione del sistema.

L’alternativa, Kittay
In democrazia, la posta in gioco del confronto politico è la conquista dell’egemonia da parte
di una delle forze rappresentative della popolazione. Per poter stabilire la propria egemonia, il
partito deve farsi portatore di una certa visione del mondo condivisa: deve essere interprete
della realtà, e offrire una prospettiva sui tempi.
In sostanza, non è un astratto consenso che deve essere ricercato, plasmando i programmi e la
propaganda in modo da infiltrarsi tra le crepe della società per dare una parvenza di resilienza.
È necessario, invece, per la salute della democrazia, inventare un percorso di formazione della
società civile che porti gli elettori a farsi, da pubblico, rappresentati.
Ciò significa un’apertura all’ascolto e una elaborazione condivisa. Due temi evidenti della
campagna elettorale del 2019 di Malgoratza Kidawa-Blonska, candidata di “Piattaforma civica”
alla carica di premier. A lei, il candidato e leader del partito aveva ceduto il posto chiave dello
schieramento d’opposizione: una scelta politicamente significativa, perché stravolgeva una
condizione consolidata non solo in Polonia.
La candidata, infatti, dava voce in campo moderato e liberale alle esperienze femministe
polacche, giunte nel Paese insieme alla democrazia, dopo la Guerra Fredda, sulle gambe delle
donne che affermavano il diritto all’autodeterminazione dei propri corpi contro le concessioni anti-abortiste fatte dal governo democratico di allora alla Chiesa. Quelle stesse concessioni
che si riaffacciano nella sentenza del 22 ottobre scorso, contro la quale un’onda anomala
proveniente dalla società civile polacca ha sommerso le piazze.
Allora, nel 2019, Kidawa-Blonska non raggiunse i voti necessari, ma qualcosa si smosse. Non
solo un allargamento della rappresentatività politica, ma la proposta di una alternativa che,
poiché poggia su una formazione già iniziata in vari strati della società, nascondeva già allora,
forse, un paradigma etico differente da quello tradizionale, incentrato sull’io.
Un paradigma teorizzato principalmente da Kittay e basato sul principio della “doulia”: ogni
sistema sociale si regge su rapporti di interdipendenza essenziali, solo in virtù dei quali si
può dare qualcosa come la persona, in grado di formarsi e di svilupparsi perché sostenuta da
qualcuno nel suo essere responsabile nei confronti di qualcun altro.
Si parla, cioè, di un circuito di “dividui”, ciascuno dei quali esiste grazie a qualcun altro, su
dimensioni che trascendono lo Stato nazione e che riguardano (o possono riguardare) l’intera
congregazione umana.
La personalità, dunque, è il risultato di una dipendenza e non coincide con una individualità,
bensì con la formazione della propria esistenza all’interno di un sistema che, secondo la tesi di
Amartya Sen, non provvede alla re-distribuzione della ricchezza prodotta (che solo può essere
efficace in una società di individui indipendenti), ma a favorire una eguaglianza di capacità, cioè
di opportunità, tra le persone.
Ma, allora, nel 2019, la linea moderata di Kidawa-Blonska, portatrice di una visione femminista
graduale, non fece breccia negli elettori. Ad un anno di distanza, le strade si riempiono di
manifestanti che rivendicano una politica diversa, e che difficilmente sembrano potersi
accontentare di una voce moderata.

Lorenzo Ianiro

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Cento Giorni di Hong Kong

Il vero tormentone di quest’estate 2019 è stato in tutto il mondo la vicenda di Hong Kong.

Le proteste avvenute nella regione cinese si sono protratte dai primi di giugno fino a metà settembre, con alcuni strascichi che continuano fino ad oggi.
Sono state delle azioni impressionanti che hanno coinvolto quasi completamente la popolazione hongkonghese, le cui somme si riassumono in 1453 arresti e innumerevoli feriti.

Per comprendere al meglio la gigantesca protesta serve un po’ di storia.

La Prima guerra dell’oppio (1839-1842) vide lo scontro tra il Regno Unito della regina Vittoria e l’Impero Cinese dei Qing sulla vendita dell’oppio nel territorio cinese.
Questa sostanza creò in Cina due grossi problemi: un popolo dipendente e delle riserve di argento sempre più misere. A nulla servirono i tentativi pacifici dell’impero celeste di dissuadere gli inglesi a vendere oppio alla popolazione cinese ormai in ginocchio, perciò l’imperatore Daoguang decise di agire con la violenza, requisendo e distruggendo grandi quantità di merce a Canton (la più grande riserva di oppio inglese in Cina).

La fine della guerra portò al Trattato di Nanchino (1842) che obbligava l’impero cinese a cedere il territorio di Hong Kong agli inglesi per cessione perpetua.

