Trump è uno dei personaggi più controversi dell’ultimo decennio, è riuscito a richiamare l’attenzione di un gran numero di americani grazie alle sue idee e affermazioni a dir poco forti, venendo acclamato come portavoce di un’America che apprezza la voce di un uomo senza peli sulla lingua e senza mezzi termini, una figura forte e carismatica. Sorge quindi la domanda: come una personalità tanto eccentrica è riuscita, con una ascesa politica tanto fulminea quanto inaspettata, a sedersi sulla poltrona dello Studio Ovale? Ho cercato di trovare una risposta al complicato rompicapo Trump utilizzando gli strumenti che la psicologia ci mette a disposizione, sfruttando per lo più le teorie sulla leadership.
Una delle prime teorie che vorrei considerare è quella dell’identità sociale, secondo cui tutti noi, nel nostro quotidiano, oscilliamo tra due identità: un’identità individuale, unica e irripetibile ed un’identità sociale, ossia quella fetta della propria identità appartenente a gruppi. Esempi calzanti dell’identità sociale possono essere il sentirsi parte di una famiglia, di un gruppo di lavoro o di un gruppo di amici. Quando questa identità sociale si fa più forte e viva nella nostra esperienza e coscienza, cambia il nostro modo di vedere le cose ed i nostri interessi. Prendiamo ad esempio una classica domenica italiana, una bella partita di calcio ed una folla di tifosi che riempie lo stadio. Immaginiamo di essere dei fieri tifosi della nostra squadra, in quel momento ci sentiamo parte di qualcosa di più grande di noi e colti dall’energia e dal clima della situazione seguiamo la volontà di chi? Beh, del capo ultras. Quando lui alza un coro noi lo seguiamo, se chiede una ola chi siamo noi per negargliela?
Ma perchè ci affidiamo a questa figura? La teoria dell’identità sociale sostiene che la seguiamo perché il capo ultrà è il membro prototipico del nostro gruppo, ossia è colui che meglio di chiunque altro, in quel dato momento, rappresenta i valori e gli obiettivi del nostro gruppo, in questo caso sostenere e osannare la nostra squadra con quanto fiato abbiamo in corpo. Tutto ciò ovviamente non è per dimostrarvi che Trump sia un capo ultrà ma che Trump sia il membro prototipico del suo elettorato: forte, carismatico, dalla bella vita, un uomo di successo che ha il coraggio di dire ciò che il suo elettorato pensa, rendendolo pertanto il perfetto portavoce del suo gruppo.
Un’altra teoria che ci può essere molto utile per comprendere il fenomeno Trump è la teoria del bisogno di chiusura cognitiva, la quale sostiene come fra di noi ci siano alcuni individui che non hanno la volontà o le risorse mentali per comprendere una realtà sociale complessa come quella di oggi e che ciò nonostante sentono la necessità di capirci qualcosa e non vivere in un perenne stato confusionale. Vi potreste chiedere: come conciliare queste due tendenze apparentemente opposte? La risposta è molto semplice, basta seguire la volontà di un leader, qualcuno che possa al posto del singolo elaborare la realtà sociale e dare risposte semplici e comprensibili ai quesiti della società di oggi. Tutto ciò calza a pennello col caso che stiamo considerando: Trump ha nel tempo più volte dimostrato di saper fornire risposte chiare e semplici a problemi complessi, un esempio su tutti è quello dell’immigrazione, come risolverlo? Semplice, ci serve un muro.
Abbiamo dimostrato quindi che Trump è il leader ideale per il suo elettorato, in grado di rassicurare di fronte ad una realtà sociale complessa e intimorente.
La teoria che stiamo considerando prevede inoltre come gruppi con alti livelli di bisogno di chiusura cognitiva tendano a preferire leader autoritari, in quanto il leader autoritario non lascia spazio al confronto e alla discussione e preferisce far prevalere le proprie idee rispetto a quelle del gruppo. Ciò ovviamente si allaccia perfettamente a quanto detto in precedenza: il confronto, come l’elaborazione della realtà sociale, è molto dispendioso in termini di risorse mentali: perché arrovellarsi su intricati problemi tramite lunghi ed estenuanti brainstorming di gruppo quando basta seguire le indicazioni del leader?
Resta però incomprensibile cosa possa portare l’elettorato trumpiano, per quanto fedele al suo leader, ad occupare e invadere Capitol Hill mettendo tra l’altro a repentaglio le proprie vite. Può venirci in soccorso un fenomeno noto come favoritismo dell’ingroup: i membri di un gruppo tendono ad essere più cordiali e generosi con i membri del loro stesso gruppo, sia per quanto riguarda atteggiamenti che per valutazioni e giudizi, e ben più scortesi e severi con i membri di altri gruppi. Tornando alla nostra metafora calcistica è tragicamente ben nota la forte rivalità che può esistere fra due tifoserie.
Niente inoltre unisce un gruppo quanto un nemico designato, in tal caso la classe politica americana, che da lungo tempo è stata descritta nella narrazione trumpiana come il nemico che ostacola il normale corso del processo democratico e deruba Trump di ciò che gli spetta, la presidenza. Ricerche dimostrano che l’elemento necessario e sufficiente per creare un conflitto tra due gruppi è l’appartenenza ad uno di essi. Di conseguenza se il solo sentirsi parte di un gruppo crea tensioni nei confronti degli altri, immaginate quali sentimenti si possano provare verso un nemico che vi ha derubato del vostro sacrosanto diritto al voto.
Ciò ovviamente non deve lasciarci cadere nel più nero sconforto, tante sono le modalità studiate e messe in atto per evitare il conflitto tra i gruppi. Una delle strategie più efficaci in tal senso è il semplice relazionarsi con i membri del gruppo considerato nemico. Il semplice conoscersi al di là delle etichette e dell’appartenenza ai gruppi è il più forte rimedio naturale al conflitto, così superfluo in tempi tanto complessi e caratterizzati da così tanti cambiamenti.
Antonio L’Abbate