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Il territorio di Hong Kong è stato una colonia britannica fino al 1997, quando venne firmato un accordo tra Regno Unito e Repubblica Popolare Cinese che prevedeva la cessione di Hong Kong al governo centrale di Pechino, a patto che essa fosse riconosciuta come regione a statuto speciale.
In questo modo Hong Kong entrava sì a far parte dei territori della RPC ma mantenendo le sue istituzioni democratiche e la sua economia più aperta e capitalista.

Questo da vita alla famosa formula Una Cina, due sistemi (一国两制), attraverso cui la Cina ha ottenuto anche Macao nel 1999 e colla quale punta ad acquisire anche Taiwan.

Nel caso di Hong Kong però, questa formula ha una scadenza: 2047.
Stando ai trattati, questo trattamento di favore durerà solo 50 anni, dopo di che la regione entrerà a far parte della Repubblica Popolare Cinese a tutti gli effetti, sia dal punto di vista politico che economico.

Nonostante la scadenza firmata e stabilita, il Governo di Pechino cerca in tutti i modi di accorciare i tempi di questa transizione, cominciando ad agire nel territorio di Hong Kong con strani casi di attivisti democratici arrestati e librerie i cui proprietari sono misteriosamente spariti.

Questi tentativi di sconfinamento da parte della RPC sono stati numerosi e sono sempre stati contrastati con forza dagli hongkonghesi, che sono famosi per le loro proteste di enormi dimensioni. E quella di quest’anno non ha fatto eccezione.

Tutto comincia a febbraio 2018 quando l’hongkonghese Chan Tong-kai e la sua fidanzata Poon Hiu-wing si recano a Taiwan per una vacanza.
Chien torna ad Hong Kong da solo, e solo arrivato a casa confessa il suo omicidio ai danni della fidanzata.

Essendo avvenuto in territorio taiwanese, le autorità di Hong Kong non possono giustiziare l’uomo, poichè ciò è competenza delle autorità di Taiwan.

Taiwan e Hong Kong non hanno però un accordo di estradizione per i criminali fuggitivi, perciò a febbraio 2019 il governo di Hong Kong propone un disegno di legge volto a ovviare il problema.

Questo disegno di legge se approvato andrebbe a facilitare l’estradizione dei criminali non solo tra Hong Kong e Taiwan (che, ricordiamo, non è riconosciuto da tutti i paesi come stato legittimo), ma andrebbe a coinvolgere anche Macao e la Repubblica Popolare Cinese, facilitando l’estradizione anche di coloro che agli occhi di Pechino sono dei criminali.

La proposta di legge fa impensierire molto sia il governo di Taiwan, che rifiuta assolutamente di chiedere l’estradizione di Chan Tong-kai sotto queste condizioni, sia lo stesso popolo di Hong Kong, che teme per la salvaguardia della sua democrazia.

Hong Kong è infatti governata da un Consiglio chiamato Legislative Council o LegCo, una assemblea democraticamente eletta di 70 membri, appartenenti a vari partiti che possiamo dividere in partiti pro-Democrazia e pro-Cina.
Di questi 70 membri, 30 sono eletti dal popolo tramite elezioni, 40 sono scelti dalle varie comunità imprenditoriali di Hong Kong.
Nonostante i partiti democratici ottengano la quasi totalità del voto popolare, le comunità imprenditoriali tendono ad eleggere membri affini al governo di Pechino, per mantenere buoni rapporti economici con la Cina Continentale.

Per questo motivo il governo di Hong Kong, con a capo Carrie Lam (anche lei molto favorevole a Pechino) ha spinto per l’approvazione di questa legge, scatenando lo sdegno dei suoi cittadini che dal 9 giugno 2019 sono scesi per le strade a protestare.

La protesta sin da subito registra numeri esorbitanti e attira l’attenzione della comunità internazionale: la prima protesta registra, stando agli organizzatori, 1,03 milioni di partecipanti bloccando completamente la città. Poco dopo la mezzanotte del 10 giugno la situazione comincia a precipitare con l’inizio dello scontro tra polizia e i manifestanti.
Hong Kong è contemporaneamente in subbuglio e completamente bloccata, le proteste coinvolgono ogni lembo della popolazione, anche e soprattutto il settore legale che, insieme ai giovani, è stata la prima fetta della società ad organizzare una delle più grandi proteste.

Pacifiche e violente, tra proiettili di gomma e lacrimogeni, bombe artigianali e feriti, le proteste continuano fino a quando, il 15 giugno 2019 Carrie Lam annuncia la sospensione del disegno di legge, successivamente dichiarandolo ormai morto del tutto. Ma agli hongkonghesi non basta: il disegno di legge va rimosso completamente.

Il 1 luglio 2019 la sede del LegCo viene attaccato e vandalizzato dai manifestanti, e il 21 luglio appaiono le magliette bianche, una folla che attacca indiscriminatamente sia poliziotti che manifestanti, si suppone affiliata della triade, organizzazione mafiosa cinese.

Il 13 agosto 2019 le proteste arrivano fino all’aeroporto internazionale di Hong Kong, dove viene organizzata una occupazione pacifica che porta alla cancellazione e al ritardo di centinaia di voli.

Agosto continua all’insegna della violenza, viene sparato il primo colpo di pistola (di avvertimento, in aria) dalla polizia, gli scontri si estendono fino alla metropolitana di Hong Kong, le cui stazioni vengono quasi tutte rese inagibili e/o vandalizzate.

Dopo una catena umana realizzata dagli studenti di Hong Kong il 2 settembre, si arriva all’annuncio di Carrie Lam.
Il 4 settembre 2019, il capo esecutivo di Hong Kong annuncia la revoca ufficiale del disegno di legge sull’estradizione.

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Il 13 settembre, in occasione della Festa di Metà Autunno, una catena umana ha illuminato la Lion Rock (in foto sopra), e i manifestanti sono scesi in strada per celebrare la sudata vittoria contro l’avanzamento anticipato del dominio cinese.

Attualmente la situazione ad Hong Kong non è tranquilla. Ci sono ancora alcuni sprazzi di violenza tra manifestanti e altri civili, e ci sono ancora interventi della polizia per fermare le masse. Il più recente avviene mentre scrivo, la polizia si adopera per sedare una protesta pacifica e autorizzata contro le “dame” cinesi (continentali) di Parco Tuen Mun.

I mezzi di trasporto stanno venendo sistemati, le strade pulite, le metro riattivate. Il turismo ha subito un forte calo, l’economia ne ha risentito, ma tutto tornerà alla normalità.

Tuttavia, il sistema Una Cina Due sistemi ha una data di scadenza ben precisa che può solo avvicinarsi: 2047. Mancano 28 anni.

Annabella Barbato


SITOGRAFIA

 

La Rivoluzione sotto le Ruote

Purtroppo, da ormai qualche anno, siamo abituati a sentire e vedere storie di cruda violenza a livello internazionale. Le stragi di Strasburgo, Parigi, Berlino, Barcellona hanno scosso il cuore di europei ed extra comunitari per gli attacchi messi in atto da organizzazioni terroristiche o da singoli individui, spesso con una matrice di guerra religiosa. Sulla famosa strada La Rambla di Barcellona, al Christmas Market di Berlino, nel cuore di Strasburgo singoli individui sono stati uccisi da estremisti portatori di un messaggio di odio e terrore alla guida di camion e furgoni, volontariamente investendo dei civili con una sentenza di morte in nome di una fantomatica guerra all’Occidente. Sono storie recenti che rimangono impresse, che fanno paura ma che ci uniscono contro l’odio dell’estremismo. Singoli fanatici che devono essere isolati e fermati. Abbiamo dalla nostra la solidità di intere istituzioni e la cooperazione tra i governi. Comprendiamo il dolore della perdita ma reagiamo ed andiamo avanti, sappiamo essere più forti dei singoli estremisti.

Cosa succede però quando è proprio il governo stesso a guidare dei camion sopra i cittadini in rivolta? Questa è purtroppo una domanda che in Venezuela si stanno facendo in molti e che richiede delle risposte amare e non sempre soddisfacenti.

Il Venezuela sta affrontando una delle più intense crisi interne che il Paese abbia mai visto: dopo le elezioni di gennaio, lo storico Presidente Nicolas Maduro è stato politicamente fronteggiato da Juan Guaidó, capo dell’opposizione autoproclamatosi ad interim Presidente del Venezuela contro gli abusi di potere del dittatore, succeduto al regime di Hugo Chavez, accusato di aver vinto le elezioni del 2018 in maniera fraudolenta e con metodi dittatoriali. “È mio dovere chiamare libere elezioni perché c’è un evidente abuso di potere e le persone in Venezuela vivono in una dittatura” ha dichiarato Mr. Guaidó. Una forte crisi ha colpito l’economia venezuelana negli ultimi anni, portando il Paese ad un’iperinflazione e un crollo della valuta di proporzioni storiche. La dittatura di Maduro ha fronteggiato diversi disordini negli anni passati, soprattutto per quanto riguarda l’opposizione americana al regime. La situazione di disagio del popolo venezuelano è andata crescendo fino al colpo di Stato dell’opposizione di Guaidó che, se da un lato ha portato alla luce le richieste della popolazione in difficoltà, dall’altro ha aggravato notevolmente lo stato del Paese.

La presenza di due diversi premier all’interno del Venezuela ha infatti dato spazio ad opportunità di schierarsi da un lato o dall’altro per fini meramente relativi ai giochi di potere tra le Grandi Potenze. Il governo americano supporta incessantemente il governo di Guaidó contro la dittatura di Maduro e i suoi crimini mentre la Russia, d’altro canto, sostiene fortemente quest’ultimo per poter consolidare la propria influenza contro quella americana tramite il sostegno del dittatore. Molti Paesi europei si sono schierati con il rivoluzionario Guaidó, assieme al Presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Gli alleati di Maduro nella regione, Cuba e Bolivia, hanno pubblicamente condannato il colpo di Stato. I disordini interni hanno da mesi subito una crescita vertiginosa mentre le condizioni dei cittadini venezuelani è arrivata a livelli allarmanti, con cittadini inabili a procurarsi del semplice pane per il proprio sostentamento.

La situazione pareva fosse arrivata a un momento di distensione nelle ultime settimane. Nella giornata di ieri però, il Presidente sovversivo Juan Guaidó ha lanciato un messaggio online tramite un video nel quale invitava i cittadini a dimostrare scendendo in piazza, che il Paese è pronto ad un cambiamento e che i cittadini sono volenterosi di una svolta che ponga fine a quest’incertezza. “Il tempo è adesso. Stiamo per ottenere libertà e democrazia in Venezuela”. Nel video, il Presidente è circondato da dozzine di soldati uniti alla causa. Non si conoscono bene i numeri, ma centinaia di manifestanti si sono presentati davanti la base aerea dove hanno avuto uno scontro a fuoco con i soldati dell’esercito di Maduro.

In quest’occasione, con altri manifestanti per le strade della capitale Caracas, veicoli blindati militari del governo reggente sono stati filmati muoversi verso i cittadini, visibilmente con lo scopo di investire i manifestanti, gravemente ferendone decine, reprimendo la rivolta nel più cruento dei modi: con la violenza deliberata verso gli oppositori del regime. Al momento, il centro medico vicino ai luoghi del conflitto civile ha riportato 50 persone in cura per ferite da proiettili di gomma. Oltre a Caracas, le proteste si sono accese e sparse per altre città del Paese tra cui Valencia, Puerto Ordaz e Barquisimeto. Uno dei maggiori alleati dell’opposizione Leopoldo Lopez ha intanto trovato rifugio nell’ambasciata cilena in Venezuela contro la persecuzione da parte del regime.

In questo momento, il Venezuela sta effettivamente sperimentando sulla pelle dei suoi cittadini gli effetti di una dittatura prolungata e la conseguente Guerra Civile che ne è scaturita. Il vicepresidente della Casa Bianca Mike Pence sostiene la rivoluzione assieme al Segretario di Stato Mike Pompeo; il Presidente Turco Erdogan condanna il colpo di stato, a suo modo di vedere perpetrato per conto degli Stati Uniti; l’Unione Europea, tramite il suo Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza Federica Mogherini, richiede una pacifica soluzione del conflitto. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres invita gli attori coinvolti a cessare le ostilità per trovare una soluzione pacifica alla crisi. La comunità internazionale non appare in grado di fronteggiare esternamente una situazione politica così delicata e la poltrona da spettatore inerme appare l’unica soluzione adottata da molte parti.

Per anni i cittadini hanno subito una condizione di grave disagio, dove l’inflazione ha reso impossibile l’acquisto anche di beni primari, quali pane e carta igienica, e i diritti umani sono stati troppo spesso calpestati dal regime. Dopo tanto tempo, la soluzione politica è rappresentata dal colpo di Stato di gennaio da parte dell’opposizione, che ha racchiuso in sé la rabbia e la frustrazione di un popolo sofferente da troppo tempo. Ciò nonostante, la situazione non pare propendere ad una soluzione immediata e la violenza raggiunta da entrambe le fazioni fa presagire un’escalation di disordini in continua crescita. Si attende di capire quale parte riuscirà a prevalere sull’altra e se le istituzioni internazionali riusciranno ad avere un ruolo decisivo per la soluzione del conflitto. Per adesso il popolo venezuelano si ritrova con la propria rivoluzione sotto le ruote dei veicoli militari e i colpi del proiettili sui manifestanti in rivolta, con la speranza di una stabilità politica, economica, e sociale che appare ancora più lontana.

Matteo Caruso


Sitografia:

Io non ho paura

Proviamo a immaginare di essere entrati in coma circa una settimana fa. La situazione era quella dell’incontro tra Mattarella e Conte, con quest’ultimo pronto ad accettare l’incarico da presidente del Consiglio e proporre i Ministri. Poi andiamo in coma e ci svegliamo oggi, martedì 5 giugno 2018. Fino a qui tutto bene.

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